Vendere rabbia agli arrabbiati è facile quando non hanno niente da perdere: la storia degli Skinhead - THE VISION
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Nell’Inghilterra degli anni Sessanta l’ascensore sociale era un’utopia. Se nascevi povero, non avevi alcuna possibilità di cambiare o migliorare la tua condizione di vita. Sotto il nome della tradizione si nascondeva un giogo sociale che andava a braccetto con la religione, la politica e alla fine la filosofia degli inglesi. Passata la Seconda guerra mondiale e le bombe naziste, gli edifici erano stati ricostruiti partendo dal centro e dalle classi più abbienti. Buona parte delle periferie erano ancora malridotte, e la working class aveva condizioni di vita oggi inimmaginabili. Le nuove generazioni si erano stancate dello squallore che le circondava e volevano cambiare sia la loro vita che le regole della società. Il governo ne era entusiasta, perché trasformare i figli nel nemico del popolo distoglieva l’attenzione dell’opinione pubblica da problemi assai più gravi e urgenti.

Sei nato in un quartiere con le case distrutte o fatiscenti, sai a malapena leggere e scrivere, il mondo inizia e finisce nel tuo quartiere; la radio, la società e la chiesa ti dicono di accontentarti, di essere felice, perché quello è il tuo posto. A quattordici anni cominci a lavorare in una fabbrica e devi raderti i capelli per evitare di portare a casa i pidocchi. I ragazzi più grandi di te hanno iniziato a vestirsi come i divi dei film di Hollywood. Girano in Vespa o in Lambretta, e tu non capisci come facciano: anche se lavori come un animale, non ti puoi permettere nemmeno una cintura di cuoio. Hai solo le bretelle.

Cosa faresti?

Sei giovanissimo e pieno di energie. Ogni volta che puoi, corri a divertirti. Vai nei pub o nei locali underground dove suonano gruppi di tuoi coetanei e servono birra da pochi soldi. Quando entri sei quello strano e povero tra quelli poveri; i Mods ascoltano la tua stessa musica, ma sono più raffinati e ricercati. Hanno cravatte paisley e scarpe brogue lucide. Tu hai soltanto gli scarponi da lavoro e una maglietta polo di infima qualità. Le ragazze nemmeno ti vedono, ma tu in compenso riconosci quelli come te. Avete la stessa pettinatura e gli stessi problemi economici. Vai a parlare con loro, balli, bevi, e una settimana dopo l’altra diventate un gruppo.

Vi definite “Hard Mods”.

Non volete imborghesirvi né sembrare qualcosa che non siete. Siete finalmente orgogliosi di chi siete e da dove venite: mostrate con orgoglio i jeans da lavoro, gli anfibi rinforzati sulla punta, le magliette della salute con le bretelle sopra, come quando lavori in fabbrica e hai paura che le maniche ti rimangano impigliate nei meccanismi. Per proteggerti dal vento metti la giacca G9 che hai visto addosso ad Harrington, il bullo – buono – della telenovela Peyton place. Quelli che non riescono a trovarla, invece, si accontentano dei bomber da aviatore dell’esercito americano. Tutte quelle teste rasate ai concerti si fanno notare, e dopo vari soprannomi cominciano a chiamarvi “Skinhead”. E vi vogliono tutti bene. Siete parte di una comunità più grande, quelli un po’ strani, ma accomunati dalla passione per il reggae, il lavoro duro e il calcio come riscatto sociale.

Vestite le marche meno costose che si trovano in giro. Le camicie a scacchi da lavoro o le polo di Fred Perry, i jeans Stra Prest perché non hanno bisogno di essere stirati e soprattutto la G9 Harrington di Baracuta, con il tartan rosso che contrasta con il blu scuro e mostra un’orgogliosa identità cockney, oltre a dare quel tocco di eleganza a un abbigliamento basato solo sulla praticità. Nel tempo libero adorate andare in giro con i “Rude boy”, gli immigrati giamaicani. Loro copiano da voi il look, e voi da loro la musica. Alcuni provano a suonarla e modificarla. La velocizzano, la distorcono, in un melting pot di suoni, colori e culture che fa sempre più rumore e cattura sempre più l’attenzione, in un’Inghilterra – e un’epoca – dove il razzismo è endemico e diffuso. Ma più gente entra, più le divergenze iniziano a farsi sentire. La rabbia sociale ha bisogno di uno sfogo. Risse e scazzottate ai concerti si fanno più frequenti, finché nasce un nuovo nemico comune, i pachistani immigrati, contro cui Skinhead e Rude boys si coalizzano.

Forse questo è il momento in cui capiresti che tira brutta aria.
Forse rimarresti perché è la tua comunità.

Nel 1970 esce il libro Skinhead di Richard Allen, che diventa subito un cult tra gli adolescenti. Ma il protagonista, Joe Hawkins, è ferocemente razzista. Il Fronte Nazionale lo scopre e drizza le orecchie, perché fiuta un potenziale bacino di voti. Manda i propri emissari a distribuire giornali e volantini razzisti nei pub e fuori dallo stadio del Chelsea, dove ogni domenica ne vende 700 copie, cioè il 10% del materiale stampato. Vendere rabbia agli arrabbiati è facile, e la minaccia della perdita dell’identità nazionale è un argomento che agli Skinhead sta molto a cuore: dopotutto non hanno altro. In una manciata di anni, al Belfry (il locale di ritrovo degli Skinhead) entri solo con la tessera di FN. Nelle strade l’atmosfera da melting pot si trasforma in una paranoia collettiva di minaccia incombente. La paura genera violenza, e risse e pestaggi diventano la norma, costringendo i cantanti a interrompere i concerti. Ma è pur sempre l’unica comunità che hai, e l’unica capace di farti sentire accettato.

A metà degli anni Settanta i Rude boys reagiscono.

Con l’arrivo di una nuova ondata di immigrazione giamaicana si riprendono le proprie radici, la propria identità nera e si attengono ai precetti della religione rastafariana, che proibisce qualunque forma di contaminazione per proteggere l’identità. Molti neri si allontanano sia dalla musica che dagli Skinhead, preferendo frequentare solo la propria comunità. Il Fronte Nazionale ne approfitta, in un’escalation di odio basato su minacce all’identità dell’altro. Ai concerti di musicisti neri si presentano sparuti gruppetti che sulla maglietta bianca hanno scritto “white power”. Si mettono in prima fila, fanno saluti nazisti e urlano slogan irripetibili che i giornalisti riportano per esteso, fomentando la convinzione che gli Skinhead fossero il braccio violento del Fronte Nazionale. È un modo piuttosto goffo per dire che i poveri sono cattivi.

Ma la verità è che tu e gli altri Skinhead vi siete già rassegnati da adolescenti a essere evitati, temuti o isolati per la pettinatura, il quartiere o il reddito. Ai borghesi, al governo e ai tizi con la cravatta non interessa migliorare la qualità della tua vita. L’idea di essere diventato il nemico pubblico ti piace, perché quando nasci tra gli ultimi è meglio essere temuti che invisibili. Così, più la stampa vi massacra e disumanizza, più trovate orgoglio e unità nell’indossare la G9 Harrington, nel lucidarvi gli anfibi rossi al motto di “prenditi cura dei tuoi anfibi e loro si prenderanno cura di te”. 

Gli stadi diventano campi di battaglia come i locali o le strade, con i giornali che ogni lunedì raccontano il bilancio degli scontri, questa volta chiamando te e gli altri “Hooligans”. I gruppi che amavi, ai cui concerti ti sei tanto divertito, fanno di tutto per scrollarsi di dosso l’immaginario razzista. Nel 1979 Jimmy Perch, frontman degli Sham 69, dopo l’ennesima rissa tra Skinhead e un gruppo di neonazisti, interrompe il concerto e dichiara che non suonerà mai più in pubblico. Riappare sul palco del Rock against racism. Negli anni Ottanta la cultura Skinhead, anche grazie alle fotografie e alle riprese dei pestaggi negli stadi, si diffonde in tutto il mondo. Il ragazzo con il cranio rasato, la G9 e gli anfibi perde l’identità del quartiere e della working class, diventando solo sinonimo di aggressività, razzismo, intolleranza e cattiveria. 

Poi, come spesso succede, la società contrattacca.

A nessuno piace la violenza, e nessuno vuole esserne associato. Gli Skinhead smettono di esistere fuori dagli stadi inglesi, mentre nel resto del mondo quell’immaginario estetico viene preso in mano da nuove generazioni che lo sfregiano, creando sottoculture diametralmente opposte. Alla fine degli anni Ottanta punk e appassionati di ska formano gli SHARP, Skinhead against racial prejudice, ma soprattutto i Trojan Skinhead, che si definiscono tradizionalisti od originali. La società chiama tradizione i propri ricordi, e vengono sostituiti molto in fretta. Persino la comunità gay afferra l’estetica neonazista e la rielabora in una propria corrente che esiste tutt’ora. Per alcuni è un lieto fine, per altri una sconfitta. Tutto dipende da che parte hai scelto di stare.


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