Mentre i poliziotti lo portavano via, Luca Traini assomigliava a un tifoso ubriaco beccato in una fontana pubblica a festeggiare, con lo sguardo di chi comunque si sente orgoglioso per la vittoria della propria squadra. Quella sua bandiera-mantello sembrava allo stesso tempo celebrazione e scudo. Sembrava dire: “L’Italia è grande e l’Italia mi difende, io non sono Luca Traini, io rappresento il mio Paese natio, io non agisco per interesse personale ma per la difesa di una cosa più grande di me. La somma del tutto è superiore ai singoli.” Il bersaglio era una generica popolazione straniera a Macerata, rappresentante nella sua testa dei pusher accusati della morte di un’italiana e stampa e istituzioni devono ancora decidere se etichettarlo come terrorista o come pazzo squilibrato.
Tutti i leader dei partiti in corsa alle elezioni di marzo hanno cercato di sfruttare l’evento a proprio piacimento: Berlusconi ha parlato di “gesto di uno squilibrato”, allontanandolo dalla questione politica, e ha collegato il fatto alla sua nuova promessa migratoria – “Manderò via 600mila immigrati, sono una bomba sociale pronta a esplodere”; Salvini, invece, ha dato un colpo alla botte e una al cerchio: “La violenza è sempre da condannare da qualunque parte arrivi, ma ho il dovere di dire agli italiani come cercherò di evitare altri fatti come quelli di Macerata, aumentando le espulsioni, dando più supporto alle forze dell’ordine”, e ancora: “La responsabilità morale di ogni episodio di violenza che accade in Italia è di quelli che l’hanno riempita di clandestini.”
Matteo Renzi invece, al videoforum de La Repubblica ha tirato fuori i valori di sinistra, le forze armate e la patria: “Non sono i pistoleri a garantire la sicurezza in Italia. Bisogna investire su Carabinieri e Poliziotti,” aggiungendo che “Prima di tutto c’è l’Italia, la difesa dell’Italia e gli italiani e quelli li difendono solo le forze dell’ordine, non i pistoleri che sparano all’impazzata.” #Minniti #Kossiga #Internazionalesocialista. Chi lo sfrutta di più a livello politico è proprio chi dichiara di non volerlo fare, come Luigi Di Maio, che nel dubbio ha attaccato la Casta: “I partiti ci hanno fatto i soldi con l’immigrazione”.
A prescindere dal teatro elettorale, Traini rappresenta davvero una squadra, quella di chi nei momenti di crisi crede che l’autarchia curi ogni male, che usa un tricolore stropicciato in poliestere come mantello da supereroe, che odia l’Europa, Laura Boldrini, i kebab, il “buonismo”, e adora invece croci celtiche, busti di Mussolini e armi da fuoco. Infatti, per dimostrare la non singolarità dell’evento, qualche giorno dopo a Ponte Milvio a Roma è apparso uno striscione con scritto nel classico font runico dei neofascisti “Onore a Luca Traini”. Mentre Forza Nuova ha pagato le spese legali del “pistolero”, come a dirgli, “non sei solo”.
La parola “onore” dipinta sullo striscione nelle zone di Moccia, come lo stesso tricolore, è stata invalidata dai vent’anni di regime mussoliniano. Uno degli slogan fascisti diceva: “La bandiera si onora degnamente in un modo solo. Compiendo sempre e comunque il proprio dovere.” Ma quello del dovere è un concetto abbastanza relativo.
Nel 1789 in Francia si formalizzò il bye bye all’Ancien Régime con la firma della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. E già nell’autunno dello stesso anno in giro per Genova si vedevano i primi verdi, bianchi e rossi, in coccarde che riprendevano quelle dei sanculotti francesi. Rappresentava sia la volontà di cambiamento sociale su propulsione Illuminista – “dell’uomo”– sia una richiesta di autodeterminazione dei popoli – “del cittadino”. Così questi colori iniziarono a trovare spazio nelle nuove bandiere delle repubbliche che nel nord si creavano con le vittorie napoleoniche e le ritirate austriache. Il vero e proprio tricolore fu scelto ufficialmente su mozione di Giuseppe Compagnoni a Reggio Emilia alla fine del 1789 per la Repubblica Cispadana. Quando l’anno successivo questa si unì con quella Transpadana e ne nacque la Repubblica Cisalpina, il tricolore ne diventò il vessillo. Nel periodo di “occupazione” imperiale Napoleonica pre-restaurazione la bandiera del Regno d’Italia era più o meno identica a quella che oggi si usa per il Quirinale, ma con in mezzo lo stemma bonapartista.
Morto Napoleone e tornati gli austriaci, ecco il Risorgimento. Il tricolore diventò la rappresentazione della lotta per l’unificazione, contro il papato e l’invasore; il tricolore venne innalzato dai bersaglieri che diffondevano laicità tra le rovine romane, dai giovanissimi garibaldini imbarcati verso il sud, da Mazzini quando chiese l’abolizione dei privilegi aristocratici e la promozione dell’istruzione pubblica.
Ecco cosa rappresentava un secolo e mezzo fa la combinazione verde-bianco-rosso. Ma come tutte le cose belle che prima o poi finiscono, così il tricolore savoiardo si macchiò prima di spirito colonizzatore in Africa e trasformismo parlamentare a Montecitorio, poi di nazionalismo guerrafondaio, di dannunzianesimo e di “riprendiamoci Istria e Dalmazia”. Ardenti e irridenti, pugnale tra i denti. Con la legge Acerbo, per quanto anche il nero iniziò forzatamente a essere di moda, la bandiera italiana fu emblema di regime mussoliniano e brutte amicizie tedesche. Nel 1943 con l’armistizio di Cassibile, la bandiera, come il Paese, si sdoppiò: un tricolore identico a quello di adesso venne usato a Salò – nella versione guerrigliera c’era l’aquila con le ali aperte e una bomba a mano – mentre nel tricolore partigiano capeggiava sulla striscia bianca la stella a cinque punte del Comitato di Liberazione Nazionale. Negli anni della Repubblica il tricolore è stato lo stadio, un segnaposto ai G7 e al massimo, le Olimpiadi, fino a che Berlusconi non ha monopolizzato il grido “Forza Italia”, rendendo difficile per le persone di sinistra, o in generale per bene, tifare a voce alta per gli Azzurri.
Oggi, passeggiando per Roma, si vedono alimentari che con orgoglio espongono la bandiera di “negozio italiano”, per invitare i clienti a preferirli ai market gestiti da “bangla e paki”. È diventata quello che un tempo era la coccarda giacobina, uno scudo per la paura degli altri. Se all’estero il tricolore è accompagnato da mascotte baffute installate di fronte alle pizzerie o stampato su menù che di italiano hanno ben poco, sulle spalle di un neo-nazi il tricolore diventa manifesto di salvaguardia del Paese.
Inutile fare paragoni con le altre nazioni: certo, ogni Paese ha il suo percorso storico, e il suo rapporto con il patriottismo. Negli Stati Uniti, come in Francia, è una qualità bipartisan l’essere fieri del proprio Paese. Ma anche oltralpe c’è stato il rischio del furto destrorso di Lepen della Marianne e della Marsigliese, tanto che Ségolène Royal, allora candidata per il partito socialista alla presidenza, nel 2007 invitò la gauche a riprendersi i simboli nazionali che la destra stava facendo propri. È quello che i partiti di sinistra dovrebbero fare in Italia? Togliere il monopolio dei tre colori a CasaPound, a Berlusconi e alla fiamma di Giorgia Meloni per farli diventare simboli del progresso? Oppure scegliere di nascondersi dietro la bandiera blu dell’Unione Europea e auspicare per la sinistra un neo-internazionalismo liberal-tedesco con sede a Bruxelles? O tornare alla nostalgica “rossa sua bandiera, vittoriosi, al fin liberi siam”, che sembra il caso del simbolo di Grasso, lasciando la Patria alla destra?
È d’interesse, riguardo all’uso della bandiera nel caso Traini, scoprire che il ventottenne era stato candidato nel 2017 con la Lega Nord, cioè lo stesso partito il cui leader maximo in canottiera nel 1997 urlava, davanti ai comaschi vichinghizzati: “Con il tricolore mi ci pulisco il culo”. Cos’è successo alla Lega, al guerriero di Legnano, al Roma Ladrona, ai ministeri a Brescia, alla polenta? Alle elezioni regionali in Sicilia il Carroccio ha preso “Diecimila voti, come a Milano”.
Se fino al 2012 Salvini diceva: “L’euro al Sud non se lo meritano. La Lombardia e il Nord l’euro se lo possono permettere. Io a Milano lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia e ha bisogno di un’altra moneta. L’euro non se lo può permettere,” nell’ottica della Lega 2.0 l’islamico è il nuovo terùn (sempre per tornare a termini bossiani), immigrati e rom sono i nuovi fannulloni e l’Unione Europea è il nemico dei lavoratori. A quanto pare Matteo Salvini non sembrerebbe più voler Roma per eliminare Roma, come i suoi predecessori lùmbard, ma Roma come capitale della Patria da proteggere, per spazzare via dalla penisola tutti i foresti che sputano per terra e bivaccano davanti a Milano Centrale – “Milanistan”, la chiama lui. Aristofane diceva che “La patria è sempre dove si prospera,” e considerato che Salvini prende lo stipendio da Bruxelles, che non ci diventi oltre che patriottico, Europeista.