Nei giorni scorsi Roberto Cingolani, ministro per la Transizione ecologica, nel corso di un’intervista televisiva ha affermato che “A noi serve più cultura tecnica, a partire dalle scuole. Soprattutto in un momento di trasformazione digitale velocissimo e impressionante come quello che stiamo vivendo. Fra dieci anni ci serviranno i digital manager per la salute, per l’energia, lavori che nemmeno esistono oggi”. Il ministro ha poi proseguito interrogandosi sull’utilità di insegnare le guerre puniche tre o quattro volte nell’arco di un ciclo scolastico di 12 anni e se non sarebbe invece meglio affrontare l’argomento una volta sola, magari cominciando “a impartire un tipo di formazione un po’ più avanzata, un po’ più moderna, a partire dalle lingue, dal digitale”.
L’affermazione del ministro non sorprende, ma conferma una tendenza ormai sdoganata a screditare le materie umanistiche in nome di un presunto aggiornamento dell’insegnamento che alla storia, alla letteratura e alla filosofia, predilige un’istruzione improntata su un approccio più pragmatico, con un’attenzione particolare per la padronanza del digitale e delle materie tecniche. Ogni volta che si parla di fuga di cervelli, crisi della scuola, precarietà lavorativa e inefficacia di programmi ministeriali ancorati a una visione nozionistica del sapere, c’è sempre qualche esponente della classe politica, di ogni colore e orientamento, che non esita a contrapporre materie umanistiche e materie tecnico-scientifiche. In questa contrapposizione – che parte dal presupposto che non si possa pensare a una integrazione dei due ambiti del sapere – è spesso la storia a essere portata come esempio negativo di ciò che pesa come un fardello sulle spalle degli studenti.
La scuola in Italia è sempre più considerata alla stregua di un istituto il cui unico scopo deve essere quello di formare futuri lavoratori, come risulta chiaro dalla recente dichiarazione del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi secondo cui si dovrebbero portare le aziende nelle scuole a partire dalle medie. Da anni, in effetti, i professori lamentano una concezione sempre più aziendalistica delle scuole e delle università, dove i ranking che dovrebbero attestare la qualità si basano su criteri legati a una presunta spendibilità economica e pratica dell’istruzione, a discapito del ruolo che questa dovrebbe avere nel formare giovani in grado di comprendere, in senso lato, la realtà in cui sono immersi.
Questa visione porta a classificare come “inutile” lo studio di quelle materie che, come la storia, non si traducono in tempi brevi e secondo percorsi lineari in un impiego. I criteri per giudicare l’importanza di un insegnamento dovrebbero però tenere conto delle conseguenze della sua abolizione o del suo indebolimento. In questo senso è allarmante il risultato dell’indagine OCSE-PISA 2018, secondo cui gli studenti italiani hanno difficoltà a comprendere e interpretare un testo e sono pochissimi quelli che leggono, registrando un peggioramento rispetto al 2000. Invece che reagire consolidando e aggiornando il metodo di insegnamento di una materia come la storia che stimola la comprensione di fenomeni complessi, il suo insegnamento ha subito una riduzione sempre più mortificante delle ore curriculari (due ore a settimana nei licei e una sola negli istituti tecnici), tempo che i professori di storia sono ulteriormente costretti a razionare, considerando che viene chiesto loro di ritagliare spazio per l’educazione ambientale, la sensibilizzazione sull’emergenza climatica, la legalità, l’educazione civica, la lotta al bullismo e la violenza di genere e tutta un’altra serie di tematiche fondamentali che non dovrebbero però essere relegate ai ritagli di tempo e spazio, già esiguo, dell’insegnamento della storia.
A rincarare la dose è arrivata nel 2019 la proposta per abolire il tema di storia dall’esame di maturità. Una delle motivazioni era legata al fatto che solo 1% dei maturandi sceglie questa traccia. Ciò che questo dovrebbe suggerire però, non è che le conoscenze storiche siano da gettare nel dimenticataio, come se i piani ministeriali per l’istruzione dovessero attenersi a un qualche tipo di darwinismo per cui meritano di sopravvivere solo le materie più “frequentate” dagli studenti, ma piuttosto che il 99% dei maturandi non sente di avere una preparazione sufficiente in ambito storico per poter affrontare questa prova. In effetti, le tracce di storia riguardano di frequente avvenimenti che risalgono alla seconda metà del Novecento, ed è noto come spesso in quinta superiore si riesca a malapena ad affrontare la Guerra fredda. Questa lacuna che porta a un “analfabetismo storico” potenzia inoltre le disuguaglianze sociali: nelle fasce della popolazione a basso-reddito l’insegnamento risicato della storia raramente viene compensato da stimoli provenienti dalla famiglia, e questo determina un ulteriore motivo di esclusione dal tessuto sociale, alimentando la narrazione per cui lo studio della storia sarebbe il vezzo di privilegiati che hanno tempo da perdere.
La competenza storica è invece uno strumento utile per capire l’attualità e fornire gli strumenti adeguati alla soluzione delle sue criticità. Inoltre, il suo metodo richiede un equilibrio tra rigore filologico e acume interpretativo, attenzione al contesto e sensibilità nel valutarne il peso, precisione e immaginazione: tutte competenze essenziali per un cosciente esercizio della cittadinanza e nello sviluppo del pensiero critico, astratto e laterale. La stessa etimologia del termine storia rimanda ai concetti di “ricerca, indagine e cognizione” ed è per questo che il suo valore fondamentale non risiede solo nelle nozioni che gli studenti sono chiamati ad acquisire, né nel suo spesso osannato ruolo di “magistra vitae”, ovvero di strumento in grado di evitare di ripetere gli errori del passato.
Nozioni e lezioni sono solo due dei possibili modi con cui il passato dialoga con il presente. La storia, o per meglio dire la storiografia – cioè la narrazione e interpretazione dei fatti del passato – è in primo luogo un’educazione al pensiero critico che scoraggia l’ingenuità, la radicalità e la fretta nel classificare ogni fenomeno complesso in termini semplicistici. Si tratta di un’educazione alla riflessione, alla presa di distanza emotiva che non significa freddezza ma coinvolgimento intellettuale maturo, non giudizio istintivo ma osservazione critica. Un insegnamento di questo tipo permetterebbe di capire che non tutto ciò che non risponde alla nostra sensibilità attuale è classificabile come “medioevale”, né ogni piccola riforma politica può essere retoricamente presentata come “traguardo storico”. Conoscere le dinamiche dei fenomeni di lungo periodo aiuta a mettere nella giusta luce forze politiche che usano gli avvenimenti del passato in maniera strumentale e manipolatoria per demonizzare, presentandoli come emergenze, fenomeni del tutto ordinari nella storia dell’umanità, di cui l’immigrazione è solo un esempio. La conoscenza storica serve anche a far suonare campanelli di allarme quando fatti di attualità apparentemente insignificanti premoniscono invece gravi questioni di ordine morale, politico o economico.
Perché la storia sia però davvero percepita come uno strumento, deve essere insegnata di conseguenza. Allo studio dei manuali, che spesso riassumono in maniera asettica il susseguirsi di battaglie, guerre e imperi, si dovrebbe affiancare la familiarità con altri tipi supporti come monografie, romanzi, testimonianze dirette, articoli giornalistici: tutto ciò che possa stimolare una viva curiosità per il passato, rendendo evidente ai giovani studenti che, come scrisse Benedetto Croce, “ogni storia è storia contemporanea”. L’affermazione del filosofo e storiografo parte dalla distinzione tra “cronaca” e “storia”. La prima sarebbe l’insieme di nozioni riguardanti il passato, che se pure sono importanti per una ricostruzione degli avvenimenti, non dicono niente allo spirito e all’intelligenza di chi ne viene a conoscenza. La vera e propria storia, invece, è quella mossa da un interesse vivo (e per questo contemporaneo) di chi, partendo dalle domande del presente, si avventura nella scoperta del passato.
Anche per questo motivo, sarebbe bene, nelle scuole, far dialogare la storia con le altre materie, umanistiche e scientifiche, avvicinando così i ragazzi al passato per mezzo delle loro curiosità. Negli istituti tecnici e nei licei scientifici si potrebbe rafforzare lo studio della storia della scienza e della tecnica, mentre nei licei di scienze umane, insieme all’antropologia, si potrebbe proporre la storia del colonialismo e della decolonizzazione, così come, insieme al diritto, si potrebbe approfondire la storia costituzionale e giuridica. Gli esempi potrebbero continuare con la storia sociale, di genere, dell’alimentazione, dello sport, del cinema, del teatro, e di tutto ciò che aiuterebbe a dare tridimensionalità a passioni e interessi che spesso rimangono appiattiti in un eterno presente percepito come “astorico” e dunque frivolo, quando invece sono una delle potenziali chiavi per motivare anche gli studenti più scettici.
Un avvicinamento della materia ai ragazzi non solo libererebbe la storia della reputazione di materia obsoleta, ma formerebbe cittadini più tolleranti e aperti al pluralismo, consapevoli che le realtà sociali di oggi sono il complesso prodotto di innumerevoli fattori storici che per essere compresi richiedono una immedesimazione attiva e partecipata. “Volete intendere la storia vera di un filo d’erba? Cercate anzitutto di rifarvi filo d’erba; e, se non vi riesce, contentatevi di analizzarne le parti, e magari di disporle in una sorta di storia ideale o immaginosa”, scriveva ancora Benedetto Croce. La costruzione del futuro non passa quindi solo attraverso la digitalizzazione o l’incontro degli studenti con le imprese. Se vogliamo che la scuola formi persone, e non ingranaggi del sistema produttivo, non possiamo permettere che l’insegnamento della storia continui a essere trascurato.