​​Il male estremo di Santa Morina - THE VISION

Il 5 gennaio 2002, Santa Morina, 63 anni, uccide nel sonno, a colpi d’accetta, Salvatore Pecora, suo marito da 23. Lo fa per disperazione, o per salvarsi la vita. Al processo il giudice non le riconosce la legittima difesa: il pm aveva chiesto 24 anni di carcere, l’avvocato l’assoluzione.

Santa Morina prima butta dell’olio bollente in faccia all’uomo, che sta dormendo nella camera da letto della loro casa di Misterbianco, a Catania. Poi si accanisce sul corpo. Sulla parete, sopra alla testiera di legno, è appeso un grande quadro che rappresenta il Sacro Cuore di Gesù, attorniato dagli angeli. È stato lui, Gesù, a darle la forza, ha detto la donna, perché lei, da sola, non avrebbe avuto il coraggio di uccidere neanche una mosca. Santa, Santina, signora Morina: le colleghe, le amiche e i vicini di casa la capiscono, sapevano tutto. Testimoniano in suo favore. “Quell’uomo era una bestia”, ripetono ai giudici, al pm e agli avvocati. “Se fosse morta lei mi sarebbe dispiaciuto”, ha detto una vicina. Invece è morto Salvatore, il marito ottantenne, ma forte come un ragazzo di venti, che aveva minacciato di uccidere lei e i suoi ragazzi. “Avvocato, salvi i miei figli”, dice al suo difensore la donna, appena lo incontra.

Santa Morina è nata ad Agira, in provincia di Enna, in una famiglia poverissima. Conosce la fame, i digiuni veri, che vanno avanti anche per tre, quattro giorni di fila. A 11 anni va a lavorare, a Catania, per dare una mano ai genitori: fa la cameriera, ma dei soldi che guadagna non le resta quasi niente, la madre le sequestra tutto. “L’infanzia l’ho avuta bruttissima”, dice. A 17 Santa sposa un pastore, ma l’uomo dopo pochi anni muore di infarto: “Il Signore la roba buona se la prende sempre”.

Agira

Santa Morina resta da sola, ha quattro figli da mantenere. Trova lavoro come bidella, ma è una madre senza marito nell’entroterra siciliano degli anni ’70: ha bisogno di qualcuno al suo fianco. Conosce dunque Salvatore Pecora, un vedovo vent’anni più grande di lei, che ha fatto il contadino in Sicilia e l’operaio in Germania. I due si sposano: il matrimonio è combinato dalla sorella di Santa, Salvatore è il fratello di suo marito; pochi mesi dopo Salvatore Pecora torna in Germania. Non manda una lira. Dopo sei anni torna in Sicilia e per la moglie inizia il terrore: parolacce, abusi, la più completa sottomissione. Le colleghe della scuola in cui la donna lavora lo racconteranno durante il processo: la signora Morina è sempre triste, mortificata, parla pochissimo, lo sguardo incapace di sollevarsi da terra. Salvatore Pecora la chiama “schiava”, “negra”, “buttana”, mai per nome; in casa tiene ferri, bastoni, frustini fatti coi cavi della luce intrecciati: una collezione di strumenti di tortura. “Quando mi guarda si deve pisciare addosso”.

Santa Morina in giovane età

Tutti i giorni, per 23 anni, minaccia di uccidere lei e i suoi figli. Lo dice anche alle vicine di casa, senza farsi problemi: “La faccio a pezzi con l’accetta”. Le dice che la colpirà in tutto il corpo fino a farle implorare il colpo di grazia. E la picchia davvero, fin dall’inizio. La prima volta succede appena quindici giorni dopo il matrimonio: Santa non ha voglia di andare a Catania a fare delle commissioni, e lui le tira un pugno in testa. “E guai a te se lo dici a qualcuno”. Una volta la percuote talmente tanto da rompersi un dito – al pronto soccorso dice di averlo sbattuto. Quando la picchia lo fa dove i segni non si possono vedere. E la avvisa: se dovesse andare dal medico o dai carabinieri, verrà uccisa.

Una volta Santa va a prendere lo stipendio, ma tornata a casa si dimentica di metterlo nel cassetto, come lui le ha ordinato di fare. Stanca, si sdraia sul letto e si addormenta. Lui torna, la sveglia. “Dov’è lo stipendio?”, “È qua, nella tasca”. “La prossima volta che fai una cosa del genere te lo metto in bocca e col manico della scopa te lo faccio uscire dal…”. Per lo stesso motivo un’altra volta la chiude in bagno e le causa uno svenimento a furia di colpi alla testa. Santina a volte si confida con le colleghe: “Il Signore mi ha dato questa croce e io sopporterò fino alla fine”. “Perché non lo denunci?”, le chiedono. “Ho paura per i miei figli”.

Salvatore Pecora è avido: ha due pensioni, ma tutti i suoi soldi li mette in banca: “Così, se mia moglie muore,” confida un giorno a una vicina, “io ho i miei soldi e qualcuno ancora mi prende come marito”. Sul suo libretto, dopo l’omicidio, trovano 130-140 milioni di lire. La casa in cui vivono è di Santina, anzi è intestata ai suoi figli, che però se ne vanno il prima possibile. Resta solo il più piccolo, Salvo, e la famiglia vive grazie al suo stipendio e a quello della madre.

Quando i figli di Santa tornano per trovare la madre, Salvatore Pecora minaccia anche loro. Solleva i tavoli e le promette a tutti: “Ti ammazzo, ti spezzo. Guarda le mani: ce le ho ferme!” La figlia, Francesca, non ha mai assistito ai pestaggi, ma una volta trova in testa alla madre un bernoccolo “da far paura”. Un’altra volta la vede zoppicare. Le alza la gonna: dal ginocchio all’anca è tumefatta. Salvatore, a Francesca, lo dice apertamente: “La donna deve essere schiava dell’uomo. Glielo devo dire a tuo marito: ti deve prendere e ti deve dare tante nerbate”. I figli non sanno tutto quello che succede. Stanno zitti: assecondano il silenzio della madre per non peggiorare la situazione. Lei, quando può, nega. “Non è vero, ho sbattuto”, “Sono inciampata”, “Sono caduta”. Negli ultimi anni per paura di tornare a casa si ferma a scuola più a lungo e se c’è del lavoro straordinario da fare, ne approfitta per restare fuori. Durante il processo anche il medico di famiglia dice la sua: “Non mi avrebbe mai parlato delle percosse. Nascondeva molte cose, tendeva a minimizzare quello che succedeva in famiglia”. Il pubblico ministero non crede ai racconti che si affollano in aula: secondo lei i testimoni hanno “riletto le conoscenze e i ricordi alla luce di quel che è successo dopo”.

Francesca, sorella di Santa Morina

Salvatore Pecora insulta, minaccia i figli di Santa e i loro parenti: “Vi schiaccio la testa come si fa coi conigli”. Le teste lui le schiaccia davvero, almeno ai gatti. Ai due nipotini di Santa racconta come sfondargli il cranio usando due grosse pietre. Avvelena i cani a uno dei vicini di casa, ne minaccia un’altra di massacrare di calci il suo piccolo Yorkshire. Sugli animali Salvatore Pecora sfoga il massimo della sua crudeltà. Un’estate ammazza addirittura il proprio cane a bastonante, davanti a tutti: si è lasciato accarezzare dai ragazzini del cortile. “I cani che si fanno toccare sono dei babbi”.

Santina deve subire anche le peggiori umiliazioni sessuali: Salvatore la lega al letto coi cavi della corrente e approfitta della sua rassegnazione. Il giudice non sembra aver colto il clima che regna in quella casa: “Ma lei glielo diceva ‘guarda che non mi devi legare più’?” “Non ce lo potevo dire. Non potevo reagire. Non potevo parlare. Dovevo stare muta, rannicchiata, in silenzio”.

Il primo pomeriggio del 5 gennaio del 2002 Santina si convince che quel giorno Pecora ammazzerà davvero lei e i figli. Il pm le chiede, scettica: “Perché ne era tanto sicura?”. “Lo conoscevo da 23 anni. Quel giorno era deciso al cento per cento”. Santa prepara della pastina, si mettono a tavola. Salvatore Pecora le sputa nel piatto e la obbliga a mangiare. L’uomo va nel soggiorno, la donna va in camera da letto, si inginocchia davanti al Sacro Cuore: “Oggi succede qualcosa. Dammi un segno, aiutami, dimmi che devo fare”. Si alza e sente una “caloria”, del calore salirle su dalla punta dei piedi. L’uomo decide di andarsi a coricare: “Vado a letto così mi riposo e quando mi alzo sono più forte”. Santina si stupisce del sonno profondo di Salvatore. Non è da lui. Ecco il segno che ha chiesto a Gesù. Ora tocca a lei: deve fare l’unica cosa possibile.

Agira

Mette a scaldare dell’olio con un pentolino. Prende l’accetta che Pecora ha preparato per ammazzarla o almeno per dimostrarle che lo potrebbe fare da un momento all’altro. Raggiunge l’uomo che dorme in camera da letto e gli butta l’olio bollente sulla testa. Prende a colpirlo con l’accetta. Una, due, quante volte? “Parecchie, tantissime, non si possono nemmeno contare”.

Per il pm è la condotta tipica dell’esecutore, del killer che ha organizzato un piano e lo esegue con freddezza. C’è premeditazione: aveva deciso da tempo. E l’ha fatto con una foga, una furia non necessaria. Era pur sempre “l’uomo con cui ha condiviso moltissimi anni della sua vita”. Santina nega: “Non ho mai pensato di ucciderlo. L’ho pensato quella volta e l’ho fatto”. O me o lui, Santina ha pensato.

Quando i carabinieri entrano nella casa di Misterbianco trovano Santa Morina seduta che piange. Confessa subito. C’è un fortissimo odore di olio bruciato. È sparso ovunque. Così come il sangue.

Santina viene condannata a 11 anni in primo grado: viene negata la premeditazione e il giudice le riconosce l’attenuante della provocazione. La Corte d’Appello però aumenta poi la pena di 3 anni e la Cassazione conferma i 14 anni di reclusione. Entrambe negano l’attenuante: la ferocia e la crudeltà di Salvatore Pecora non è stata sufficientemente provata.

Santina va in carcere a Catania, dove ricama quadretti all’uncinetto con versi di poesie che le suggeriscono le suore. Nel 2013 le vengono concessi i domiciliari. Nel 2014, forse per la prima volta nella sua vita, Santa Morina è una donna libera.

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