A Beach Groove, negli anni ’30, nessuno avrebbe mai scommesso sul futuro del bambino che Julia Crawford teneva in braccio. Lei e suo marito William erano immigrati dalla Slovacchia, vivevano in un appartamentino fatiscente e tiravano a campare; lei si prostituiva, lui lavorava come stuntman al circo. Terence era nato il 24 marzo, ma a suo padre non piaceva l’idea di diventare genitore, così dopo sei mesi aveva tagliato la corda. Dopo avere svezzato il piccolo, Julia l’aveva spedito da uno zio a Slater, nel Missouri, e lei aveva ricominciato a dedicarsi alle sue due grandi passioni: il whisky e gli uomini. Terence ci aveva messo poco a mettersi nei guai, ciondolando per i vicoli con altri ragazzini come lui. Dopo l’ennesima rissa, lo zio l’aveva rispedito a Beach Groove. Julia ormai era alcolizzata, passava da un amante all’altro e se li sceglieva tutti simili al suo vecchio marito, cioè cattivi e maneschi.
La vita e la carriera di Terence iniziano qui. A tredici anni passa buona parte del suo tempo in strada con le gang del posto. Lo portano da Matilda, una ragazzina di quindici anni che si prostituisce in cambio di dolciumi. Per una torta intera lei fa i turni con tutta la banda, e Terence perde la verginità. Va avanti a furti, risse e aggressioni; la polizia comincia a bussare alla porta di Julia troppo spesso, così la madre lo manda al Boy’s Republic, un posto a metà tra riformatorio e scuola da cui si può uscire solo il fine settimana. Terence, però, non esce mai; la madre si dimentica di andarlo a prendere o è ubriaca. È un bene, in realtà. Buona parte degli uomini di cui Julia si circonda picchiano sia lei che lui. Appena raggiunge l’età minima, Terence corre ad arruolarsi nei Marines come carrista. Dimostra subito scarsissima attitudine alla vita militare e alla disciplina, e in tre anni viene degradato sette volte, totalizzando 41 giorni in prigione per rissa. Poi, durante un’esercitazione nell’Artico, il suo carro finisce sott’acqua e lui aiuta i commilitoni a uscirne. Grazie a quel gesto viene congedato con onore nel 1950.
Non sapendo cosa fare, gira gli Stati Uniti.
A Myrtle Beach, nella Carolina del sud, diventa autista per la malavita e fa il rapinatore finché uno dei suoi soci si prende una pallottola. Decide che è meglio fare qualcosa di più tranquillo, così va a Washington e fa prostituire una ragazza, Lindy. Quando lei riposa, lui vende armi nel mercato nero. Le cose vanno bene finché un altro pappone lo minaccia. A quel punto, finalmente, fa la scelta giusta: va a New York. Negli anni ‘50 la Grande mela è il posto dove le cose succedono. Trasuda ricevimenti, feste, uomini e donne da ogni parte del mondo ci si riversano per conoscersi e creare aziende o entrare nel mondo dello spettacolo. Ovunque ci sono cantanti, attori, personalità dello spettacolo e giornalisti. Terence ha a disposizione una borsa di studio concessa ai militari in congedo, così sceglie la Neighborhood playhouse, una delle migliori scuole di recitazione a NY. Per entrare gli chiedono d’improvvisare una parte, lui non ha idea di cosa fare e si limita a imitare un gangster che ha conosciuto. Su duecento candidati, richiamano solo lui e un altro, tale Martin Landau. Quando gli chiedono come si chiama, lui evita il suo primo nome e usa il secondo: è appena nato Steve McQueen.
Per cinque anni fa teatro a Broadway e qualche particina minore in televisione, fino alla grande occasione: nel 1956 recita con Paul Newman su “Qualcuno lassù mi ama”, e Steve è ipnotizzato da Newman. Vede in lui un metro di paragone e un obiettivo da raggiungere. A una festa conosce Neile Adams, un’attrice già affermata, ed è amore a prima vista. Lei decide di credere in lui, gli offre ospitalità e aiuto economico. Per sdebitarsi, ogni fine settimana Steve va in periferia a fare gare di moto clandestine, che gli fruttano un centinaio di dollari – oggi circa mille euro – a settimana. Neile riceve un contratto dalla Metro Goldwyn-Meyer ed è costretta ad andare a Los Angeles, mentre lui resta a New York per un paio di mesi. Poi la raggiunge con un anello di fidanzamento e si mette a fare provini. Quasi per caso gli fanno fare un film horror di serie B – che oggi chiameremmo capolavoro – chiamato Blob.
È il 1958 e Steve McQueen è ancora nessuno. Neile, impietosita, supplica qualunque produttore di trovargli una parte. Ha i lineamenti molto diversi da Paul Newman, sembra quasi il suo gemello cattivo. Così i produttori decidono di affidargli solo ruoli da cattivo che gli altri attori detestano o evitano. Finisce in una serie TV, Wanted: dead or alive e diventa un successo. Finalmente ha un futuro, così fa due figli e si prepara ad affrontare il passato. Assume un investigatore per rintracciare suo padre. Lo trovano, ma è troppo tardi: William è morto tre settimane prima. Viveva con la fidanzata in un sobborgo di provincia, e lei dice all’investigatore che William guardava sempre Wanted: dead or alive domandandosi se quello fosse davvero suo figlio.
Per Steve è un pessimo colpo, mentre invece la carriera cresce: fa I magnifici sette con Charles Bronson e Yul Brinner solo perché mentre Yul non sa usare le armi, Steve ha imparato nei Marines. Ha anche un’altra fortuna: Steve McQueen ha i capelli, mentre Yul Brinner è calvo in un’epoca in cui la calvizie viene coperta dai toupet, altrimenti una pelata su schermo distoglie l’attenzione da qualsiasi altra cosa.
Poi, nel 1963, arriva La grande fuga.
Il ricordo della seconda guerra mondiale è ancora vivo nei cuori degli americani. La grande fuga racconta di un fatto realmente accaduto, ma in maniera farsesca e scanzonata, ritraendo i nazisti come idioti e gli americani come ragazzotti scapestrati e furbi. Sul set, Steve ha un’intuizione: fa aggiungere la scena dell’inseguimento in moto nella campagna tedesca e la gira senza controfigura. Quando salta il filo spinato, entra nella Storia del cinema e diventa un’icona internazionale. A 33 anni compra una villa, va a trovare spesso il suo vecchio riformatorio, mangia con i ragazzi alla mensa e fa donazioni importanti. Ma quando le notti di Hollywood lo chiamano, lui ne sta lontano.
È un esterno, e si vede da tutto. Da come si veste, come porta i vestiti, come preferisce le giacche sportive corte ai cappotti, come ignora le mode e preferisce i tre pezzi senza fronzoli ai due pezzi che vanno di moda. In ogni film sceglie lui come vestirsi, e non ne sbaglia una. Reinventa la moda maschile negli anni in cui Cary Grant ha outfit impeccabili, lui porta il fazzoletto da taschino stropicciato, le cravatte sottili sono strette e portate come se non fossero formali, le giacche sportive in Harris tweed le butta sopra maglioni a girocollo, si fa vedere in moto con l’onnipresente G9 di Baracuta che diventa un capo iconico, porta stivali da motociclista sotto pantaloni eleganti, e nel frattempo macina un film eccezionale dietro l’altro. Fino al 1965.
Alla prima di Cincinnati Kid, gli telefonano dall’ospedale per dirgli che sua madre ha avuto un’emorragia cerebrale. L’aveva sempre tenuta a distanza, giurando che l’avrebbe avvicinata al momento giusto. Per un appassionato di motori e velocità come lui, dopo essere arrivato in ritardo da suo padre non vuole fare lo stesso con sua madre. Lascia il cinema e corre a trovarla all’ospedale. Julia Crawford muore il mattino dopo. All’improvviso, la velocità e il rischio diventano un’ossessione. Dopo L’affare Thomas Crown c’è Bullitt, in cui rifiuta qualsiasi controfigura e fa uno degli inseguimenti in macchina più rischiosi dell’epoca. Per le strade di Los Angeles cominciano ad arrivare le droghe degli hippie, e Steve comincia a sniffare cocaina e a farsi di LSD.
Il pomeriggio dell’8 agosto 1969 Sharon Tate, moglie di Polanski, lo invita a una cena informale tra amici a Cielo drive. Lei è incinta di otto mesi, e non è il caso esca a fare bagordi. Forse è solo per stare in compagnia, o forse per parlare di lavoro. Steve accetta, ma quando arriva l’ora di uscire è già su di giri. Quando esce di casa incontra una ragazza. Si piacciono, flirtano e finiscono in un bar. Il tempo corre e Steve si dimentica della cena a casa di Sharon. Forse è una sfortuna per lei, ma di sicuro una fortuna per lui. Perché nello stesso momento, a casa di Sharon Tate, sono entrati Charles Manson e i suoi seguaci. Hanno ucciso tutti, inclusa Sharon e il suo bambino. Se Steve fosse stato lì, forse le cose sarebbero andate diversamente: era un ex Marine, sapeva usare il coltello e conosceva il combattimento corpo a corpo. O forse sarebbe morto assieme agli altri. In ogni caso, la morte l’ha schivato di un pelo. Di nuovo.
Lui e Neile iniziano a girare armati, e sniffano ancora di più. Steve alza le mani su di lei, diventa irascibile e snobba chiunque lo contraddica. Nel 1970 è uno dei più autorevoli e ricchi attori del mondo, e contro ogni opinione decide di realizzare a sue spese il film dei suoi sogni: Le 24 ore di Le Mans, che interpreta in prima persona senza controfigure né attori. Al botteghino fa risultati tiepidi, mentre la critica lo stronca. Lui diventa ingestibile, e in un anno perde moglie, figli, casa e alleati in quel covo di vipere sorridenti che è Hollywood. Girano voci, su di lui. I registi dicono che lavorare con Steve è un inferno perché arriva ubriaco o drogato, costringe tutti a posticipare le riprese, rischia di mandare a rotoli la produzione.
Ma è pur sempre Steve McQueen.
Dopo un anno di isolamento, nel 1972 diventa il protagonista cattivo di Getaway. Sul set si innamora di Ali McGraw, attrice con la metà dei suoi anni e adorata dall’America perché ha l’immagine della brava ragazza, e in effetti Ali oltre a essere un’attrice è un’intellettuale di New York.
Finiscono sulle pagine dei giornali di tutto il mondo, e la foto della bella e la bestia fanno copertine meravigliose nei giornali di gossip, mentre al cinema l’interpretazione di Papillon e poi quella di L’inferno di cristallo fanno una cascata di soldi. A 34 anni è all’apice del successo, ha soldi per tre generazioni e può fare tutto ciò che vuole.
Invece si ritira.
Diventa un vagabondo che colleziona auto e motociclette, fa gare clandestine e rifiuta copioni scritti per lui. Sceneggiatori, registi e produttori lo raggiungono in spiaggia o in qualche ritrovo di motociclisti proponendogli di recitare film che diventeranno capolavori. Lui rifiuta Qualcuno volò sul nido del cuculo, Apocalypse now, Rambo, Dirty Harry, Incontri ravvicinati del terzo tipo. Rifiuta Butch Cassidy perché esige lo stesso stipendio di Paul Newman. Lascia Ali e si mette con una modella, Barbara, anche lei giovanissima. Va a vivere con lei in una località sperduta dove prende il brevetto di volo e si diverte a fare acrobazie con i vecchi aerei della seconda guerra mondiale. Il volo, come a molti, gli cambia la percezione delle cose e della vita. Nel 1979 decide di tornare ai western, ma nelle scene d’azione è sempre senza fiato. Sta male, non ha mai appetito e dimagrisce a vista d’occhio. Ha un cancro inoperabile ai polmoni, forse derivante dall’alluminio respirato nei Marines. Gli danno sei mesi. L’ultima gara di Steve contro il tempo consiste nel mettere in ordine la sua vita. Fa pace con le sue ex, con gli attori con cui ha litigato e con i suoi figli, poi va da dei medici messicani che millantano di potergli fare una terapia innovativa a base di caffè e vitamine.
Muore a Ciudad Juarez il 7 novembre 1980.
Di Steve McQueen, oggi, molti hanno perso il ricordo. Eppure, ironia della sorte, si vede una traccia di lui in ogni outfit maschile nelle riviste di moda, in ogni uomo che gira per strada, in ogni intuizione che hanno gli stilisti. Steve McQueen è la risposta alla domanda che si fanno molti, cioè quando e perché l’uomo ha abbandonato il dress code strettamente aziendale per diventare sportivo e poi casual: perché lui gli ha mostrato che si poteva fare, e quanto si poteva essere cool anche con una G9, o con un girocollo.