Se dovessimo chiedere all’uomo comune di descriverci l’arte contemporanea, le risposte che riceveremmo sarebbero qualcosa che va dal “è incomprensibile e pretenziosa” a “il mio falegname te lo fa per 50 euro”. Non parliamo della performance art. Perfino fra certe persone che amano l’arte viene vista come una specie di cugino di secondo grado con i capelli rossi con cui non vuoi avere nulla a che fare.
Se siete tra coloro che di fronte alle Furla Series vedono solo una serie di studenti che si agitano come ossessi per le sale di un museo e fanno cose incomprensibili, sappiate che quel senso di imbarazzo, di noia e perfino di disagio che avete provato è frutto di un fraintendimento. Perché la performance è una forma d’arte potente, attuale, piena di elementi sorprendenti e che potrebbe farvi provare delle esperienze che non si possono paragonare a niente di ciò che vi offrono tutti gli altri linguaggi, che si tratti di cinema, letteratura o teatro.
Tutto parte da un orinatoio, realizzato da Marcel Duchamp nel 1917, che rivoluzionò il concetto stesso di arte e inaugurò una nuova era di sperimentazione e libertà. Proprio il desiderio di superare i confini di ciò che in campo artistico era sempre stato considerato lecito, insieme all’idea della vita reale che entra di diritto a far parte dell’opera, sono alla base delle sperimentazioni che negli anni ’60 hanno aperto la strada alle prime azioni performative. La performance quindi lavora direttamente con la vita, senza mezzi termini, sporcandosi le mani: la sua tela è l’arena dello spazio, al posto di pennelli sceglie il corpo del performer. La performance non ha bisogno di filtri: accade, è vera, ed è possibile perché tu sei lì presente, come spettatore e come partecipante a un evento che non potrà mai ripetersi identico a se stesso.
Perché quello che determina la natura della performance è proprio il suo essere immateriale. Si tratta di una delle questioni più spinose – e complesse – ma, cambiando prospettiva, è anche uno degli aspetti che la rende così stimolante: le infinite possibilità che si schiudono durante un’azione performativa offrono infatti uno spazio di incredibile libertà. Ciò non significa che tutto sia arte, ma piuttosto che un artista possa scegliere qualunque tema e, attraverso la sua sensibilità, trasformarlo in una azione performativa memorabile.
Nel 1960 Yves Klein, cultore della filosofia dei Rosacroce e maestro di judo, raccolse in galleria una folla di spettatori eleganti e selezionati: mentre faceva eseguire la sua Monotone Symphony del 1949, una partitura composta da un’unica nota ripetuta per venti minuti, usò alcune modelle nude come pennelli viventi per imprimere sulle tele le sue antropometrie, aprendo la strada alla body art. Quella performance, come molte altre nella sua breve e folgorante carriera, fu uno squarcio di luce nel mondo dell’arte: eliminando i pennelli e usando il corpo, rifiutando la rappresentazione a favore di un’impronta diretta sulla tela, Klein tentava di ritornare a uno stato dell’arte primigenio, puro, a uno stato spirituale dove l’energia del vuoto, che aveva appreso attraverso la pratica della meditazione e del judo, potesse rivelarsi in tutta la sua intensità.
Il 19 novembre 1971, un giovane artista di nome Chris Burden realizzò Shoot. Nella galleria F-Space di Sant’Ana, in California, e si fece sparare con un fucile calibro 22 dall’amico Bruce Dunlap, di fronte a un muro bianco. Ne uscì con il braccio ferito, ma l’azione ebbe un’eco enorme. Nessuno aveva mai fatto qualcosa di simile nel mondo dell’arte. In un solo gesto Burden riuscì a condensare la rabbia bruciante di una generazione, la voglia di polverizzare ogni distinzione tra arte e vita, il corpo come strumento elettivo di indagine, e a trasformare tutto questo in una professione di fede nel potere dell’arte.
Ma la bellezza della performance non risiede solo nei gesti eclatanti: ciò che la rende un soggetto unico all’interno delle discipline dell’arte è anche la sua prossimità con la vita reale.
Per capire cosa intendo, vi invito ad andare a Torino, alle Officine Grandi Riparazioni, rinate di recente. Il luogo in cui una volta gli operai aggiustavano le locomitive di Trenitalia, è oggi infatti dedicato alla cultura. Lo spazio del Binario 1 delle Officine Nord ospita in questi giorni il progetto di Tino Sehgal, artista anglo-tedesco tra le figure più interessanti della scena artistica internazionale, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2013 e candidato al Turner Prize. Sehgal, che si è formato studiando economia politica a Berlino e danza a Essen, è diventato celebre perché non crea oggetti, non dipinge né scolpisce: le sue opere, di matrice concettuale, sono situazioni in cui il pubblico e i performer interagiscono in modo inaspettato. Va da sé che ogni opera è diversa e irripetibile e ogni appuntamento diventa evento unico. Tanto il suo lavoro è effimero e inafferrabile, tanto è pieno di forza. Per sua precisa volontà non è possibile filmare o fotografare le performance, affinché ognuno possa vivere appieno l’esperienza reale senza farsi distrarre da strumenti tecnologici e, una volta uscito, possa trasmettere esclusivamente a voce l’esperienza vissuta. Una pratica che si ricollega idealmente al lavoro di Allan Kaprow, padre nobile della performing art e degli happening, insieme a John Cage.
Ma cosa succede nell’opera di Sehgal, che non ha neppure un titolo?
Anche se la mia esperienza non sarà esattamente uguale a quello che vivrete voi, posso raccontarvi come è andata per me. Varcando la soglia delle OGR si ha accesso a un enorme hangar, uno spazio di archeologia industriale completamente vuoto, dove ci si può muovere liberamente; è possibile rimanere in sala per tutto il tempo che si desidera, perché la performance continuerà finché ci sarà pubblico. Io mi sono concessa il tempo per ambientarmi e individuare le coordinate di quanto stava accadendo, per poi osservare il tutto lasciando da parte i pregiudizi. L’act coinvolge cinquanta performer che si alternano nello spazio, che compiono alcune azioni prestabilite e altre frutto del momento, determinate da fattori quali il comportamento del pubblico, gli umori dei danzatori, i sentimenti che si sviluppano durante lo svolgersi dell’evento e così via. Alcuni movimenti sono l’elaborazione di gesti formali, legati alla storia dell’arte, come Kiss, un momento struggente ispirato alle opere di Canova, Rodin e Brancusi o Instead of allowing some thing to raise up to your face dancing bruce and dan and other things, azione liberamente ispirata al lavoro di due giganti della video arte quali Bruce Nauman e Dan Graham.
Questi elementi rientrano in una parte della ricerca di Sehgal, che si confronta costantemente con autori storicizzati o con figure contemporanee, come nel caso di Philippe Parreno e Pierre Huyghe: per No Ghost Just A Shell i due artisti francesi acquistarono i diritti di un personaggio manga per dargli una nuova vita, mettendolo a disposizione di altri artisti che potessero declinarlo secondo i dettami della propria poetica. Sehgal ha preso questa figura di finzione e l’ha incarnata nel corpo fisico di una performer, ribattezzandola Ann Lee – l’ha inserita anche all’interno del progetto alle OGR.
Questa parte della messa in scena mi ha colpito per la bellezza formale delle coreografie, e se da un lato la ricchezza degli elementi concettuali messi in gioco è stimolante perché rappresenta un invito alla scoperta, dall’altra è affascinante la purezza visiva dei gesti dei danzatori. Potrei dimenticarmi di Rodin, di Nauman e dei manga, ma il linguaggio della danza avrebbe comunque la forza di comunicarmi qualcosa di universale, in una perfetta sintesi di emozione e riflessione. Mentre osservavo le interazioni dei performer e ascoltavo le parole che stavano cantando, mi sono accorta che altri di quei movimenti sono una riflessione sul tema della tecnologia e del lavoro. Sehgal, che ha studiato economia, ragiona da sempre sull’idea della produzione di beni di consumo e attraverso un’arte fatta di nulla, solo di presenza, cerca di immaginare un nuovo modello di interazione sociale, sfuggendo al dogma del sono-in-quanto-produco.
Possiamo dire quindi che il suo lavoro sia visionario, in qualche modo anche ideologico? Sì, e possiamo dire addirittura che sia poetico, senza timori. La grande libertà immaginativa, anche interpretativa che la performance dona allo spettatore, è un’altra delle ragioni per cui vale la pena schiudere la porta che affaccia su questo strano mondo. L’efficacia di in una riflessione politica ed economica sviluppata attraverso un linguaggio come la danza mi incanta e mi sembra abbia qualcosa di miracoloso; la rarefazione degli elementi in scena, invece di togliere, aggiunge forza al messaggio di Sehgal, che è un maestro nel dare forma a concetti complessi che spaziano dalle domande universali sull’essere alla critica sociologica.
Dopo un’iniziale perplessità, osservando movimenti, suoni e interazioni, il mio cuore ha cominciato a battere più forte. I performer si sono avvicinati agli spettatori, ciascuno ne ha scelto uno e gli ha raccontato frammenti di vita ed episodi privati. Un ragazzo alto mi ha confidato una memoria imbarazzante risalente alla sua prima infanzia, una ragazza brasiliana mi ha raccontato di un colpo di fulmine e un’altra del suo primo giorno di asilo. Quello che ho vissuto è stato un momento di incontro, di presenza, in cui sentimenti di imbarazzo, o di seduzione, un senso di invasione ma anche di incontro e di vicinanza profonda a un altro essere umano, tutto insieme. Ho avuto a che fare con un’umanità spogliata da ogni sovrastruttura, e me ne sono resa conto poco alla volta, quando qualcuno è arriva e mi ha cantato in faccia una canzone, lasciandomi senza fiato, o quando qualcuno mi ha consegnato un frammento della sua vita, senza chiedermi niente in cambio.
Assistere a un performance è un po’ come accettare un appuntamento al buio. Non puoi sapere quello che ti aspetta. Potresti incontrare qualcuno che ti affascina per il suo aspetto, ma che ti delude appena inizia a parlare, o qualcun altro dall’intelligenza brillante incarnata in un corpo che lascia indifferente; potrebbe essere amore a prima vista, una primavera in un caffè a novembre, oppure i cinque minuti più lunghi della tua vita. Ciò nonostante, sarà sempre un incontro reale, con un essere umano, che ti restituirà qualcosa, che sia di te o di lui stesso, e che avrà spostato le coordinate del tuo quotidiano per un attimo, instillandoti un germe di novità e idee che non pensavi neanche di avere. Quello della performing art è sempre una specie di libero stato, un luogo effimero ma reale, dove gli spettatori e l’artista possono incontrarsi e sperimentare uno sguardo inedito sulle cose.
Alla fine la performance potrà anche non piacerti, ma non è questo l’importante. Quello che conta è l’incontro con qualcosa di sconosciuto che ha che fare con la bellezza (anche quando la nega o la dimentica), con la vita, con lo scorrere del tempo e, infine, con il senso ultimo delle nostre esistenze.