Nel continuo rimando di riflessi, l’essenza di Bertolucci è un’intima appartenenza ad altri mondi - THE VISION

Il poeta e filosofo francese Paul Valéry, maestro della tessitura di segrete corrispondenze, nel suo Monsieur Teste scriveva – in non troppo segreto dialogo con Ludwig Wittgenstein –  “C’est ce que je porte d’inconnu à moi-même qui me fait moi”. Ciò che non conosco del mondo a cui mi avvicino, e porto verso di me, mi fa diventare me. Ovvero, io non esisto prima di incontrare il mondo e io divento ciò che ho incontrato di sconosciuto del mondo. L’atto di conoscere è dunque ciò che dà forma all’esistenza. In questa visione c’è una fessura in cui può inserirsi il libero arbitrio, ovvero l’idea per cui noi non siamo semplicemente “investiti” dalle cose del mondo, ma c’è una sorta di libero sguardo che si posa su esso e va a selezionare ciò che desidera guardare. Questo aforisma, nella sua formale semplicità, spalanca una porta sull’indeterminatezza della nostra identità, in continuo farsi e disfarsi, riconoscersi e mutare, sul sapere e sullo sguardo, elemento fondante del cinema. È questo senso di alterità dal nostro stesso sé – esercitabile – che nel corso della nostra storia ha mosso filosofi e artisti, i quali si sono interrogati – ben prima della nascita della stampa e delle neuroscienze – sulla cognizione, sul rapporto tra sensi e linguaggio, e sul suo modo di dar forma alla nostra mente e al nostro corpo, e quindi anche alle nostre azioni e intenzioni, ai nostri strumenti e alle nostre creazioni.

Questa ricerca si è cristallizzata in varie culture nell’archetipo del doppio e dello specchio, informati poi a loro volta da interpretazioni più o meno moraliste. È curioso notare come Fondazione Prada abbia scelto di chiamare la rassegna attualmente in corso a Milano – dal 16 dicembre 2022 al 20 gennaio 2023 – all’interno della serie Soggettiva: “Soggettiva Bernardo Bertolucci: Doppia Autobiografia”. Questo titolo, infatti, evoca un intersecarsi della propria vita e del proprio percorso creativo con il flusso di altre esistenze, che ci fanno da specchio, in un continuo rimando di riflessi. Come scriveva Arthur Rimbaud: “Je est un autre”. Questo fenomeno di sovrapposizione cognitiva, visuale, ontologica e semantica fa pensare anche alla famosa opera dell’artista concettuale, scrittore e non a caso poeta milanese Vincenzo Agnetti: “Il ritratto di tutti”, in cui si legge “Tu sei il testimone nascosto dietro la tua immagine. La tua immagine muta a causa delle tue testimonianze”, e le due frasi sono divise dal ritratto di un volto composto da diverse fotografie unite a formare un singolo momento espressivo.

La commare secca (1962) di Bernardo Bertolucci. Courtesy Mediaset RTI Distribution – copia da CSC Cineteca Nazionale.
Mamma Roma (1962) di Pier Paolo Pasolini. Courtesy Cineteca di Bologna
Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo Bertolucci. Courtesy VIGGO.
À bout de souffle – Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard. Courtesy Cineteca di Bologna.

La ricerca sembra dunque basarsi sul concetto di “aspectus”, aspetto inteso come presa di distanza dall’uguale e dal ripetuto, fondamentale per il confronto con l’altro e per la successiva riscoperta di similitudini e ugualità. Ogni volto vale l’altro, ogni volto è composito, eppure ogni volto è differenziato dalla propria linea storica, per questo, nonostante le differenze possiamo riscoprirci uguali di continuo. Al pari di una traduzione, il significato è lo stesso, ma la forma cambia. Come gridava in una crisi nevrotica Nanni Moretti in Palombella rossa, facendo un riferimento ironico al PCI ma che può essere letto in maniera molto più ampia, “Noi siamo uguali agli altri. Noi siamo come tutti gli altri. Noi siamo diversi! […] Noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi!”. L’osservatore vuole e deve distinguersi dall’Altro, ma al tempo stesso sa di essere uguale, per questo creare rimandi ci dà piacere e al tempo stesso sostare di fronte a questa contraddizione ci provoca un senso di pericolo legata alla disgregazione del nostro stesso Io.

La via del Petrolio – II. Il Viaggio (1967) di Bernardo Bertolucci. Courtesy Archivio storico Eni.
Les glaneurs et la glaneuse (2000) di Agnès Varda. Courtesy MK2 distribution.
Partner (1968) di Bernardo Bertolucci. Courtesy Cinecittà S.p.a.
Umano, non umano (1969) di Mario Schifano. Courtesy Ettore Rosboch materiali da Raro Video – Minerva Pictures.

L’opera di Bertolucci è particolarmente esemplificativa di questo fenomeno perché appare come la trama di un dialogo continuo con l’opera di altri autori, una sorta di poesia ininterrotta, per dirla col poeta francese Paul Eluard. Come ha sottolineato Francesco Casetti, curatore della rassegna, infatti, il suo cinema è intessuto di citazioni e omaggi non tanto per gioco, ironia o passatempo, ma per una costante ricerca di appartenenza, che ha fatto sì che il suo metodo venisse percepito da molti altri registi – in particolare della New Hollywood americana – come un modello per operare sia all’interno che al di sopra del cinema, proprio come il concetto di “testimone” della filosofia antica asiatica, e poi ripreso – anche se in maniera diversa – dalla psicoanalisi occidentale, ma in realtà già da Cartesio fino Lévinas e a seguire, fino a confluire nelle Scienze cognitive. In questo fenomeno di identificazione e allontanamento dalle entità che compongono il mondo, compreso il nostro stesso corpo e mente, un ruolo fondamentale – nel bene e nel male – lo gioca il linguaggio.

Strategia del Ragno (1970) di Bernardo Bertolucci. Courtesy Rai Cinema – copia da Cineteca di Bologna.
The Man Who Shot Liberty Valance (1962) di John Ford. Courtesy Park Circus – Paramount.

E mi azzardo a dire che non penso sia un caso che Bertolucci abbia sviluppato questa attitudine nei confronti del cinema, dato che suo padre era un poeta e anche lui nei primissimi anni della sua formazione aveva pensato di seguire la strada letteraria, per poi virare invece sulla settima arte. Il modo in cui scrive e organizza il materiale visivo, mantiene una prospettiva sull’organizzazione di significati e significanti e sulla composizione molto vicina, per certi aspetti, a quella della poesia, intesa come modalità di percezione del mondo e sua traduzione in diversi linguaggi compositivi. La stessa che coltiva ormai da anni Fondazione Prada, che anche in questa occasione sembra confermare il desiderio di riservare all’arte – qualsiasi forma essa assuma – un’attenzione che si discosta dal percorso battuto, cercando di individuare dinamiche nascoste, alla ricerca di tutte quelle forme che accomunano la matrice immaginifica e percettiva di alcuni di noi, in una maniera che non può che suscitare stupore. Attraverso una rete di richiami, appropriazioni e ribaltamenti – costituita dai diciotto film selezionati per il progetto – l’opera di Bertolucci acquista nel corso di questa rassegna ulteriori dimensioni di senso, ricche di suggestioni.

Il Conformista (1970) di Bernardo Bertolucci. Courtesy Raro Video – Minerva Pictures.
La Règle du jeu (1939) di Jean Renoir. Courtesy Cinexport.
Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci. Courtesy PEA copia da CSC Cineteca Nazionale.
La ronde (1950) di Max Ophüls. Courtesy Tigon – Hollywood Classics.

La serie “Soggettiva” ha indagato nel tempo l’immaginario, la vita e le passioni di registi e artisti – come Pedro Almodóvar, John Baldessari, Danny Boyle, Ava DuVernay, Theaster Gates, Damien Hirst, Alejandro González Iñárritu, Luc Tuymans e Nicolas Winding Refn – rivelando la centralità di alcuni film nella loro formazione personale – e creativa – e quindi la capacità del cinema di nutrire anche indirettamente diversi ambiti della creazione visiva, popolandoci di sensazioni e “figure” comuni, immagini concrete e allusive di una realtà altra, rappresentazioni simboliche e allegoriche sedimentate nella nostra mente e nella nostra identità, capaci a loro volta di formarci. Con questo capitolo dedicato a Bertolucci, si intende sottolineare connessioni e rimandi tra nove delle sue pellicole, realizzate tra gli anni Sessanta e Settanta, e altrettanti lungometraggi di autori italiani e internazionali. Ognuno dei nove film di Bertolucci, infatti, è stato associato alla pellicola di un altro regista considerato affine, se non proprio “complice”, anche se lontano nello spazio e nel tempo, creando diverse occasioni per esercitare una percezione diversa da quella che di solito ci viene richiesta dal mondo. La commare secca (1962) con Mamma Roma (1962) di Pier Paolo Pasolini; Prima della rivoluzione (1964) con À bout de souffle (1960) di Jean-Luc Godard; La via del Petrolio – I. Le origini (1967) con Les glaneurs et la glaneuse (2000) di Agnès Varda; Partner (1968) con Umano, non umano (1969) di Mario Schifano; Strategia del Ragno (1970) con The Man Who Shot Liberty Valance (1962) di John Ford; Il Conformista (1970) con La Règle du jeu (1939) di Jean Renoir; Ultimo tango a Parigi (1972) con La ronde (1950) di Max Ophüls; Novecento (1976) con Zemlja (1930) di Aleksandr Dovzhenko; La Luna (1979) con Imitation of Life (1959) di Douglas Sirk.

Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci. Courtesy Cineteca di Bologna.
Zemlja – La Terra (1930) di Aleksandr Dovženko Courtesy. Oleksandr Dovzhenko National Centre.
La Luna (1979) di Bernardo Bertolucci. Courtesy Park Circus – Disney.
Imitation of Life (1959) di Douglas Sirk Courtesy. Park Circus – Universal.

Questo dispositivo curatoriale, in cui la poetica di Bertolucci si inserisce alla perfezione, ci porta sulla soglia del riconoscimento, mostrando al tempo stesso l’alterità e tutta la potenza di questo sofisticato cortocircuito, che trova una delle sue forme più riuscite proprio nel cinema e ci permette di osservare quell’ignoto che ci cambierà, assumendo una nuova forma ed essendo così presenti a noi stessi, compositi, ampi. Proprio come ha sempre cercato di fare Bernardo Bertolucci nel corso della sua vita e nelle sue opere, frequentando artisti di tutte le epoche e culture, anticipando temi che oggi sono al centro del contemporaneo – come le disparità di genere, il conformismo o la competizione ossessiva – per nutrire la sua esistenza e arricchire la sua visione del mondo. Rivedere oggi i suoi film al cinema, abbinati ad altre grandi opere che ne esaltano le qualità, è un’occasione preziosa, proprio perché il nostro sguardo – mutato – permette loro di continuare a parlarci, mostrandoci come alcune storie del passato possono continuare a dirci qualcosa di noi stessi, del tempo e della società in cui viviamo, dimostrandosi importanti strumenti del desiderio e permettendoci di addentrarci sempre di più nell’intima esperienza della vita.

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