Quando mi interrogo su quale sia il punto di raccordo tra Prima, Seconda e Terza Repubblica, sebbene quest’ultima stenti ancora a definire la sua forma, faccio fatica a identificare un evento che faccia da collante. Gli anni di piombo sono così diversi dal berlusconismo, così come il boom economico ha in teoria poco in comune con l’avvento del Movimento Cinque Stelle, o con altri fenomeni più o meno estemporanei. Forse, allora, non è un evento in sé il possibile ponte tra le epoche, bensì una caratteristica, la rappresentazione stessa del potere in Italia. Più che i politici, le eminenze grigie; più che il manifesto, ciò che non si vede; più che le leggi parlamentari, i movimenti e la corruzione fuori dai palazzi delle istituzioni. Nell’arco di decenni sono stati scritti saggi di ogni tipo per creare un affresco del malcostume – e della malapolitica, e della malavita – all’italiana, ma credo che sia un romanzo il vero bignami del “potere marcio” che ha mosso e continua a muovere i fili del nostro Paese. Si tratta di Todo modo di Leonardo Sciascia, pubblicato nel 1974, ed è impressionante come, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita, riesca a trascendere il tempo e a descrivere anche l’Italia di oggi.
Un noto pittore, a cui Sciascia non dà mai un nome per tutto il testo, si ferma per caso in un eremo trasformato in albergo, l’eremo di Zafer, e gli viene comunicato che durante la sua permanenza alcuni personaggi di rilievo – ministri, uomini della Chiesa, imprenditori, direttori di banca – sarebbero stati presenti nella struttura per fare degli “esercizi spirituali”. Il riferimento di Sciascia è agli esercizi spirituali di Sant’Ignazio da Loyola, e il titolo è preso proprio da una frase del fondatore dei Gesuiti: “Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina” (“Cercate in ogni modo di adeguarvi alla volontà divina”). L’ispirazione è venuta a Sciascia grazie a un’esperienza diretta. Un giorno, infatti, alloggiò in un resort a Zafferana Etnea, ai piedi del vulcano, e per caso si ritrovò in mezzo a un ritiro diremo “spirituale” di diversi membri della Democrazia Cristiana. A differenza della trasposizione cinematografica di Elio Petri, Sciascia, però, nel suo libro non cita mai direttamente la DC. Non parla nemmeno di massoneria, anche se parecchi indizi fanno capire al lettore la natura di certi legami, come l’uso del termine “confraternita” o le dinamiche interne che si vengono a creare.
A tessere le trame all’interno dell’eremo-albergo è don Gaetano, una figura che Sciascia dipinge più come un politico, un imprenditore, che come un prete. Uomo estremamente colto, già dalle prime pagine si intuisce il suo ruolo al vertice di una scala piramidale che non punta alla verticalità spirituale, ma a quella del potere economico e politico. Don Gaetano prende sotto la sua ala i ministri e gli altri ospiti dell’eremo, ha affari nella costruzione di altri alberghi e in non precisate operazioni parallele. Tiene in pugno tutte le sfere d’influenza del Paese e quando dialoga con il pittore non lo fa mai con boria o con superficialità: è accogliente, non nasconde la sua scaltrezza – semmai i suoi intenti. Lui stesso autodenuncia i mali del suo tempo: “Guardo troppo spesso la televisione, perché possa dirmi completamente immune dalla lebbra dell’imbecillità. La contemplazione dell’imbecillità è il mio vizio, il mio peccato”. Qui è come se avvenisse in Sciascia una trasfigurazione: lui, teoricamente immedesimabile nel pittore, diventa don Gaetano per sferrare una critica a una delle piaghe del suo tempo, che poi si è protratta per anni fino a spostarsi sul web.
Il magnetismo del prete è però tale da porci nella condizione di essere potenzialmente tutti don Gaetano, ovvero affamati di potere e pronti a tutto per raggiungerlo. Quando mostra al pittore la riproduzione di Sant’Antonio tentato dal diavolo, opera del Diciassettesimo secolo di Rutilio Manetti, è evidente il gioco sull’ambiguità di don Gaetano, sulla sua capacità di passare da santo a tentatore a seconda delle convenienze del momento. Nell’opera, il diavolo indossa degli occhiali tondi con una montatura nera a rappresentare l’inganno del sapere. Don Gaetano è coltissimo, intrattiene i suoi ospiti con discorsi su arte, filosofia, letteratura, teologia, e quasi li ipnotizza. Solo in quel frangente, davanti all’opera di Manetti, il protagonista si rende conto che il diavolo nel quadro e don Gaetano indossano lo stesso paio di occhiali.
Dopo questa presa di consapevolezza – del protagonista e, di conseguenza, del lettore – il male inizia a compiersi. Durante uno degli esercizi spirituali, ovvero la recita del rosario camminando in fila, formando un quadrato nel parcheggio dell’albergo con don Gaetano a dirigere la processione, un ex senatore a capo di un’azienda collegata allo Stato viene ucciso con un colpo di pistola. All’arrivo del commissario e del procuratore, i potenti lì presenti iniziano a irrigidirsi. Non soltanto per l’indagine in corso, ma per il timore di sporcare la propria immagine pubblica: agli illustri ospiti dell’albergo infatti erano state procurate dalla stessa cricca di don Gaetano delle prostitute. “Per alleviare la mente e lo spirito”, spiegano i gestori della struttura. Per fare un affresco della società dell’epoca, Sciascia usa un espediente arguto: nella stanza del cadavere vengono trovati degli assegni, delle mazzette indirizzate a tutti gli ospiti dell’albergo, ma loro temono maggiormente il fango che li coprirebbe se venissero colti con delle amanti. Lo scandalo pubblico più grande, nella critica di Sciascia, è dunque la cosiddetta “cronaca rosa”, con la morale cattolica a essere ben più intransigente per i peccati sessuali che per le tangenti e gli intrighi legati alla cosa pubblica. Tutt’ora, nel 2023, molti italiani pensano erroneamente che Berlusconi sia stato condannato per il Bunga-Bunga e l’affaire Ruby, e non per frode fiscale.
Alla trama si aggiunge poi un altro delitto, e anche in questo caso Sciascia si allaccia ai suoi tempi per le dinamiche con cui viene compiuto. Un avvocato, sempre ospite dell’albergo, viene trovato morto sotto la finestra della sua camera. Inizialmente si pensa a un suicidio, sembra quasi un rimando alla vicenda dell’anarchico Pinelli, e infatti successivamente si scopre che l’avvocato è stato ucciso e poi buttato giù. Forse perché sapeva troppe cose sull’omicidio consumato il giorno precedente; non è dato sapersi. Come dichiara cinicamente e diabolicamente don Gaetano: “Le cose che non si sanno, non sono”. È la summa dei delitti irrisolti, delle vicende insabbiate all’interno di un Paese corrotto dove Stato e Chiesa vanno a braccetto coprendosi a vicenda.
Durante le indagini, nelle quali il procuratore cerca in tutti i modi di trarre informazioni senza riuscirci, tutti i presenti proteggono se stessi e la rete di potere che hanno creato. Un passaggio dell’opera spiega bene ciò che negli anni Settanta dettava i movimenti degli ingranaggi del potere: “Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro”. Non sono certo che oggi le cose siano davvero cambiate.
Il finale dell’opera lascia il lettore nel limbo dell’incertezza. Tecnicamente è un epilogo aperto, da cui ognuno può trarre le proprie interpretazioni, ma in realtà è chiuso come le stanze dei bottoni, quei luoghi invalicabili che chi detiene il potere tende a nascondere insieme alla chiave. Don Gaetano viene trovato morto nel bosco fuori dall’albergo, una ferita d’arma da fuoco e una pistola al suo fianco. Suicidio, omicidio, come e perché: il procuratore non riesce a trovare una risposta. La chiede anche al protagonista, ma nemmeno lui la sa. Addirittura, un po’ per provocazione e un po’ per una resa di fronte a “ciò che non si sa, e quindi non è”, dichiara di essere stato lui ad ammazzare don Gaetano. Non viene creduto: né dal procuratore, né dal lettore stesso. Sciascia lascia inoltre intendere implicitamente che la morte di don Gaetano non porrà fine alla corruzione, agli illeciti e a quel potere nascosto che in realtà è un uroboro, una creatura la cui testa mangia la sua stessa coda. Come per le strutture mafiose, venendo meno un tentacolo se ne forma un altro, così la piovra continua a sopravvivere.
Non è un caso se il magistrato Nicola Gratteri cita spesso Todo modo come opera perfetta per descrivere la spartizione del potere in Italia. Dopo la pubblicazione del romanzo abbiamo assistito a innumerevoli casi simili a quelli narrati da Sciascia, trattandosi di uno spaccato dell’Italia ancora attualissimo. Il libro è uscito prima dello scandalo della P2, prima di Tangentopoli, prima del caso Emanuela Orlandi. Eppure ancora adesso, in qualche luogo di ritrovo in Italia, è probabile che dei ministri, dei sottosegretari, degli industriali, dei cardinali siano riuniti sotto lo stesso tetto a creare quella stessa ragnatela nel vuoto dai fili d’oro – tra tangenti, prostitute, esercizi spirituali e patti di sangue. Siamo ancora il Paese dei don Gaetano, dei preti e dei diavoli con gli stessi occhiali. E le loro lenti non ci permettono di guardare nulla.