È tempo di rimuovere la statua dedicata a Montanelli

È il 14 agosto 1944 quando tre uomini e due donne varcano la frontiera tra l’Italia e la Svizzera passando per Novazzano, nel Canton Ticino. Novazzano rappresenta una meta ambita da moltissimi italiani – dissidenti, antifascisti, disertori ed evasi – che cercano di sfuggire alle persecuzioni del Regime nella Confederazione Elvetica, soprattutto ora che il confine sud è stato sigillato. Al posto dogana di Stabio-Confine, la guardia accoglie subito una delle due donne, una cittadina americana, e uno degli uomini, vicebrigadiere. Gli altri tre vengono classificati “profughi politici o partigiani” e considerati idonei per l’accoglienza provvisoria. Fra loro c’è un uomo di trentacinque anni, alto, moro e di bell’aspetto. Ha con sé molti soldi e una valigia contenente tre completi, quattro camicie, un impermeabile, tre paia di scarpe e dodici fazzoletti. Più che il bagaglio di un guerrigliero perseguitato è quello di un milanese pronto per un week-end fuori porta. Si chiama Indro Montanelli, professione: giornalista.

È così che comincia la storia, o la presunta tale, del “testimone del secolo”, come lo definì Silvio Berlusconi all’indomani della sua morte. Ma testimoni lo si può essere in molti modi: osservando le cose da lontano, tenendosene bene in disparte, o da vicino, vivendo e cambiando la storia in prima persona. Ma lo si può essere anche facendosi trascinare dagli eventi, evitando accuratamente di schierarsi o, ancora peggio, appoggiando di volta in volta la parte più comoda. Marc Bloch in Apologia della Storia ci ricorda che per formulare un giudizio di valore su una persona che ha fatto parte della Storia, dobbiamo innanzitutto rapportarla a un sistema di punti di riferimento morali. “Siamo davvero tanto sicuri di noi stessi e del nostro tempo, da separare, nella folla dei nostri padri, i giusti dai dannati?”, si chiede lo storico.

 

Indro Montanelli non fa parte né dei giusti né dei dannati. Anche se quei punti di riferimento morali di cui parla Bloch, come spesso avviene, si riducono a semplici etichette, quelle dedicate a Montanelli sono molte. Una su tutte è quella di “principe” del giornalismo italiano. Schietto e austero, ai limiti della misantropia, ma anche brillante, geniale, provocatorio. Di lui ne esce spesso l’idea di un giornalista intellettualmente onesto e fuori dagli schemi. A contribuire a questa retorica ci sono sicuramente la sua ingombrante personalità e la sua indubbia capacità di giornalista e scrittore, ma soprattutto la sua abilità nel raccontare un passato così glorioso da sembrare quasi mitico, andando a solleticare le fantasie di quella destra che aveva ancora un piede nella melma fascista con la solfa del “fascismo degli antifascisti”. Oggi Indro Montanelli ha dei giardini dedicati a Milano, con tanto di statua che lo ritrae intento a scrivere. Ma non è così scontato che se li meriti.

Il lasciapassare di Indro Montanelli, quello che l’ha reso difficilmente attaccabile anche dalla sinistra e che gli ha permesso di esprimersi spesso in modo caustico sull’antifascismo, è la sua “militanza” nella Resistenza. Peccato che, come puntualmente ricostruito da Renata Broggini nel saggio Passaggio in Svizzera, di antifascista in Montanelli non ci sia mai stato granché. Secondo quanto ricostruito da Broggini, al confine elvetico, dove fu registrato come “profugo politico o partigiano”, Montanelli arrivò in auto in pieno giorno, alle undici del mattino, partendo da Milano e superando senza problemi SS e Polizia Confinaria. Montanelli, su cui pendeva una condanna a morte, si sarebbe dovuto trovare a San Vittore ma la sua – più che la rocambolesca fuga di un evaso in Svizzera – sembra una gita fuori porta. Racconterà di essere stato aiutato dal Comitato di Liberazione Nazionale in quanto partigiano appartenente al battaglione guidato dal disertore Filippo Beltrami. Beltrami gli avrebbe anche concesso l’onore di dividere con lui il compito di Capitano nei boschi del novarese. Ma quando Montanelli salì al Lago d’Orta non trovò nessuno: secondo la sua testimonianza disgraziatamente Beltrami e la sua compagnia furono trucidati dai tedeschi proprio quel giorno.

Filippo Beltrami

In realtà Montanelli di giorni di Resistenza non ne fece neanche mezzo, e non per colpa dell’omicidio di Beltrami, che non morì il giorno in cui il giornalista cercò di raggiungerlo, ma una settimana dopo. Non fu mai chiamato infatti da Beltrami a dividere il comando, anzi, non fu mai chiamato da Beltrami in toto. Fu Montanelli stesso a supplicare un’amica, sorella della moglie di Beltrami, di accoglierlo nel nucleo partigiano di montagna. La polizia tedesca lo cercava in città, e il gruppo milanese di Giustizia e Libertà a cui faceva riferimento lo aveva isolato per i suoi modi imprudenti. Il CLN non lo aiutò mai a fuggire in Svizzera. A organizzare lo spostamento fu piuttosto Luca Ostéria, detto “dottor Ugo”, funzionario della Polizia repubblichina e spia collaborazionista dei tedeschi, responsabile della morte di Carlo Bianchi e Teresio Olivelli. I permessi per la scarcerazione e la circolazione furono firmati da Theodor Saevecke, il Boia di Piazzale Loreto. Quando quest’ultimo fu processato nel 1999, Montanelli testimoniò in suo favore, scatenando l’indignazione dei parenti delle vittime. “Io me ne fotto dei loro rumori,” avrebbe detto il principe del giornalismo.

Theodor Saevecke
La strage di Piazzale Loreto

Con ogni probabilità non fu una accesa vocazione antifascista a spingere Montanelli a “militare” in Giustizia e Libertà, bensì il fatto che fosse stato incluso da Mussolini in persona in una lista di nemici, anzi, di “profittatori del Fascismo”. Il Duce non lo vedeva nemmeno come un oppositore politico. Imprigionato sul Gran Sasso, controllava ossessivamente i giornali per sapere chi gli era rimasto fedele, e non gli erano sfuggiti gli articoli di Montanelli per il Corriere sulla relazione tra il Duce e Claretta Petacci. Solitamente, la rottura di Montanelli con il fascismo si fa risalire al 1937, durante la corrispondenza col Messaggero di Roma al tempo della guerra civile spagnola, quando utilizzò parole offensive nei confronti delle forze armate e per questo motivo venne sospeso dal Partito Fascista. Tuttavia viene da supporre che una qualche connessione con il partito dovesse essere rimasta, altrimenti Mussolini non avrebbe dovuto avere altri dubbi sulla fedeltà del giornalista ben cinque anni dopo l’incidente spagnolo. Se Montanelli fosse stato così scomodo, il Duce non avrebbe di certo aspettato così tanto tempo prima di arrestarlo. Montanelli, durante la stesura verbale per l’accettazione di profugo in Svizzera, non rivendicò né l’espulsione né l’attività di antifascista che ne sarebbe conseguita. Eppure, per avere lo status di profughi non bastava aver stracciato la tessera del Partito Fascista, bisognava essere perseguitati “per opinioni e per attività politiche”.

Montanelli non ha mai nascosto il suo passato fascista, ma in un certo senso lo ha usato come asso nella manica per riabilitarsi dopo il Ventennio. Si giocò molto bene la sua storia da rifugiato in Svizzera, isolato dalla comunità dei veri intellettuali antifascisti che avevano alle spalle decine di anni di abusi e soprusi nelle prigioni italiane e tedesche. Questa era la sua strategia: non nascondere niente, piuttosto plasmare a proprio favore, cambiare qualche piccolo dettaglio, ammiccare verso il pubblico, che definiva il suo unico padrone. Usò la sua conoscenza del fascismo e la sua presunta esperienza dell’antifascismo per operare la sedimentazione e la riabilitazione della figura di Mussolini “umanitario”, un bonario e a tratti simpatico rappresentante della volontà degli italiani e della caduta del regime non per la liberazione partigiana, ma per la cospirazione dei suoi alleati. E lo fece proprio in virtù di quella vicinanza che mai tenne nascosta, come a dire “Io c’ero, l’ho visto con i miei occhi, credete a me.”

Benito Mussolini

Allo stesso modo non nascose mai di aver comprato e sposato, a ventisei anni, una bambina eritrea di dodici, vendutagli dal padre. Lo raccontò, anzi, a Enzo Biagi durante un’intervista in TV nel 1986: “Aveva dodici anni, ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle lì erano già donne”. “Quelle lì” sono le donne eritree, che durante il colonialismo fascista gli uomini italiani compravano come schiave sessuali. Era una pratica nota come “madamato”, una relazione temporanea sancita con uno scambio di denaro che permetteva di acquistare una giovane moglie africana.

Inutile dire che il madamato non aveva nulla a che vedere con un matrimonio lecito né tantomeno si trattava di una relazione consensuale. Era piuttosto una forma di dominio del colonizzatore sul colonizzato, una dimostrazione di potere assoluto dell’uomo bianco. Montanelli non fu da meno. Nonostante sostenesse su “Civiltà Fascista” che “Coi negri non si fraternizza”, evidentemente quando si trattava di rapporti sessuali con un “animalino docile”, come definì la bambina durante l’intervista, si poteva fare uno strappo alla regola. Montanelli raccontò questo fatto in più occasioni, ma si giustificò anche: “In Africa è un’altra cosa, non c’è stata nessuna violenza, le ragazze in Abissinia si sposano a dodici anni.” Così ha ripetuto anche la Fondazione Montanelli Bassi, dopo che nel 2015 un articolo di Notizie.it che riportava questa storia fece il giro del web: “Sulla rete alcuni siti rilanciano Indro Montanelli come pedofilo […]. Niente di più strumentale e scorretto […] per quanto oggi possa apparirci riprovevole, quel tipo di matrimonio era addirittura un contratto pubblico, sollecitato dal responsabile del battaglione eritreo guidato da Indro. Si tratta di un episodio della sua vita, non imposto né attuato con violenza, che mai nascose.” È vero, non lo nascose. Anzi, lo raccontò con aria divertita e compiaciuta, un altro racconto da aggiungere ai suoi.

Enzo Biagi e Indro Montanelli

L’errore in cui si cade quando si valuta la Storia, è quello di giudicarla troppo strettamente con i parametri del passato. Questo porta spesso all’assoluzione di certi crimini o di certe atrocità, se non al loro oblio, in quanto fatti che possono essere semplicemente spiegati con le consuetudini del tempo in cui sono avvenuti. Ma esistono, nella storia, zone d’ombra che dobbiamo riconoscere come tali al di là del contesto, altrimenti non esisterebbero più gli errori, le vittime e i carnefici. “Così fan tutti”, sembrano dire Montanelli e i suoi difensori riguardo alla storia eritrea. Ma così non facevano tutti, a maggior ragione perché l’art. 519 (allora in vigore) del Codice Rocco puniva la congiunzione carnale con un minore di quattordici anni con la stessa pena prevista per la violenza carnale, e il fatto che Montanelli non abbia avuto alcun problema a pagare per avere rapporti sessuali con una bambina né abbia mostrato in seguito alcun segno di pentimento o vergogna, ci dovrebbe dare comunque una stima morale di questo principe del giornalismo. Ma ora Indro Montanelli ha dei giardini pubblici intitolati a suo nome e una statua di bronzo a Piazza Venezia, a Milano. A fine aprile, il gruppo femminista delle Indecorose ha coperto l’incisione “giornalista” con la scritta “stupratore di bambine”. Il gesto è stato definito uno sfregio, un insulto, un gesto patetico e insensato, un oltraggio. Gli stessi sostantivi e aggettivi che si potrebbero usare per il suo comportamento morale.

Marc Bloch ci insegna che la storia non va descritta né giudicata, ma compresa. La comprensione non è mai un atto passivo: ci pone di fronte a domande, conflitti, ci obbliga a mettere in discussione quello che già sappiamo. Quando siamo di fronte a una storia, dobbiamo soppesarla prima di attaccarci sopra l’etichetta del bene o del male, dei giusti e dei dannati. Questo è un processo che richiede tempo e pazienza, e soprattutto capacità critica. Non basta aver scritto molti libri, aver fondato un quotidiano, aver mandato a quel paese Berlusconi, avere il plauso della sinistra pur nelle differenze politiche per imporsi come riferimento culturale dell’Italia controcorrente. La cultura, senza morale, non merita alcuna statua.

N.d.A.: Ove non diversamente specificato, le citazioni e i fatti narrati sono tratti da Broggini, Renata, Passaggio in Svizzera: l’anno nascosto di Indro Montanelli, Milano, Feltrinelli, 2007.

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