Quando si parla di canoni estetici, si finisce sempre con il far riferimento alla differente percezione che si ha dell’essere umano nelle diverse parti del mondo. Sappiamo che in passato la pelle chiara non solo era simbolo di bellezza, ma anche di nobiltà. Oggi, invece, la realtà dei Paesi occidentali sta cambiando per via della sempre più frequente convivenza di etnie diverse, i canoni estetici sono meno rigidi e il concetto di bellezza è generalmente accettato come relativo e personale.
Ma non è così ovunque. Ancora oggi, il colore della pelle può essere una caratteristica rilevante, che influisce in maniera anche pesante sulla vita delle persone, in particolar modo delle donne. Nell’antica Cina, una carnagione diafana era simbolo di bellezza e nobiltà, e una donna dalla pelle chiara aveva più possibilità di trovare un compagno e sposarsi. Anche in Occidente, un incarnato bruno è stato da sempre associato a chi doveva lavorare la terra, sotto il sole, mentre le donne benestanti ricorrevano a metodi estremi pur di apparire pallide – come trucchi a base di piombo o arsenico, estremamente velenosi e in grado di portare addirittura alla morte. Ma se nella cultura occidentale quest’idea è ormai del tutto scomparsa, sostituita da un’ossessione per l’abbronzatura, in Cina e in altri Paesi dell’Asia come le Filippine, la Malesia, il Giappone e l’India, continua a essere una costante. Ciò è dimostrato dall’alta domanda di cosmetici usati per schiarirsi la pelle.
Secondo uno studio del centro di ricerca Future Market Insights del 2017, non solo in Cina ma anche in gran parte del Sud-Est asiatico, il mercato delle creme sbiancanti è in continua crescita. Si stima che entro il 2027, la vendita di tali cosmetici raggiungerà il valore di 24 miliardi di dollari. Sono dati allarmanti, specialmente se si considera che l’utilizzo costante di prodotti così aggressivi – contenenti agenti chimici pericolosi – può portare a malattie della pelle e danni agli organi interni.
Nonostante la gravità del fenomeno, la pratica dello skin bleaching, così chiamata nei Paesi anglofoni, è molto diffusa. Ma se in Oriente la ricerca spasmodica del pallore è “giustificata” da antichi retaggi culturali, sorprende riscontrare la sua diffusione anche in Africa, dove le persone non sono solo ossessionate dall’idea di avere una pelle più chiara, ma spesso puntano a un incarnato completamente diverso dal proprio. Addirittura l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che in Nigeria il 77% delle donne faccia uso di creme sbiancanti.
Per comprendere la diffusione del fenomeno dello schiarimento della pelle nei Paesi dell’Africa Occidentale è necessario tornare indietro nel tempo, e analizzare il tipo di mentalità diffusa in epoca coloniale. Come ricorda la professoressa universitaria e scrittrice di origini ghanesi Yaba Blay, nel suo saggio Skin Bleaching and Global White Supremacy: By Way of Introduction, i concetti di purezza e di bellezza sono da sempre associati al colore bianco nella cultura occidentale. Per via dell’influenza dei missionari che si occupavano di diffondere il Cristianesimo – per cui il bianco rappresentava la luce e la salvezza di Dio, mentre associavano l’oscurità e la dannazione al colore nero – queste credenze si sono diffuse anche tra le popolazioni colonizzate. La trasposizione di tali concetti al colore della pelle fu immediata e il nero non divenne solo rappresentazione di malvagità, ma anche di sporcizia.
Nel 1884 divenne popolare la pubblicità di un sapone, le cui proprietà pulenti erano tanto formidabili da riuscire a lavare via le macchie più resistenti. Si tratta della pubblicità dell’inglese Pears’ Soap, in cui un bambino di origine africana veniva “ripulito” da un amichetto bianco. Dopo il bagno, la pelle del piccolo risulta sbiancata, e quindi “migliorata” – come si dice nello stesso volantino e come dimostra l’espressione soddisfatta di entrambi i protagonisti. Questa pubblicità non solo disumanizzava la popolazione africana, dipinta alla stregua di un oggetto domestico, ma affermava in maniera esplicita anche la loro presunta infelicità dovuta proprio al fatto di avere la pelle scura.
Tale complesso di inferiorità è stato interiorizzato dalle popolazioni di alcuni Stati del continente africano dove, a causa dell’influenza della mentalità coloniale, si verificano ancora oggi fenomeni di razzismo intra-razziale. Questo tipo di discriminazione, chiamata colorism, è basata non più sulla presunta superiorità di una razza su un’altra, ma sulle sfumature del colore della pelle di persone lightskin, neri dalla pelle chiara, e di persone darkskin, neri dalla pelle scura. Avere un incarnato più pallido, anche tra la gente di colore, viene percepito come un vantaggio col quale ottenere privilegi e grazie a cui ci si può realizzare più facilmente sul piano professionale.
Le pubblicità di creme sbiancanti sugli enormi cartelloni pubblicitari sparsi per le città del Ghana o della Costa d’Avorio, influenzano ancor di più la convinzione di essere migliori o peggiori. Tra gli acquirenti di queste creme ci sono soprattutto le donne, che spesso subiscono pressioni sociali tali da sentirsi obbligate a conformarsi a determinati standard eurocentrici. Lo scorso anno ha fatto molto scalpore uno spot della Nivea, indirizzato principalmente alle donne di origine africana. La protagonista del video – Omowunmi Akinnifesi, Miss Nigeria 2017 – dice di desiderare che la sua pelle “ritorni” a una natural fairness (testuali parole della voce fuori campo). Quindi che la sua pelle scura, quella originale, torni ad essere chiara e “naturale”. Una volta utilizzato il prodotto sponsorizzato da Nivea, la donna ottiene un incarnato visibilmente più chiaro, cosa che la rende felice e soddisfatta. Questo genere di spot, così come tanti altri prodotti culturali occidentali, perpetuano due stereotipi: i neri dalla pelle chiara, soprattutto di sesso femminile, sono di bell’aspetto, aggraziati e gentili, mentre i neri dalla pelle scura, che siano uomini o donne, sono solitamente aggressivi e tendono ad alzare la voce. Tale bombardamento mediatico non ha fatto altro che accentuare i pregiudizi e rimarcare le differenze.
Oltre a uno skin bleaching fisico, si potrebbe parlare di uno skin bleaching “psicologico”, che spinge le persone a voler modificare il proprio aspetto fisico per adattarsi a ulteriori standard eurocentrici, elevati a modello unico a cui ispirarsi. Tra i pochi governi africani che stanno tentando di porre un freno a questa pratica culturale malsana, c’è quello del Ghana, che ha posto restrizioni sulla vendita di prodotti contenenti mercurio e idrochinone, e ha inoltre avviato un programma di sensibilizzazione per dissuadere i commercianti dalla vendita dei prodotti sbiancanti nei mercati.
Spesso, questo senso di inadeguatezza nasce proprio all’interno della famiglia, in cui vengono rivolti particolari attenzioni e complimenti ai figli nati più “chiari” . Qualcuno potrebbe dire che in fondo tutto ciò non è poi così strano, dato che in Europa si è abituati, al contrario, a prendere il sole d’estate per abbronzarsi. Ma la differenza è che, in linea di massima, chi si abbronza – che lo faccia in vacanza o tramite le sedute con le lampade abbronzanti – non lo fa per un senso di inadeguatezza interiorizzato. Chi si abbronza, tendenzialmente, non lo fa con la convinzione che se la sua pelle rimanesse chiara non troverebbe mai un partner. L’abbronzatura, sulla pelle chiara, assume un colore dorato, percepito come desiderabile. Un colore che chi è dark skinned cerca, invano, di ottenere tramite una procedura pericolosa.
Il cantante e attivista nigeriano Fela Kuti criticò aspramente questo fenomeno nella sua canzone “Yellow Fever” del 1971, in cui raccontava il problema dello schiarimento della pelle e di come donne e uomini finissero per diventare gialli e molto meno attraenti pur di avere una possibilità di essere meno neri. La loro bellezza naturale viene distrutta dai prodotti chimici, e le malattie conseguenti portano a una degenerazione del corpo e a una sua autodistruzione dall’interno. Cito un estratto tradotto del testo: “Uomo o donna che tu sia, ti ammalerai da solo, comprerai la malattia con i tuoi soldi, diventerai più giallo del giallo […] sembrerà che avrai due colori […] e ti illuderai di essere bello, ma sei bello davvero?”
Benché il problema dello schiarimento della pelle sia difficile da eliminare del tutto, le sempre più diffuse campagne di sensibilizzazione sull’accettazione di sé e della propria pelle possono essere fondamentali. In India, ad esempio, grazie all’iniziativa dell’attivista Kavitha Emmanuel, è nata Women of Worth, associazione che lotta per la giustizia e l’uguaglianza, occupandosi anche del problema della pelle. Lo scopo è quello di celebrare ogni tipo di sfumatura affinché le discriminazioni vengano abbattute. Anche nel mondo dei media e della moda c’è chi sta affrontando il problema, incoraggiando le donne della medesima etnia ad abbandonare quella pratica. Le modelle Nyakim Gatwech e Khoudia Diop, rispettivamente di origini sudanesi e senegalesi, sono impegnate in una lotta contro la discriminazione e si raccontano spesso parlando di come venivano discriminate per il fatto di essere “troppo scure”. Dicono di aver subito molte pressioni e bullismo nel proprio Paese d’origine. In compenso ora, nel mondo della moda, Nyakim Gatwech si è guadagnata il titolo di Queen of Dark, di cui va molto orgogliosa e Khoudia Diop quello di Melanin Goddess, da lei scelto.
Questi sono solo alcuni degli esempi positivi che stanno emergendo sul piano internazionale. Molti brand di intimo o di make up stanno poi creando prodotti con sfumature diverse, riconoscendo anche sul mercato l’esistenza di incarnati diversi, tutti degni di eguale rappresentazione. Ma è chiaro che questo non basta: è necessario un cambiamento radicale soprattutto nei Paesi d’origine. Più stati dovrebbero seguire l’esempio del Ghana, vietando il più possibile la vendita dei prodotti per lo schiarimento della pelle.
Bisognerebbe creare più campagne di sensibilizzazione per rendere tutti consapevoli dei gravi rischi a cui si può andare incontro se si abusa di quelle creme. Questa classificazione, basata sulle sfumature, è inutile e controproducente, e non fa altro che dividere le persone della stessa etnia, mettendole l’una contro l’altra. La bellezza sta proprio nel fatto che gli esseri umani – i quali, di questi tempi è bene ricordarlo, appartengono tutti alla stessa razza – si presentano con caratteristiche estetiche differenti. Non esiste una qualità migliore dell’altra, e bisognerebbe valorizzare le proprie particolarità, prendendo spunto dai propri modelli di riferimento, senza cercare di inserirsi in standard eurocentrici impossibili.