Il 26 luglio del 1992, in un piccolo appartamento in Viale Amelia a Roma, una donna sente qualcuno litigare nella casa accanto. A un certo punto un tonfo, poi il silenzio. La donna si affaccia e vede il corpo di una ragazza molto giovane steso per terra; corre subito fuori, gli si accovaccia accanto, chiede cos’è successo. Ma è troppo tardi: Rita Atria rantola e di lì a pochi istanti morirà. Suicidio, dicono, che avviene sette giorni dopo la strage in cui restano uccisi il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. A Borsellino, Rita Atria aveva rivelato i segreti di Cosa Nostra che, essendo figlia di un mafioso, aveva ascoltato fin da quando era bambina. Ancora minorenne, infatti, aveva deciso di superare la paura, andando oltre l’ostilità di una famiglia che non avrebbe mai appoggiato le sue scelte, per diventare testimone di giustizia. Sulla sua morte – la settima vittima di Via D’Amelio – troppe sono ancora oggi le opacità.
Rita Atria nasce nel 1974 a Partanna, un paese della provincia di Trapani. Suo padre, Vito Atria, è un pastore affiliato a una cosca mafiosa della zona. Partanna, insieme ad altri comuni limitrofi, fa parte del mandamento di Castelvetrano, cui faceva capo Francesco Messina Denaro. Nel paese comandano gli Accardo e gli Ingoglia e quando arrivano i fondi per la ricostruzione post terremoto tra i due clan si crea una spaccatura. Il motivo è il controllo del denaro, di quei fondi che non serviranno per la ricostruzione del paese – in cui rimarranno soltanto baracche – ma nel traffico di droga. Con un padre appartenente a una cosca mafiosa del trapanese e un fratello, Nicola, coinvolto nello stesso ambiente, Rita Atria cresce a contatto con la malavita pensando che quella sia la “normalità”. Ma un evento sconvolge per sempre la sua vita e quella della sua famiglia.
In una faida, i sicari di Cosa Nostra, ammazzano Vito Atria e, poco tempo dopo, viene ucciso anche Nicola, che non potrà così mettere in atto la sua vendetta per l’assassinio del padre. Rita rimane sola con la madre e l’altra sorella, ma non si rassegna a quel destino che non fa per lei, non vuole chiudersi nella vergogna e nella solitudine. Rita vuole parlare, raccontare quello che sa. Così, segue l’esempio di sua cognata, Piera Aiello, vedova di Nicola, diventando testimone di giustizia. All’inizio – racconta la magistrata che la interrogò – la ragazza è rigida, non ha fiducia nella giustizia, ma la scruta come qualcosa di ignoto, di sospetto. Il bisogno di riscatto per gli omicidi del padre e del fratello, però, è più forte di tutto e, molto presto, Rita capisce che cosa c’è dietro a quella quotidianità che ha respirato fin da piccola e di cui conosce capillarmente ogni risvolto. L’incontro con il giudice Paolo Borsellino la aiuta a prendere consapevolezza del destino che le è capitato e al quale la giovane sceglie di non rassegnarsi.
Borsellino prova un’immediata tenerezza verso Rita, che trova in lui la figura paterna che non ha più e che, forse, sente di non aver mai avuto. Al giudice Rita rivela tutti i segreti di Cosa Nostra e ne paga le conseguenze: la madre la allontana e la sorella Anna Maria pure. Anni dopo, Anna Maria racconterà del legame profondo con sua sorella, distrutto per sempre da una scelta che non è mai riuscita ad accettare. Per lei, la paura delle conseguenze era troppo forte, e la rassegnazione l’unica via possibile. Ma per Rita era diverso: il bisogno di sapere, forse insieme all’incoscienza della sua giovane età, l’avevano portata nella direzione giusta. Grazie alla sua testimonianza, le indagini su una cosca partannese responsabile di circa venti omicidi hanno una svolta decisiva. Rita viene inserita in un programma di protezione e trasferita a Roma. Borsellino prende a cuore la sua storia, anche perché ha l’età delle sue figlie, ed è deciso a garantirle una vita più serena possibile. Ma la pace dura poco: il 19 luglio si avvicina.
Dopo la strage di Via d’Amelio, Rita vive un momento durissimo. Lo rivela il suo diario, in cui scrive: “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta”. Ma al di là dello sconforto, la ragazza mostra di non perdersi d’animo, di rimanere lucida di fronte a un mostro che si fa sempre più minaccioso: “Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia, che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di quella persona o perché hai pagato per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non ci sarà mai, ma se ognuno di noi prova a cambiare ce la faremo”. Dal giorno in cui scrive queste parole, nella vita di Rita accadono fatti che in trent’anni non sono mai stati chiariti.
Rita – che a Roma ha sempre vissuto con la cognata – viene trasferita in un appartamento in Viale Amelia. Il fatto è anomalo: una minorenne, per di più sotto protezione, non dovrebbe vivere da sola. Dopo pochi giorni dalla morte di Borsellino e degli agenti della sua scorta, Rita viene convocata per un interrogatorio al quale, però, non potrà presentarsi. Perché il 26 luglio precipiterà dalla finestra della casa in cui è appena stata trasferita. Fin dall’inizio emergono le prime ombre: l’appartamento di Rita viene sequestrato, dissequestrato e risequestrato nel giro di poche ore; l’unica impronta digitale, rinvenuta sull’anta della finestra da cui Rita è precipitata, non verrà mai comparata e non si scoprirà mai a chi appartenesse. Inoltre, in casa di Rita viene ritrovata un’agenda, che il magistrato consegna subito a un ispettore di polizia che però non dichiara le proprie generalità. Dell’agenda non si saprà più nulla. All’improvviso, il caso viene chiuso: suicidio.
Rita non ha retto alla strage di Via d’Amelio, alla morte di un uomo che l’aveva protetta e che era diventato quasi un padre, e si è tolta la vita. O almeno così si dice, perché troppi sono i vuoti di verità in questa storia. A più di trent’anni da quella morte, l’Associazione Antimafie Rita Atria ha chiesto la riapertura delle indagini, che ancora non è mai stata accordata. Il funerale di Rita Atria viene disertato da molti abitanti di Partanna. Durante la funzione, il parroco del paese dirà che la ragazza “ha causato l’arresto di tanti innocenti”. Sulla memoria di una ragazza, con l’unica colpa di non essere pavida, viene apposto lo stigma da un microcosmo impaurito e omertoso, che poco sa e che, quello che sa, tace. Rita Atria era rimasta sola nella sua fame di giustizia e di libertà dalle catene di un destino a cui era difficile sottrarsi; con le persone come lei, invece, capaci di affrancarsi da ciò che hanno respirato e assorbito loro malgrado, capaci di mettersi al servizio della verità nonostante tutto, noi dovremmo conservare per sempre un debito di riconoscenza.
Nella solitudine del suo soggiorno romano, Rita scriveva: “Prima di combattere la mafia devi farti un autoesame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”. Un’autoaccusa che riecheggia le parole provocatorie quanto vere del giudice Giovanni Falcone, secondo cui la mafia ci assomiglia, non è altrove come possiamo pensare, ma risiede silenziosa in ciascuno di noi. Rita Atria lo aveva capito: cresciuta in mezzo alla malavita aveva fatto ciò che è più faticoso, cioè immaginare che potesse esserci qualcos’altro e che valesse la pena lottare, anche sacrificarsi, per questo. Rita aveva imparato a fidarsi e allo stesso tempo continuava a sentire la mafia come un vestito cucito addosso, che si stacca solo dopo che si è scesi al fondo del proprio abisso. Aveva avuto il tempo di farlo, anche se era ancora una bambina, ma le è mancato il tempo per tutto il resto. Quello che oggi possiamo fare, nei confronti di chi non si è rassegnato al proprio destino, di chi ha avuto il coraggio e il senso di responsabilità di andare incontro alla paura per cercare la verità, di sacrificare la libertà personale per quella, utopica, di tutti, è impedire che queste vite cadano nell’oblio e continuare a raccontare le loro storie di dignitosa e straordinaria normalità.