La vicenda di Eichmann, sbarcato in Argentina il 14 luglio 1950 sotto il falso nome di Ricardo Klement, è ormai nota. Rapito l’11 maggio 1960 fuori dalla sua casa di via Garibaldi, nelle periferie di Buenos Aires, tramite una rocambolesca operazione del Mossad, venne tenuto bendato e legato a un letto per dieci giorni in un luogo segreto fuori dalla capitale argentina. Il 21 maggio, dopo essere stato pesantemente sedato, venne caricato su un volo El Al per Gerusalemme travestito da steward. Tutto questo è raccontato da Isser Harel, direttore del Mossad all’epoca dei fatti e responsabile dell’impresa, nel libro La Casa di Via Garibaldi, pubblicato nel 1975.
C’è una parte di questa storia che è meno conosciuta, però. Eichmann, e con lui molti altri criminali di guerra – nazisti, collaborazionisti francesi, belgi rexisti, ustascia – sarebbero riusciti a scappare da un’Europa ormai sotto il controllo delle forze alleate grazie a una linea di fuga entrata negli annali con il nome di “Ratline”. Il termine, preso in prestito dal gergo marinaresco, indica le sartie di una nave che permettono la salita fino in cima agli alberi e, in caso di naufragio, rappresentano l’ultimo rifugio sicuro per i ratti prima di finire inghiottiti dalle acque. Tra i responsabili chiave di questa linea di evacuazione vi erano il Vaticano, il governo peronista e, spesso, gli stessi servizi segreti alleati. Subito dopo la caduta del Terzo Reich, la lotta al comunismo era infatti diventata l’imperativo morale dell’Occidente, finendo così per giustificare agli occhi di molti una generale revisione del ruolo di chiunque fosse stato coinvolto nel delirio nazista. In una dicotomia stretta tra rossi e neri, i neri avevano finito per essere il minore dei mali.
L’Argentina non subì passivamente il flusso migratorio dei criminali nazisti: l’antisemitismo era parte del bagaglio culturale del Paese molto prima che individui come Josef Mengele sbarcassero a Buenos Aires. Uki Goñi, giornalista e scrittore argentino, racconta nel suo libro Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l’Argentina di Perón di come la tradizione liberale fosse lentamente tramontata durante gli anni Trenta, lasciando spazio alla volontà di costruire un Paese “autenticamente cattolico”. Secondo i nazionalisti cattolici argentini, che iniziarono allora a dominare lo scenario politico, le posizioni naziste trovavano naturale collocazione in questo nuovo ideale patrio, in virtù dell’ordine e del ripristino della tradizione che propugnavano.
“Il regime nazista era in realtà uno strumento della volontà divine,” scrive Goñi, riportando poi le parole che padre Julio Meinvielle, star del nazionalismo cattolico argentino, scrisse nel 1940: “L’hitlerismo, cosa alquanto paradossale, è l’anticamera del cattolicesimo”. A ulteriore riprova dell’esistenza di un terreno fertile per accogliere centinaia di criminali di guerra, c’è la direttiva 11 del 1938, strettamente riservata e telegrafata ai diplomatici argentini di tutto il mondo per ordinar loro di “negare visti, anche turistici e di transito, a tutte le persone sospettate di abbandonare o di aver abbandonato il loro Paese di origini in quanto soggetti indesiderabili o di essere stati espulse, qualunque ne fosse il motivo.” Il gruppo di persone a cui la direttiva faceva riferimento erano – è facile indovinarlo – gli ebrei in fuga dalle nazioni finite sotto il controllo nazista.
Tutto ebbe inizio il 10 marzo del 1945. Carlos Fuldner, ex capitano delle SS di origini argentine, sbarcò a Madrid con l’incarico di istituire una rete di fuga che negli anni successivi si sarebbe allargata fino a includere come luoghi chiave anche la Svizzera, l’Austria e l’Italia – le città di Genova e Roma in particolare. Era in “missione speciale” per i servizi segreti di Himmler. Oltre a Fuldner, ebbero un ruolo determinante altri due uomini, anch’essi con un passato controverso: Pierre Daye, leader parlamentare del partito di matrice fascista Rex, e il francese Charles Lesca, anch’egli ex membro delle SS. La Spagna neutrale divenne così un rifugio sicuro per migliaia di nazisti e collaborazionisti in ritirata, man mano che la morsa degli alleati e dell’Armata Rossa si stringeva. Molti di loro cercarono di reinventarsi, costruendo ex novo il racconto di un passato ineccepibile, altri si affidarono alle cure del Vaticano, in nome dei principi della carità e del perdono cattolico – accantonati momentaneamente durante i rastrellamenti di ebrei e altre categorie non desiderate. Altri ancora misero a disposizione dei servizi segreti alleati la propria esperienza nella lotta contro il comunismo: gli equilibri bellici, dopo tutto, stavano già mutando.
Fu così che uomini del calibro di Josef Mengele, Erich Priebke, Gerhard Bohne e Adolf Eichmann riuscirono a reperire documenti di viaggio, emessi dalla Croce Rossa e controfirmati da prelati cattolici, e a salpare attraverso il porto di Genova per l’Argentina, che fin dall’inizio della guerra aveva stabilito dei contatti molto stretti con la sezione dei servizi segreti all’estero delle SS, la Ausland-SD. Sempre l’SD aveva istituito il proprio quartier generale per le operazioni nel continente americano proprio in Argentina, per “trapiantare l’ideologia nazista sul suolo sudamericano, al fine di pregiudicare lo sforzo bellico alleato”. E ci sono riusciti. L’organizzazione Odessa, descritta da Frederick Forsyth in Dossier Odessa del 1972 come un gruppo incaricato di mettere in salvo quel che rimaneva del Terzo Reich per “riportarlo in vita” non appena i tempi fossero di nuovo stati maturi, non era una realtà poi così romanzata. Esisteva una fitta rete di legami tra l’Argentina, la Germania nazista e il Vaticano, che spesso si adoperò alacremente per far ottenere visti a criminali di guerra, trasmettendo richieste esplicite al governo di Perón. Questo negoziò in segreto un accordo sull’immigrazione con Papa Pio XII; nel giugno del 1946 il cardinale Giovanni Battista Montini (futuro Papa Paolo VI) comunicò all’ambasciatore argentino la volontà dell’allora pontefice di organizzare l’emigrazione “non solo di italiani” in Argentina. Per questo Pio XII desiderava che “esperti del Vaticano entrassero in contatto con esperti argentini per organizzare un piano d’azione”. Fu proprio a tal scopo che il cardinale argentino Antonio Caggiano venne inviato a Genova e poi Roma, dove trovò il pontefice ad attenderlo.
In una lettera datata il 31 agosto 1948, il vescovo Alois Hudal, leader spirituale della comunità tedesca in Italia, chiedeva al Presidente argentino cinquemila visti per “soldati” tedeschi e austriaci. Secondo il sacerdote, non si trattava di nazisti, ma di combattenti anticomunisti il cui “sacrificio” aveva salvato l’Europa dal dominio sovietico. Fu la singola richiesta più ingente mai ricevuta dal generale argentino. Altro uomo di punta del Vaticano in questa operazione fu Krunoslav Draganović, ex colonello ustascia inviato a Roma nel 1943, che si occupò della fuga dei criminali di guerra croati e della messa in salvo dei beni di valore che questi trafugarono mentre lasciavano la Croazia.
Contrario alla tesi di Goñi è lo storico del Vaticano Pier Luigi Guiducci, che nel suo libro del 2015 Oltre la leggenda nera. Il Vaticano e la fuga dei criminali nazisti confuta in parte quanto detto dall’autore argentino. Stando a Guiducci, più che sulla Chiesa la gran parte della responsabilità dovrebbe ricadere sulle forze alleate e su Stati quali Austria e Svizzera. Il ruolo giocato da questi due Paesi, fondamentali luoghi di transito e di rifugio per molti criminali di guerra, è innegabile – e sostenuto peraltro dallo stesso Goñi nel suo libro. Le forze alleate, come è stato più volte affermato in Operazione Odessa, fecero la loro parte, cercando con ogni mezzo di assicurarsi un vantaggio strategico nel conflitto con i sovietici. Ma sarebbe sbagliato, a livello di ricostruzione storica, sminuire il contributo fornito dal Vaticano nello sviluppo della ratline. Lo storico insiste inoltre sul fatto che la Chiesa avrebbe aiutato molti profughi, talvolta anche ebrei, oltre ai vari criminali nazisti, e non ci sarebbe quindi spazio per accuse di carattere morale. “Guiducci,”spiega Goñi a The Vision, “sostiene che, siccome questi uomini di Chiesa hanno aiutato anche alcuni ebrei, non possono essere giudicati da un punto di vista morale. Cerca quindi di confutare eventi storici portando la discussione sulla moralità degli ecclesiastici coinvolti nella vicenda, ma questo è ovviamente irrilevante rispetto al fatto – dimostrato da documenti – che senza il loro aiuto i nazisti in questione non sarebbero mai riusciti a lasciare l’Italia.”
I legami tra l’espatrio di criminali di guerra e il Vaticano sono stati infatti provati da Uki Goñi specialmente grazie alla minuziosa consultazione di documenti risalenti all’immediato dopoguerra, in parte conservati nell’archivio statale di Londra, in parte desecretati in seguito dalla CIA. Tali carte dimostrerebbero come Papa Pio XII fosse perfettamente a conoscenza del rifugio offerto dagli istituti ecclesiastici fuori Roma, soprattutto dalla confraternita croata di San Girolamo, quartier generale di nazisti e ustascia, tra gli altri. Sempre i dossier britannici, scrive Goñi, dimostrano che Pio XII intervenne direttamente con Londra e Washington in favore di criminali nazisti e collaborazionisti. Si trattava di petizioni presentate per iscritto dalla segreteria di Stato del Vaticano; in almeno un caso, venne fatto un appello direttamente dal papa. “Per il Vaticano e per la CIA,” scrive Goñi, “salvare collaboratori filonazisti e criminali delle SS – e impedirne l’estradizione in Paesi governati dai comunisti – faceva parte di un piano volto a rafforzare la loro politica anticomunista.”
E fu così che “una manciata di valori comuni, una stessa religione e un nemico comune contribuirono a unire Chiesa Cattolica, servizi segreti alleati e fuggiaschi nazisti e loro ex collaboratori nell’imbastire una rete di fuga dall’Europa per alcuni dei peggiori criminali del secolo”.