Una meravigliosa atmosfera anni ’20. È quella che contraddistingue l’attuale situazione socio-politica italiana, sebbene le grandi differenze tra l’Italia di oggi e quella di cento anni fa siano evidenti e le analogie invece più sottili. Cosa lega l’Italia di oggi a quella del 1918? Innanzitutto, se la Grande Guerra lasciò il nostro paese con oltre 1 milione 2mila morti tra militari e civili e un debito pubblico triplicato, la Grande Crisi iniziata nel 2008 negli Usa, sul piano finanziario è stata equivalente a una terza guerra mondiale, combattuta attraverso mezzi economici e finanziari tra i paesi più industrializzati del mondo, rimodellandone le relazioni reciproche in maniera irreversibile. L’Italia ha perso oltre il 20% della propria capacità industriale e quasi la stessa percentuale di Pil, cifre che ricordano appunto i danni di un conflitto su larga scala, durante il quale è avvenuto un cambiamento generale nei rapporti di forza tra élite. L’indebolimento della classe media, del suo potere d’acquisto e delle sue prospettive rispetto al grande capitale ci ha portato allo scenario politico odierno. L’egemonia economica tedesca, le problematiche francesi legate alla spesa pubblica eccessiva, il progressivo isolazionismo della Gran Bretagna esemplificato dalla Brexit e – dieci anni dopo la crisi – una politica statunitense isolazionista che ha portato alla cancellazione unilaterale del TPP e la messa in discussione di altri importanti trattati internazionali, sono tutti fattori che caratterizzarono anche i primi anni ’20.
L’Italia ha attraversato un profondo mutamento sociale, iniziato con la fine della cosiddetta Prima Repubblica e realizzatosi nel lungo periodo berlusconiano, che ha stravolto le stesse concezioni di Stato e di Governo, nel modo in cui la Costituente le aveva pensate. È stato il periodo storico nel quale abbiamo assistito all’esplosione del rapporto debito/Pil, che oggi tanto grava sulla vita e la politica del paese, e soprattutto ha rappresentato un profondo mutamento culturale nella percezione delle cose. Lo smantellamento di buona parte del sistema scolastico e di vaste aree del welfare, insieme all’introduzione di forme lavorative estremamente flessibili e prive di protezioni, non potevano che portarci ad ampliare il divario tra ricchi e poveri, nel quale il valore della cultura come strumento di progresso e riscatto è fortemente diminuito nella percezione popolare, mentre intere generazioni hanno perso le garanzie pensionistiche e lavorative dei loro genitori e nonni. Nell’arco di trent’anni è stato seminato quel rancore che ha portato all’affermazione di movimenti politici anti-sistema – seppur solo apparentemente – cui assistiamo oggi. In una frase: è avvenuta la mutazione antropologica profetizzata da Pasolini.
Anche nel 1918 gli Stati Uniti vivevano un dorato isolazionismo, proteggendo il loro mercato interno e lasciando la vecchia Europa alle sue lotte secolari; la Russia era chiusa in se stessa e il suo mercato ristretto dalle sanzioni; la Gran Bretagna si dedicava al suo immenso impero coloniale, così come oggi si raccoglie attorno al sistema del Commonwealth. L’Italia, Cenerentola tra le nazioni occidentali, scalpitava per avere la sua fetta di torta della modernità. Era l’epoca in cui il pregiudizio antiebraico si manifestava con la pubblicazione dei famosi Protocolli dei Savi di Sion – rivelatisi poi un falso storico creato dalla temuta polizia politica zarista – e in Francia si era da poco spenta l’eco del processo Dreyfus, emblematica presa di posizione contro un ufficiale reo solo di essere di origini ebraiche. Quanta differenza c’è con ciò che sentiamo dire ogni giorno su Soros, Rotschild e capri espiatori simili?
Così come fu per il Movimento dei Fasci di Combattimento e poi per il Nsdap di Hitler, la retorica del cambiamento, della violenza rivoluzionaria e del destino del popolo sovrano è attuale come non mai, insieme alla rinnovata ostilità tra Italia e Francia per il controllo delle risorse libiche – che può ragionevolmente spiegare l’utilizzo strumentale della questione migratoria in polemica col governo francese. La Libia è stata ragione del contendere tra Francia, Inghilterra e Italia per decenni, e la salita al potere di Gheddafi è sempre apparsa come una manovra ben riuscita dei servizi italiani per scacciare il Regno Unito dal Paese facendo cadere la monarchia libica a essa collegata. In fondo, poco è cambiato dall’epoca dei proclami sul mare nostrum e sul primato degli italiani.
Se oggi la propaganda salviniana verte a rafforzare il ruolo dell’Italia nello scenario europeo, allora la retorica di D’Annunzio e Mussolini si basava sull’ idea di vittoria mutilata italiana alla fine della Grande Guerra: un altissimo numero di vittime – dovuto principalmente all’incompetenza dello Stato Maggiore e degli ufficiali, e alle tremende condizioni in cui si trovavano i soldati del Regio Esercito – quasi nessun vantaggio in termini territoriali, e il crollo dei roboanti ideali che avevano portato l’Italia, inizialmente attendista, a dirigersi verso la catastrofe per avere maggiore peso politico. Come nel 1919 – anno della nascita del movimento dei Fasci di Combattimento a Milano – anche oggi la frustrazione e la propaganda politica si focalizzano sul repertorio della storica propaganda di destra: le banche, le altre nazioni europee, i ricchi ebrei, le lobby finanziarie, gli omosessuali, i poveri, i neri. Con l’aggiunta della categoria degli “immigrati”, inesistente all’epoca per il semplice fatto che durante il ventennio fascista erano gli italiani a emigrare, principalmente verso la Francia e l’America. Su questa retorica Mussolini fondò il proprio potere personale, raccogliendo il consenso di milioni di italiani che non si riconoscevano nella politica del tempo. Milioni di cittadini pronti a sostenere qualunque forza politica che promettesse novità, cambiamento, benessere per la nazione, che professasse una presunta superiorità civile, morale e infine razziale, che si dichiarasse nemica del vecchio ordine in nome del popolo, e che non avesse paura di usare la forza, soprattutto se sicura di poterla aver vinta. Le stesse cose che sentiamo costantemente dire ogni giorno. È sempre lei, la demagogia: il problema infinito della democrazia.
Una grande intuizione del movimento fascista fu proprio quella di legare la spinta popolare verso il cambiamento sociale, alla politica di destra, pur avendo avuto in origine tendenze anticapitaliste e anticlericali – che abbandonò immediatamente per spezzare con estrema violenza gli scioperi di contadini e operai. Il premio di questo sostegno fu permettere al Partito di Mussolini di farsi prima Governo e poi Stato.
C’è di sicuro un fattore, almeno per il momento, che differenzia le epoche: la Rivoluzione d’Ottobre. Fu questa, più di ogni altra cosa, la principale ragione della fine della Guerra Mondiale. La paura del diffondersi della rivoluzione comunista spinse Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Polonia, Romania, Giappone e infine l’Italia a inviare una spedizione militare in Russia nel 1919 per appoggiare la fazione controrivoluzionaria nella lunga guerra civile russa. Il nostro Paese partecipò all’invasione con circa 2.500 soldati – in buona parte membri di una Legione Redenta di ex-prigionieri di guerra austriaci di origine italiana e altri corpi di alpini – immediatamente dopo la fine della guerra più sanguinosa della sua storia. Questa puntualizzazione si rende necessaria per inquadrare l’atmosfera di forte anticomunismo dell’epoca, capace di mettere insieme ogni forza nazionale e politica secondo il potente principio dell’unità dei gruppi: la divisione tra ‘noi’ e ‘loro’, il gruppo e il nemico esterno.
Oggi nessuna rivoluzione all’orizzonte sembra minacciare lo stato delle cose, e se possiamo individuare un ‘nemico esterno’ ideologico lo troviamo nella globalizzazione e nelle sue dinamiche, rappresentate dall’Unione Europea da un lato e dall’ “invasione” di migranti dalle coste africane. L’affermazione di forze nazionaliste in molti Paesi europei si basa appunto sulla rivendicazione della sovranità nazionale e monetaria, sulla chiusura dei confini per tutelare l’identità nazionale, sul sentimento di una progressiva perdita di status e privilegi nei confronti delle popolazioni di altri Paesi.
In tutto questo, l’Ue rischia di frantumarsi sotto i colpi di partiti politici ispirati alla destra storica, con dichiarate nostalgie per i metodi autoritari degli anni ’20 e ’30, e in apparente lotta contro il grande capitale, la libertà senza freno dei mercati, la mercificazione della società, la libertà di scelta dei cittadini. Ancora una volta i temi della sinistra rivoluzionaria vengono fatti propri da un governo che dichiara di voler restare al potere trent’anni.
Crisi economica, protezionismo, malcontento diffuso, tagli al welfare dello Stato: sono tutte cose che ritroviamo oggi come cento anni fa. A settembre si attende il varo della legge di stabilità che dovrebbe attuare il programma economico dei partiti al governo, in un clima di importanti scadenze finanziarie che potrebbero portare in breve tempo all’insostenibiltà dei tassi d’interesse del debito pubblico. L’esecutivo potrebbe cadere, dando la colpa ai ‘mercati’, o tenere duro e andare per la propria strada, esacerbando ancora di più la situazione. Ad ogni modo il passo successivo saranno le elezioni europee, vero test internazionale per la Lega che vuole porsi a capo della frangia sovranista europea, e prima o poi le elezioni politiche, in cui Salvini tenterà il colpo grosso di far diventare la Lega primo partito d’Italia, all’apice della sua popolarità. Tra 4 anni ricorrerà il centenario della marcia su Roma, e visti i presupposti potrebbe essere l’occasione per mettere alla prova la tenuta della legalità repubblicana: quel giorno importerà davvero molto chi sarà al governo. Si sente citare spesso la frase “Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”. È sempre stato vero. E il popolo italiano sembra davvero avere la memoria corta.