C’è una scena del film di Fellini del 1972, Roma, che racchiude in sé forse una delle letture più lucide dello spirito dell’urbe. Si vedono gli operai e le autorità che vagano nei meandri sotterranei della città, durante gli scavi per la costruzione della linea metro, e a un certo punto vengono ritrovati dei mosaici meravigliosi risalenti a chissà quale fase imperiale. Quando l’aria li tocca però, queste opere d’arte si sgretolano e spariscono. Tutti i presenti rimangono atterriti dallo spettacolo struggente di un pezzo di storia che svanisce in pochi secondi. Chi vive a Roma questa sensazione di impotenza e magnificenza la conosce bene. Nei quartieri della Capitale si alternano immagini di una bellezza insostenibile ad altre di degrado totale, pervasivo e logorante. C’è bisogno della metro, delle strade e dei servizi, ma bisogna scendere a patti con la realtà di un posto talmente unico che merita una legge a sé. E per amministrare una città del genere forse un sindaco non basta. Con il suo carattere schizofrenico e superbo, Roma è un eterno conflitto tra buche che devastano le strade e luoghi che ti bucano gli occhi per quanto sono sfacciatamente belli. Tra autobus in fiamme che preannunciano l’apocalisse e ipotesi di bocche dell’inferno in procinto di aprirsi al centro di Piazza del Popolo, sembra che il caos regni sovrano. E visto che non si vive di sola bellezza, la domanda che sorge spontanea è come si è arrivati a questo punto. O forse è meglio chiedersi se a questo punto non ci siamo sempre stati.
Quando mi sono trasferita a Roma, nel 2011, Gianni Alemanno era a tre quarti del suo mandato di sindaco, e chiunque incontrassi mi diceva che la città non era mai stata peggio. L’ex–squadrista famoso per i suoi contatti con l’estrema destra – che non si è trattenuta dal festeggiare il suo insediamento al Campidoglio con saluti romani e croci celtiche – oltre a vantare un curriculum di tutto rispetto costellato da diversi arresti (tuttavia sempre risolti con il suo proscioglimento), è anche famoso per essere la principale causa dei mali capitolini odierni. In realtà, se proprio volessimo addentrarci nell’ardua missione di rendere giustizia allo spalatore di neve che ha armato i vigili urbani, è giusto fare qualche passo indietro nella storia dei sindaci romani e capire come siamo arrivati al punto in cui Virginia Raggi propone che delle capre bruchino i parchi per risolvere il problema del personale.
Dalla Prima Repubblica in poi, i primi cittadini di Roma sono stati 19. Alcuni si sono scavati una posizione nella walk of fame della città più caotica d’Italia, altri invece sono passati via come foglie al vento. Il primo sindaco è stato Salvatore Rebecchini, che ha tradotto in chiave metropolitana l’andazzo del Paese, inaugurando una lunga stagione di cariche democristiane. Di lui si ricordano le grandi opere di espansione post-belliche, dalla stazione Termini al completamento dei lavori di via della Conciliazione, e non mancarono certo anche opposizioni da parte di ambientalisti e intellettuali per la sua politica all’insegna dell’ampliamento non esattamente determinato da una filosofia dello sviluppo sostenibile. Dopo di lui, altri tre sindaci della Dc si susseguono: il nostalgico Urbano Cioccetti, che vietò la commemorazione per la festa della Liberazione, Amerigo Petrucci, che si trovò a dover far fronte al fenomeno dilagante dell’abusivismo edilizio, e infine Clelio Darida, un democristiano di stampo fanfaniano e forlaniano. Ciò che accomuna questa prima ondata, oltre al parallelismo con la situazione politica nazionale, è la presa di coscienza rispetto alla gigantesca patata bollente che è l’amministrazione della Capitale, tra piani regolatori impossibili da mettere in atto e la mole gigantesca di beni culturali da dover manutenere. Già da allora Roma giocava a fare la prepotente, ben conscia di contenere in sé un patrimonio artistico e culturale che male si accoppia con un’idea espansionistica di progresso tecnologico.
Dal 1976 comincia l’era delle cosiddette giunte rosse: Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere. Per nove anni, Roma conosce una fase di rinascita e splendore culturale, nonostante la fase politica molto delicata, caratterizzata da un alto tasso di il terrorismo e criminalità – erano gli anni della Banda della Magliana. Argan, il famoso critico d’arte, incarna probabilmente la qualità più importante che tutti i sindaci di Roma dovrebbero avere: la consapevolezza della storia. Con lui infatti ha inizio la famosa rassegna dell’Estate romana, e la famosa frase “o le automobili o i monumenti” è la quintessenza della filosofia amministrativa di questi anni di giunte del Pci. Ma i nove anni di comunisti in Campidoglio non furono solo anni di abbellimento della città e di lotta all’imbarbarimento del patrimonio archeologico di Roma. C’è uno spot della campagna elettorale di Luigi Petroselli che si chiama “Io voto, tu voti”. I protagonisti sono Ninetto Davoli e Franco Citti, che girano per la Capitale alla scoperta delle grandi conquiste di uno dei sindaci più amati e compianti di Roma. C’è un vecchietto che si fa il bagno nella vasca di casa e dichiara con spavalderia “Ieri me ne so’ fatti tre, nun me pare vero: pe’ quarant’anni m’arangiavo ‘na bagnarola,” a sottolineare il fondamentale contributo di Petroselli per la riqualifica delle borgate romane, luoghi che fino ad allora erano stati trattati più come delle discariche umane che come delle abitazioni dignitose. Dalla periferia, Davoli e Citti si spostano in Vespa verso il centro, fino a un divertente quanto emblematico incontro con un imprenditore cafone che sfreccia nella sua decappottabile e che risponde con “Zona pedonale? E che vor di’?”. È un’evidente metafora della scelleratezza di chi ha gettato Roma nelle mani del peggior espansionismo metropolitano privo di una qualsiasi coscienza storica e civica.
Finiti gli anni d’oro delle giunte rosse – Petroselli muore improvvisamente e Vetere, che gli succede, diventa senatore nel 1987 – ritorna alla carica la Dc. Nicola Signorello, di corrente andreottiana, passato alla storia per la sua gestione immobilista della città (detto anche “er pennacchione” per la sua verve cerimoniosa), Pietro Giubilo e Angelo Barbato. Nel 1989 fa il suo ingresso quello che forse potremmo individuare come il sindaco che chiude un’epoca e ne inaugura un’altra, all’insegna delle giunte commissariate e della poca propensione verso la legalità – del resto, in quegli anni si stava facendo largo un leader molto simile per attitudini. È infatti il turno di Franco Carraro, direttamente dal pentapartito e dal “patto del camper” tra Craxi e Forlani, un accordo che prevedeva che l’incarico di sindaco della capitale venisse affidato a un socialista. Campione di sci nautico, banchiere e dirigente sportivo, si trova a guidare ben tre giunte a causa delle incriminazioni e degli arresti dei suoi assessori. Una carriera promettente, quella di Carraro, non poteva che culminare con una lunga stagione di militanza tra i ranghi di Forza Italia.
Il 1993 è considerato un anno di svolta per la storia delle giunte romane. Dal ’93 al ’97 e poi dal ’97 al 2001, infatti, arriva la figura angelica ed elegante di Francesco Rutelli, il volto gentile della sinistra moderata, o come lo chiamava qualcuno (Cossiga), “Cicciobello”. Della sua squadra fanno parte anche i cosiddetti “Rutelli Boys”, tra cui troviamo il futuro Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e Roberto Giachetti, che perderà al ballottaggio con Virginia Raggi nel 2016 e che proponeva una linea di guida della capitale in continuità con quella rutelliana. Negli anni della sua amministrazione, Roma si trovò a vivere una seconda fase di rinascita: “programma 100 piazze”, piano regolatore all’insegna del verde, ampliamenti del GRA e della metro A, nuovi musei. A puntare il dito contro la sua amministrazione, accusando “Cicciobello” di aver lasciato dei buchi insanabili nella casse capitoline, è stato Ignazio Marino, sfortunato continuatore della tradizione del centro-sinistra. Rutelli ha però replicato con una risposta divisa in otto punti in cui si difende a proposito dell’indebitamento recente di Roma, peccato originale delle diciannove amministrazioni che si sono succedute negli ultimi settant’anni. A quanto dichiara Rutelli, infatti, è dal 2008 che sono state mischiate le carte: prima di allora era il Bilancio dello Stato a finanziare, ad esempio, lavori della metro. In quell’anno invece è subentrata una gestione Commissariale, motivo per cui non si possono confrontare le cifre del debito presente con quelle della sua giunta, che lui stesso dichiara essersi spesa per l’investimento e il progresso della città senza portarla sotto la soglia di debito pro capite di altri comuni, come Milano o Torino. “I mutui attivati durante la mia Amministrazione erano insostenibili? No. Erano assolutamente corretti, e basati su un’ineccepibile gestione dei conti del Comune. Conquistammo il rating Tripla A; i 347 mutui contratti – numero e entità decisamente inferiori alla media degli ultimi vent’anni – rimasero al 12% delle entrate, molto al di sotto della quota consentita; non vennero emessi dei derivati; il costo del servizio del debito diminuì,” spiega Rutelli.
Prima del fatidico 2008, dunque, e prima dell’arrivo del mefistofelico Alemanno, tra Rutelli e Walter Veltroni Roma viene guidata all’insegna di una linea di continuità. Una linea che sembrava volersi riconfermare ma poi tragicamente abortita otto anni dopo a causa della vittoria di Virginia Raggi su Roberto Giachetti, che avrebbe tanto voluto mettere in pratica i precetti acquisiti durante il suo apprendistato da Rutelli boy. Veltroni, “l’Obama italiano”, lascia la carica di sindaco per potersi candidare con il neonato Pd e affida Roma nelle mani Alemanno, che vince al ballottaggio con Rutelli. Inizia così, dieci anni fa, la fase dello sfacelo romano, inaugurata da un sindaco che ha pensato bene di amministrare la città più caotica d’Italia affidando cariche in organi comunali come Atac e Acea a parenti, amici e amici di amici senza alcun tipo di competenze specifiche se non quella di essere dei simpatizzanti di destra. Il povero Ignazio Marino, in effetti, si è trovato tra le mani una bella gatta da pelare. Nel 2013 prende le redini di Roma e, seppure con uno spirito progressista e molto favorevole a iniziative lodevoli come quelle delle unioni civili per coppie omosessuali e piste ciclabili, non riesce a non inciampare in uno scandalo – quello degli scontrini – che gli costerà molto caro, tanto da doversi dimettere.
E così, nella primavera del 2016, arriva Virginia Raggi. Non ha proprio fatto un ingresso con i fuochi d’artificio, tra sedute in Campidoglio che ricordavano tavoli di consultazione dei mangiamorte e le difficoltà a formare una giunta, compreso il caso Marra. Gli incorruttibili pentastellati sono crollati al loro stesso urlo di Onestà, e Raggi ne è stata vittima. Il punto è che, a oggi, colpevoli anche una serie di gaffe come quella del caso “spelacchio”, è diventato davvero difficile giudicare quali siano le colpe del sindaco in carica e quali siano quelle che ha ereditato. Sta di fatto che Raggi continua a perdere pezzi, e le figuracce sembrano essere in aumento, come la storia delle buche che fermano il Giro d’Italia. Ma bisogna dire a sua difesa, e a difesa di tutti quelli che l’hanno preceduta, colpevoli o no di aver peggiorato la città eterna, che quando metti piede a Roma sai che devi accettare un compromesso. Sai che non c’è linearità, non c’è quiete, non c’è ordine né monotonia, non c’è un quartiere uguale a un altro e non c’è sampietrino che sia identico al suo gemello. È il bello e il brutto di Roma, e non c’è sindaco che possa contenere l’indole contraddittoria di una città che ha davvero troppo dentro. Certo, si potrebbe prendere ispirazione dall’operato di chi in passato è riuscito almeno a seguire la corrente di questa città incredibile, e ne ha assecondato gli impulsi più esuberanti. Ma la verità è che non sarà mai del tutto chiaro se è Roma a essere vittima dell’incompetenza o se sono i sindaci a essere vittime di Roma stessa.