Sha Ribeiro è uno dei protagonisti della cultura di strada milanese dell’ultimo quarto di secolo e ha avuto il dono di incontrare, vivere e fotografare l’incrocio di diverse sottoculture in seguito divenute fenomeni di massa, anche a livello globale. Proprio vista l’eccezionalità della sua figura e del suo percorso, abbiamo deciso di dedicargli un articolo che esula dal nostro linguaggio canonico, per raccontare la sua storia e mostrare l’evoluzione della sua creatività.
Joao Paulo Ribeiro è nato a Lisbona nel 1978, da madre veneziana e padre portoghese del Mozambico – i due si conobbero in Sudafrica, dove lui studiava e lei era di passaggio, a una festa. Il viaggio è nel Dna di famiglia da generazioni, e nei vai e vieni del padre, responsabile di cabina sui voli di linea tra Europa e Stati Uniti, ma la sua storia è inscindibile da Milano, città in cui arriva a tre anni e mezzo e dove divide con la madre un appartamento in zona fiera. La sua infanzia è scandita dai ritorni in Portogallo e dai viaggi in aereo con il padre, a osservare in silenzio i piloti in cabina di comando. Quarant’anni dopo, è diventato uno dei fotografi più apprezzati in Italia per i suoi ritratti, simbolo e interprete della Milano degli anni Novanta e Duemila che è stata culla di sottoculture che troviamo riflesse nella musica, nei media e in generale nel contesto creativo contemporaneo.
La sua capacità di vivere e raccontare in anticipo fenomeni italiani e internazionali prima che conquistassero il mainstream, gli incontri che ha costruito e la sua sensibilità estetica sono frutto di un’adolescenza segnata dalla cultura di strada, fatta di writing e bombing con le crew più rispettate sui treni della metro e poi sublimata nella fotografia. È a Milano che Joao Paulo diventa Sha: così lo chiamano gli amici e con questa tag firma il suo passaggio sulla città quando dal 1995 il bombing diventa la sua prima forma di espressione. Lui e i suoi migliori amici, tra cui Ivano Atzori, diventato celebre tra i writer di tutto il mondo come Dumbo, crescono a pane, Mtv e cultura americana ed entrano così in contatto con il mondo del writing. Sha comincia nel 1994 con qualche scritta a pennarello su fogli e quaderni, poi collauda i muri intorno a casa, si allarga all’intero quartiere e a tutta la città, firmandosi con la tag Shampo. Per lui e il suo gruppo era un’ossessione: l’obiettivo era essere ovunque ed era il loro modo per comunicare, al di là di qualsiasi riflessione sul fatto che si trattasse di arte o di puro vandalismo.
Siamo nella Milano a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila: quella del writing è tra le sottoculture dominanti e tra le crew più attive della città ci sono i Lordz of Vetra – poi diventati VDS e in seguito FIA – che bazzicano le panchine e i bar della piazza che un tempo era stata il cuore della mala milanese, tra canne, qualche rissa e gli spray sempre nello zaino. Sha è uno di loro e, anche se è il più giovane, in quegli anni è inarrestabile. “Il nostro gruppo ha dato un cambio di stile alle forme di writing che si vedevano in città: abbiamo portato insieme ad alcuni writer di Roma – come Panda ed Hekto – un modo di dipingere più europeo, con lettere più chiare. Gli altri all’inizio storcevano il naso, poi hanno iniziato a imitarci”. Sono gli anni delle giunte di destra, con la Lega Nord di Formentini e poi la decade di Albertini, Forza Italia, che ai writer fanno una guerra spietata e persa in partenza. In quegli anni Atzori per un po’ vive a casa dell’amico, sistemato con lui in un letto a castello: passano le nottate nelle gallerie della metro a coprire i treni di vernice, per poi tornare in superficie e aspettare insieme l’alba, in attesa di veder sfrecciare sui binari il proprio nome dipinto in stampatello. Un amico aveva procurato loro una chiave universale per le porte delle metro di Milano, ricorda Sha, che per non perderla la portava sempre al collo. Una mattina, al suo risveglio, era scomparsa, sequestrata dalla madre mentre dormiva.
Nel 1999, quando Sha è all’apice della sua curva di bomber, fa un incidente in motorino in cui si frattura tibia e perone ed è costretto a usare le stampelle per oltre un anno e mezzo. Questo però non gli impedisce di uscire con gli amici per frequentare i locali della città: dal Phat Milano al Bataclan, dall’Old Fashion ai Magazzini Generali, né di continuare a coprire la città di scritte. A quei tempi, quello dei writers era un network che abbracciava tutta Europa e permetteva ai suoi esponenti di viaggiare da uno stato all’altro, ospitandosi a vicenda in virtù di queste connessioni. “Ti scrivevano da Bruxelles, da Parigi, dalla Spagna per chiederti di dipingere nella tua città: quando potevo li ospitavo a casa di mia madre, o ci si arrangiava,” ricorda. “I graffiti erano il collante delle nostre amicizie, ho stretto legami che ho portato avanti per anni, restituendo le visite a Barcellona, a Berlino, a Stoccolma”.
Proprio a Stoccolma Sha resta per un anno e quando torna in Italia, nel 2002 alla galleria di arte contemporanea MC Magma di Milano viene per la prima volta esposto il lavoro di Ryan McGinley, talento americano della fotografia contemporanea e del filmmaking, che si presenta accompagnato dagli amici newyorkesi del Lower East Side: Dash Snow, artista morto pochi anni dopo di overdose e Aaron Bondaroff, che ai tempi lavorava come commesso da Supreme, prima di lanciare il brand aNYthing e di fondare il collettivo OHWOW. Sha, Dumbo e compagnia li conoscono e li scarrozzano per la città da una festa all’altra, in un periodo in cui Milano e New York formano un fortunato asse creativo e nel cui alfabeto comune ci sono il writing, la cultura di strada e l’abbigliamento.
“Più diventi grande e più ti rendi conto che lo stile di vita che avevi a 18 anni dopo i 22 non te lo puoi più permettere,” racconta Sha, che nel 2002, tornato in Italia dopo la parentesi svedese non ha in tasca un soldo e ha bisogno di un lavoro. L’amico Edoardo Galliani, all’epoca booker in un’agenzia modelle, lo presenta a Gianni Turillazzi. Il fotografo bresciano è alla ricerca di un assistente e si accontenta del sì incerto di Sha alla domanda: “Ti interessa la fotografia?”. Questa entra nella sua vita per caso e necessità e raccoglie il testimone lasciato dal writing, che il ragazzo nel tempo abbandona, per dedicarsi completamente al lavoro di assistente e imparare la tecnica da Turillazzi. A fine giornata, davanti a una birra, Gianni gli insegna il mestiere da zero. Sha acquisisce così le basi e comincia a sognare di fare il fotografo di moda, continuando per qualche anno a lavorare come assistente per i grandi fotografi di Condé Nast. Il suo primo lavoro pagato, un lookbook per Trussardi, glielo trova nel 2006 il coinquilino, che disegna per il marchio.
L’anno prima Sha vola a Lisbona per documentare la demolizione del ghetto di Pontinha: “Mi aveva telefonato un amico per dirmi che avevano iniziato ad abbatterlo e avevo deciso di raggiungerlo per raccontare quello che stava accadendo”. Appena un giorno e mezzo dopo, procuratosi un biglietto aereo con l’aiuto del padre, si muove seguendo il suo istinto tra vicoli ed edifici, scattando senza un progetto preciso. “Fermai due ragazze per scattare loro un ritratto. Uno lo feci con un taglio per me all’epoca stranissimo, dal basso verso l’alto, era una delle prime volte che scattavo in verticale ed è stata la prima in cui riguardando una mia fotografia ho capito che c’era qualcosa. È la prima buona fotografia che mi sono reso conto di aver scattato.”
Nel frattempo, a Milano, tra uno shooting di moda e l’altro, il nome di Sha comincia a girare. L’amico Marcelo Burlon, all’epoca uno dei Pr più attivi di Milano, vede le sue fotografie di Lisbona e il lavoro per Trussardi e gli chiede di fare per lui le foto alla festa di Alexander McQueen alle ex poste della Stazione Centrale, poi organizza il suo primo editoriale di moda sulla rivista di Berlino Quest.
Quello stesso anno la ragazza di Sha si trasferisce a New York per lavoro e lui la segue. Mentre cerca di integrarsi e di adattarsi al ritmo frenetico della metropoli, il suo iniziale entusiasmo nei confronti della fotografia di moda entra in crisi. Mentre cerca di inserirsi a New York comincia a fotografare quello che gli piace davvero, le persone, e a costruire un portfolio, indispensabile per continuare a lavorare. È in questo momento che Sha mette a fuoco in maniera consapevole la propria visione, delineando in modo sempre più chiaro il proprio stile diretto, in cui il soggetto ritratto è talmente presente al fotografo da riuscire a raccontarsi a chi guarda le immagini come se non ci fosse mediazione, e proprio in virtù di essa. Sha ritrae gli amici, la vita del quartiere in cui vive, il suo punto di vista su una New York con cui prende confidenza grazie alla pellicola con cui la racconta e finalmente la fa propria.
Appassionato di musica fin da bambino, grazie all’imprinting della famiglia paterna, che consuma decine di vinili e ore di videoclip, Ribeiro è alla ricerca di progetti originali, che nessuno abbia ancora realizzato, da restituire con il proprio sguardo. Parte così alla volta di Londra, dove divide per un paio di settimane una camera con l’amico Lele Saveri, contatta gli artisti della scena grime locale e colleziona una serie di ritratti di MC, dj e produttori del momento, convertendo gli anni di pratica da assistente in Polaroid 665 e medio formato, in bianco e nero o a colori. “Ci davamo appuntamento via telefono. Gli artisti erano stupiti di trovarsi davanti un ragazzetto bianco carico di attrezzatura fotografica e di secchiello bianco, dove trasportavo la soluzione per lavare i negativi delle Polaroid dopo aver scattato”. A fare da sfondo ci sono le periferie londinesi, mentre l’attitude degli MC traspare, prima ancora che dai vestiti, dai cappucci o dalle visiere nello stile del periodo, dai contrasti netti e dagli sguardi quasi sempre in camera, come a sfidare il fotografo e tutti coloro che ne vedranno il lavoro.
Concluso il progetto, Sha torna a New York, dove si divide tra il lavoro di fotografo, assistente fotografo, quello di barman e cameriere e il suo primo figlio, mentre vive a Brooklyn. Intanto il suo lavoro sulla scena grime si diffonde e conquista la fiducia delle riviste internazionali. Sang Bleu – magazine inglese indipendente di arte, moda, fotografia e tatuaggi – gli commissiona un lavoro sul mondo del tatuaggio nei quartieri malfamati di New York. In meno di una settimana imbastisce uno shooting, appoggiandosi a uno studio di tatuatori a Brooklyn e ritrae in pellicola ragazzi a torso nudo che fanno parte delle gang locali. Il risultato è un editoriale in 11 pagine dal titolo New York State of Mind che non passa inosservato e conquista l’attenzione di altri magazine stranieri.
Ricontattato da Sang Bleu per realizzare un servizio analogo a Los Angeles, Ribeiro rilancia, proponendo di raccontare una storia simile ma ambientata in Italia, tra Milano e Casilino 900 di Roma, nel mondo Rom, molto presente nelle cronache di quegli anni. Il progetto, pubblicato in un editoriale di 4 pagine per la rivista, però, non viene come avrebbe sperato e presentato ai photoeditor italiani non riesce a conquistarli: per loro il lavoro di Sha non è ancora pronto per essere “venduto”.
Quello che Sha fin dall’inizio cerca di fare, riuscendoci via via sempre meglio, è di racchiudere in ogni immagine un concetto, nella maniera più diretta possibile e senza troppi fronzoli. Molti progetti fotografici, in genere, per raccontare qualcosa necessitano di una sequenza di immagini e di molteplici “pezzi” per restituirne le sfaccettature e la complessità. Nei suoi, invece, basta anche un solo ritratto per racchiudere il senso complessivo di una storia o di un fenomeno e suscitare quella domanda che ogni fotografia dovrebbe sempre lasciare in sospeso. Il soggetto, ritratto in maniera essenziale nel suo ambiente, è sufficiente per evocare un’atmosfera o creare quei cortocircuiti che rendono le immagini efficaci, cariche di intensità e di significati. Anche quando i soggetti non sono persone, ma ratti. Nella sua permanenza a New York, camminando per le strade di Manhattan e Brooklyn, Sha si rende conto che questi animali sono una presenza fissa, che si manifesta di notte, alla ricerca di cibo. Fotografarli non è facile perché si spaventano facilmente, ma decide di sfruttare un sistema per scattare a distanza e dei dolci come esca. Nasce così Greed, una serie che, negli animali che popolano lo spazio urbano illuminati dalla cruda luce del flash, racchiude la metafora dell’ingordigia, dell’avidità e del potere e offre una sintesi perfetta della poetica e dell’estetica del fotografo.
Nel 2010 Sha torna in Italia, ma continua a viaggiare da un capo all’altro dell’Oceano per seguire le storie che non sono ancora state raccontate. Vola a New Orleans, dove da un paio d’anni ha un progetto in sospeso sulla scena bounce. Si fa ospitare da amici di amici, che diventano anche suoi, si abitua ai colpi delle sparatorie che spesso rompono il silenzio notturno in città e un po’ alla volta conquista la fiducia degli artisti locali, come Big Freedia, Katey Red, Nicky Da B, che ritrae durante i loro show queer a base di bounce e twerking e le feste di quartiere. Come dieci anni prima portava ovunque la sua tag, Sha frequenta tutti i block party e le serate nei club a cui riesce ad avere accesso tramite gli artisti, spostandosi in bici da un capo all’altro della città, mentre le persone iniziano a fermarlo per chiedergli chi sia e come faccia a non mancare una festa. Le fotografie scattate in quei 20 giorni – con pazienza, metodo e insistenza – finiscono proiettate al MIX, il festival di cinema gaylesbico e queer al Piccolo Teatro Strehler di Milano, e nella settimana della moda diventano una mostra al Nike Stadium in Foro Bonaparte, dove suonano dal vivo e ballano Big Freeda e il suo entourage. “Era la prima volta che in Italia si vedevano bounce e twerking. Dopo quello show i ragazzi vennero chiamati a Parigi dallo stilista Rick Owens per il suo aftershow”. Il timing è perfetto per farli sbarcare in Europa – dove ancora non li conosce nessuno e hanno il potenziale per imporre un nuovo stile – e per dare visibilità a Sha, finalmente anche in quello che è diventato il suo Paese.
Milano, nel frattempo, è cambiata. È in piena recessione dopo la crisi esplosa nel 2008, reduce dalle giunte di destra e in particolare da quella Moratti, che ha portato attraverso una costante “repressione” alla chiusura di moltissimi locali e cluster creativi. “Non era più la città piena di energia che avevo lasciato, era una Milano più buia, dove mancavano gli spazi e le occasioni di aggregazione ed eravamo costretti a trovarci in casa l’uno dell’altro”. Nel 2013, con i primi effetti della giunta Pisapia, in carica dal 2011 al 2016, le cose per fortuna iniziano a cambiare e la città recupera la vitalità di un tempo. Sha ricomincia a frequentare i locali, il Dude Club in particolare, insistendo per scattare prima o dopo i live, nel backstage delle venue, i ritratti dei dj e dei rapper che gli interessano: B-Real dei Cypress Hill, The Game, Wu Tang Clan, Cooly G, dj-Spin, Ron Morelli e altri. Si rivela l’indispensabile compromesso per trovare soggetti da fotografare senza dover viaggiare, conciliandoli con la nascita della seconda figlia, i lavori che gli vengono commissionati e una parentesi nel filmmaking insieme alla propria compagna dell’epoca – dopo la quale, nonostante gli riesca bene, ritorna al medium fotografico, a lui più congeniale.
Ritratto dopo ritratto, Sha colleziona i volti degli esponenti di spicco della musica internazionale, e nel 2011 realizza la sua prima cover per un artista della scena rap americana, chiamato dall’etichetta del rapper americano Styles P a scattare le immagini della copertina del nuovo album, tra il Bronx e i tetti dei grattacieli di Midtown, Manhattan.
Nel 2016, forte del suo portfolio, Sha ottiene da Rolling Stone l’incarico per un pubbliredazionale in collaborazione con Nike che ha come protagonista Sfera Ebbasta, all’epoca emergente della scena trap in uscita con il suo singolo “BRNBQ” (Bravi ragazzi nei brutti quartieri) che anticipava il suo primo vero album in studio: Sfera Ebbasta. Le foto piacciono così tanto che Rolling Stone gli affida la cover con Marracash e Gué Pequeno per l’uscita dell’album Santeria, e Universal gli propone di realizzare le foto per il booklet dell’album di Sfera. In queste ultime, giocando con le atmosfere notturne, un’illuminazione impeccabile e il rosso saturo che in pellicola trova la sua migliore espressione, con immagini figlie della gavetta nella moda, definisce per primo l’estetica del trapper, contribuendo all’ascesa di un genere non solo musicale, ma anche estetico, da cui attingeranno molti altri fotografi.
Alla copertina per Sfera seguono decine di ingaggi: la visione, la poetica e la tecnica di Sha, che padroneggia grandi e medi formati, è sempre più richiesta e imitata, in particolare nella scena rap. Vecchia guardia – Ensi, Clementino, Gué Pequeno, Marracash, Fabri Fibra – e nuova scena – Rkomi e Priestess, ma anche Elodie, Birthh e il mondo del pop. “Le copertine sono state per me una cassa di risonanza fondamentale,” confessa lui, a cui l’etichetta di fotografo dei rapper che a un certo punto gli è stata affibbiata è sempre risultata riduttiva.
Tra le cover e le immagini più riuscite di Sha – e sicuramente quelle a cui lui è più affezionato – ci sono quelle per Fabri Fibra e il suo album Fenomeno, pubblicato nel 2017. Quattro giorni di shooting tra studio e campagne milanesi e piemontesi e la confidenza di una vecchia amicizia che permette al fotografo di spingere l’artista a fare cose che altrimenti forse non farebbe, come arrampicarsi su un albero. “Prendere un personaggio pubblico e decontestualizzarlo completamente permette di creare immagini forti,” spiega il fotografo, che ritrae Fibra come un barone rampante in sneakers e cappuccio. Anche scattare in Polaroid e poter mostrare subito alle persone con cui lavora le immagini è sempre d’aiuto, conquistandone fiducia e entusiasmo. E infatti da semplici immagini stampa queste diventano la cover per la “Masterchef edition” di Fenomeno.
A questo punto a chiedere a Sha di lavorare alle loro campagne sono sempre più brand, da quelli di sportswear – come Nike e Adidas – a quelli di fascia più alta, come Armani e Porsche. È tornando alla moda dopo una quindicina d’anni dalla gavetta e dai primi lavori per Trussardi, che la sua visione si esprime pienamente, portando il suo stile ormai riconoscibile fuori dalla nicchia musicale e incontrando anche le esigenze commerciali che all’inizio alcuni, come ci racconta, gli recriminavano di non saper interpretare.
Nel 2018 Sha si concentra su Milano e Quarto Oggiaro per Perimetro, rivista di fotografia nata quell’anno con l’obiettivo di raccontare la città e gli abitanti che la animano attraverso una rete dei migliori fotografi locali. Quando Sebastiano Leddi, l’ideatore, lo contatta, gli spiega che ha passato diversi mesi alla ricerca dei fotografi con cui dare avvio al progetto, facendosi aiutare dai suoi contatti su Milano e chiedendo loro di nominare il fotografo o la fotografa che trovassero più rappresentativi e adatti allo scopo: Sha Ribeiro è il nome che è stato fatto più spesso. “Volevo realizzare un progetto come quelli di New Orleans, Lisbona, Londra, ma a Milano. Negli ultimi anni la mia fotografia si era basata su immagini costruite a priori, che seguivano una mia chiara visione a monte, poi realizzata sul set, ma a Quarto Oggiaro creare situazioni di fiction come avevo progettato si è rivelato impossibile, le persone non si sarebbero mai prestate”. Il fotografo fa allora un passo indietro e si adatta ai ritmi e alle attese che gli vengono imposti, come è stato abituato a fare ogni volta che si è promesso di riuscire a raccontare le diverse sottoculture in giro per il mondo, e imparando come sempre qualcosa di nuovo.
Quell’anno viene contattato per una collaborazione anche da un gallerista di Milano: ha in programma una mostra sui 1UP, la crew di writer berlinesi nata nel 2003 a Kreuzberg, di cui anche in Italia si trovano in giro diversi pezzi e che in Europa sembra non avere pari, grazie alle sue titaniche imprese e alla capacità di raccontarle sui social. Il gallerista propone al fotografo di ritrarli in notturna mentre dipingono con un estintore su qualche muro di periferia. Sha, scegliendo anche in questo caso la via della decontestualizzazione, li porta invece nel suo studio, tappezzato di teli bianchi, li ricopre di vernice rossa e chiede loro di fare una tag gigantesca sul fondale. Ne nasce uno scatto con il banco ottico che viene esposto in mostra il giorno dopo e che nel 2020 decide di trasformare in un progetto, Red Power, mettendo in vendita due fotografie – in formato 20×30 e 30×40 e stampate in camera oscura senza interventi digitali – con l’intenzione di rendere acquistabile una fotografia d’arte anche a chi ha un budget più ridotto.
Il lockdown, come per tanti colleghi, ha rappresentato l’occasione per rimettere mano all’archivio degli ultimi vent’anni, e forse da questo corpus di immagini e negativi uscirà un libro, una raccolta di lavori realizzati a partire dal 2006. Prima di quell’anno c’erano i graffiti, e questa decade non può che chiudersi con una sua fotografia che ritrae in maniera iconica quelli che in Europa sono oggi il punto di riferimento in quell’ambito. Gli chiediamo se ci sia qualcosa che rinnega degli anni ribelli in cui l’arte urbana era ancora molto lontana dai musei e lui non aveva ancora scoperto quella che con gli occhi di oggi sembra un’inevitabile vocazione. “Non rinnego niente,” risponde lui, “perché, andando oltre l’illegalità, è stato un momento genuino e costruttivo e senza tutto ciò che c’è stato la mia fotografia non potrebbe essere così com’è oggi. Quando fai fotografie racconti un atteggiamento frutto anche delle esperienze passate. Per questo è inutile scimmiottare qualcosa se non lo si è vissuto e a fare la differenza sono quelli che raccontano secondo il proprio punto di vista”.
Le foto che oggi scatta Sha Ribeiro, quelle che ha scattato a New Orleans, o che ha realizzato a Quarto Oggiaro, le campagne che segue oggi per i marchi che lo scelgono, sono frutto di situazioni che il fotografo ha dovuto imparare a gestire, come quando si calava nelle gallerie buie della metropolitana e si nascondeva tra i cunicoli aspettando che il treno passasse o si teneva pronto alla fuga per non essere beccato “dalle guardie”. La conquista di una nuova tag impossibile – secondo un progetto e una visione precisi – e l’elasticità per adattarsi alle circostanze sono stati un grande esercizio per raggiungere la sua fotografia, il suo modo di vedere le cose e di dargli forma al tempo stesso, riconoscendosi in esse. “Io faccio fatica a giudicare il mio lavoro. Quello che spesso mi dicono è che vedendo una mia foto in qualche modo vedono me, e questo vale molto più di un articolo su una rivista d’arte contemporanea o di qualsiasi altro riconoscimento”.
Tutte le foto sono di Sha Ribeiro. I ritratti in copertina sono di Mario Zanaria.