Il giorno della morte di Raffaella Carrà l’Italia è tornata a essere una comunità. Nemmeno la morte del più popolare calciatore di tutti i tempi, Diego Armando Maradona, era riuscita a sollevare un sentimento così grande e così unanime, vuoi perché la sua scomparsa è avvenuta in concomitanza con il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza di genere, vuoi perché la figura del pibe de oro è indissolubilmente legata a Napoli, città tanto amata quanto odiata. Con Raffaella Carrà è stato diverso, e la sua scomparsa non solo ha unito l’Italia in un unico e sentito moto di commozione, ma ha superato i nostri confini, arrivando in Spagna e in Sud America, dove era conosciuta e amatissima.
Dopo un anno e mezzo di pandemia, Raffaella Carrà ci ha idealmente riavvicinati, come i parenti lontani che tornano a riabbracciarsi in una delle sue più celebri trasmissioni, Carramba che sorpresa!. Nelle ore successive alla sua scomparsa, in molte e in molti l’hanno ricordata come una “grande professionista”, espressione un po’ abusata che nel suo caso però casca a pennello: chiunque abbia lavorato con lei ricorda la sua attenzione per i dettagli, il bisogno di provare, riscrivere, ripensare i meccanismi dei suoi show fino a farli diventare perfetti. In un’intervista a Repubblica, l’amico e collega Renzo Arbore ha raccontato che “mi spaventa che con Raffaella si chiuda l’epoca della bella televisione, quella costruita con le idee e con la fatica”.
Infatti, se il talento e la perseveranza di Raffaella Carrà sono stati fuori discussione, è anche vero che queste sue qualità sono potute germogliare all’interno di un contesto particolare della storia dell’intrattenimento. La televisione in bianco e nero che hanno visto i nostri nonni e i nostri genitori, in cui non esistevano ancora la concorrenza non solo delle piattaforme streaming o di internet, ma nemmeno del privato, che sarebbe arrivato solo tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta.
Seppure in un clima ancora fortemente influenzato dalla Chiesa e dalla Democrazia Cristiana, c’era quindi tutto il tempo di provare, sperimentare e addirittura di osare. In quegli anni i cambiamenti erano alle porte, tra la contestazione, i movimenti femministi e una generazione più acculturata e benestante di quella precedente. É in questo clima di fermento che Raffaella Carrà è arrivata nelle case di milioni di italiane e di italiani. Ma sbaglieremmo nel dire che la sua storia personale e artistica è intrecciata in tutto e per tutto alla nostra storia nazionale, perché sotto moltissimi aspetti Raffaella Carrà era avanti anni luce rispetto al Paese e al momento storico che ha vissuto.
Prendiamo, per esempio, il paragone tra lei e Diego Armando Maradona che in molti stanno facendo in queste ore per via della vastissima popolarità di entrambi: i due si conoscevano e con il tempo si era instaurato tra loro un rapporto di amicizia, pur con le rispettive differenze, a partire dal genere. Maradona era figlio del suo tempo ed è stato un uomo che ha vissuto la sua vita sotto i riflettori concedendosi qualsiasi eccesso che il suo privilegio di uomo maschio ed eterosessuale gli ha concesso in un mondo in cui il calcio, più che un gioco o un business, diventa per molti una vera e propria ragione di vita.
Raffaella Carrà è stata una donna in un mondo maschilista, e il ricordo della suo lascito umano e artistico non può che partire da questo dato. Presentandola al pubblico americano durante il suo show, il conduttore David Letterman la descrisse come una via di mezzo tra Johnny Carson e Ed Sullivan, ma lei lo corresse con un sorriso: “io sono una ragazza!”. Mentre Maradona ha vissuto e goduto fino in fondo il suo privilegio, Raffaella Carrà ha letteralmente costruito per sé e per noi un immaginario che prima di lei semplicemente non esisteva. E lo ha fatto forse per garantire a se stessa uno spazio di libertà artistica e personale, ma con la conseguenza di aver verbalizzato, incarnato e portato nelle case di milioni di persone la liberazione sessuale e l’autodeterminazione delle donne.
Il suo ombelico scoperto non è stato solo un vezzo, ma un atto rivoluzionario, perché il suo corpo non si scopriva per assecondare il desiderio maschile, ma per liberare il corpo femminile. Con il Tuca Tuca, brano scritto insieme all’allora compagno Gianni Boncompagni e coreografato da Enzo Paolo Turchi, si mostra non con un atto di sottomissione al maschio, ma come un atto di rivendicazione personale. Tant’è che anni dopo il loro celebre Tuca Tuca, Alberto Sordi dirà che tra loro non ci fu malizia, ma un gioco quasi infantile. E questo è stato possibile perché in quel ballo non c’era seduzione, ma divertimento, gioco, scoperta, come quella di due bambini che imparano a conoscere il proprio corpo e a scoprirne le differenze in quello altrui.
Per questo bisogno di autodeterminazione giocosa, non esiste e forse non esisterà un corpo più politico di quello di Raffaella Carrà. Ed è questo il motivo che l’ha resa tanto amata dalla comunità LGBTQ+. Nonostante abbia rotto molti tabù, chi l’ha conosciuta ne parla come di una persona discreta, quasi esistessero la Pelloni (questo il suo vero cognome) nel privato e la Carrà in pubblico. Ma Raffaella Carrà non era una figura scissa, ma solo una donna che usava la sua arte per esprimere un desiderio di libertà e autodeterminazione che era parte integrante anche della sua vita privata.
In un’intervista rilasciata a Malcom Pagani, l’artista ha raccontato di essere stata cresciuta da sua madre e da sua nonna perché il padre l’aveva abbandonata in tenera età: “oggi, quando si parla delle adozioni a coppie gay ma anche etero, faccio un pensiero: ‘Ma io con chi sono nata, con chi sono cresciuta?’. Mi rispondo: con due donne, mia madre e mia nonna. Facciamoli uscire i bambini dagli orfanotrofi, non crescono così male anche se avranno due padri o due madri. Io le ho avute. Sono forse venuta male?”.
Raffaella Carrà non ha deciso di non avere figli, ma, come ha raccontato lei stessa, nel momento in cui si sentiva pronta era ormai troppo tardi. Ha cresciuto le figlie del primo matrimonio del suo compagno Gianni Boncompagni e i figli di suo fratello, scomparso prematuramente; nella stessa intervista a Pagani, Carrà si è rammaricata di non aver potuto prendere in considerazione l’adozione perché non era sposata. Anche per questo nel 2005 fu autrice e conduttrice di un programma sulle adozioni a distanza, Amore, che consentì a 130mila tra bambini e bambine di ricevere aiuto e sostegno.
La sua straordinaria empatia si rifletteva in alcuni dei suoi programmi più noti come Pronto Raffaella, una delle prime trasmissioni che consentivano alla gente comune di parlare e interagire con lo studio televisivo, e Carramba che sorpresa!, dove a essere protagoniste erano le storie di ricongiungimenti familiari. Si piangeva e si rideva tanto in quei programmi, ma Raffaella Carrà aveva la capacità di non essere mai inopportuna o maliziosa, riuscendo ad accompagnare il racconto con compassione o entusiasmo a seconda dei casi, senza mai scadere nel voyeurismo.
Per questo, dire che esistevano una Carrà e una Pelloni non è del tutto esatto: la riservatezza che ha accompagnato Raffaella Carrà fino all’ultimo è un elemento importante della sua biografia, ma al tempo stesso la sua vita artistica è stata il riflesso di una vita personale fuori dal comune che ancora oggi sarebbe impensabile per molti. Figlia di una donna divorziata durante la guerra, cresciuta da due donne e con due compagni storici come Gianni Boncompagni e Sergio Japino, il primo separato e con tre bambine al tempo della loro relazione, il secondo molto più giovane di lei, con entrambi Carrà ha mantenuto un rapporto fatto di affetto e di amicizia che è andato ben oltre la fine del rapporto d’amore, e con entrambi ha costruito un sodalizio artistico durato per anni.
In un articolo apparso in occasione dell’uscita l’anno scorso di un musical spagnolo basato sulle sue canzoni, The Guardian ha celebrato Raffaella Carrà come figura di liberazione sessuale. Il pezzo si intitola La pop star italiana che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso e racconta come grazie a un linguaggio semplice e gioioso l’artista abbia traghettato l’Italia e la Spagna verso un modo più libero di intendere la vita e la sessualità. Da Rumore a Tanti Auguri, passando per il già citato Tuca Tuca, Raffaella Carrà ha senza dubbio contribuito a rendere il nostro un Paese più moderno, ma al contrario di quello che alcuni commentatori hanno scritto, la sua televisione e la sua vita non sono state lo specchio dei tempi. Visto con gli occhi di una persona straniera, il Paese di Raffaella Carrà può sembrare gioioso, moderno, aperto, tanto che, ad esempio, in Albania si sognava l’Italia anche grazie ai suoi programmi.
Le cronache di questi giorni, con la discussione attorno al DDL Zan, ci ricordano che siamo ancora lontani dall’Italia che Raffaella Carrà ha incarnato, ma grazie a lei siamo un po’ più vicini a diventarlo. Celebrarla come una soubrette più talentuosa di altre vuole dire vedere l’Italia ancora attraverso le lenti della misoginia.
Guardando vecchi spezzoni dei programmi di Raffaella Carrà e ascoltando le sue canzoni, non possiamo non coglierne la modernità. Lei non è mai stata all’interno di un sistema ma ha sovvertito il sistema con talento, caparbietà e gentilezza. Ha fatto la rivoluzione con il sorriso e senza mai perdere la tenerezza. È stata capita e amata nonostante la sua modernità. Un vero miracolo di cui dobbiamo renderle atto quando la ricordiamo.