Aggiornamento del 17/02/2021, ore 22:07 Raffaele Cutolo, il noto fondatore e capo della Nuova camorra organizzata, è scomparso alle 20.21 all’ospedale Maggiore di Parma per gravi condizioni di salute.
Ottaviano, provincia di Napoli, 1 aprile 1982
Un passante nota un liquido rossastro uscire da una Fiat 128 parcheggiata. Avvisa i Carabinieri, loro aprono la portiera e trovano una busta con dentro la testa di Aldo Semerari. Il corpo è nel bagagliaio. Poche ore dopo i Carabinieri bussano alla porta della sua compagna, Maria Fiorella Carraro, e la trovano morta, uccisa da un colpo di pistola. Secondo gli inquirenti si tratta di suicidio.
Londra, 18 giugno 1982
Di primo mattino, un impiegato della posta si sta recando al lavoro quando, costeggiando il Tamigi, vede qualcosa penzolare. È il corpo impiccato del banchiere italiano Roberto Calvi: ha le mani legate dietro la schiena, e nelle tasche del cappotto gli trovano 15mila dollari, un passaporto falso, una lista di nomi e dei mattoni. La sua segretaria si era suicidata il giorno prima, in Italia, gettandosi dal quarto piano del Banco Ambrosiano.
Sono gli anni di piombo, della guerra fredda e dei delitti irrisolti, delle inchieste dove milioni di congetture rimbalzano in una carambola di nomi che si ripetono, si incrociano, ma non vanno mai da nessuna parte. Tra i tanti nomi che collegano queste morti, ce n’è uno molto particolare: Raffaele Cutolo.
È il 1941. Lo scrittore e giornalista vicentino Guido Piovene racconta che “Napoli è la città della scienza disinteressata. È curiosa del prossimo; è indifferente allo stesso tempo. Per tramiti misteriosi tutti sono informati dei fatti nostri, e ce li raccontano poi con una specie di obiettività storica. Non saprò mai, per esempio, come il padrone di un ristorante del centro sapesse che ero appena tornato da Capri, soffrendo un po’ il mal di mare”.
A Ottaviano, il 4 novembre, a due passi dal castello mediceo, nasce Raffaele Cutolo. Suo padre, noto in paese come Don Peppe – detto ‘o monaco per via della sua religiosità – era un mezzadro, sua madre una lavandaia. I napoletani sono un popolo “abituato al sacro”, secondo Piovene, e infatti Raffaele viene mandato a studiare dalle suore dove passa le giornate ad azzuffarsi con i coetanei. Uscito da scuola fa lavoretti saltuari: falegname, barbiere, fabbro, sarto. Prova anche a vendere vini porta a porta, ma sono mestieri che non rendono bene, così a vent’anni apre un noleggio auto abusivo.
Il 24 settembre 1963 la sua vita cambia in un attimo. Ci sono versioni discordanti su come sia andata; quella più accreditata vuole che Raffaele sia uscito dal lavoro stanco morto, abbia visto passare una compagnia con due belle ragazze e abbia fatto un commento volgare. Le ragazze sono con Michele Viscito, un bulletto di quartiere che appena lo sente lo tira per la sciarpa. Raffaele si volta e gli spara nel cuore otto colpi di pistola. La condanna in primo grado è pesantissima e le porte del carcere per lui si spalancano il 27 settembre 1963.
In prigione – luogo che non a caso molti chiamano l’”Università del crimine” – Raffaele si adatta in fretta. Non ha paura di niente e di nessuno e arriva a sfidare addirittura ‘o malommo, Antonio Spavone, uno dei più noti boss della camorra pre-cutoliana, non presentandosi all’appuntamento in cortile. Oltre all’aggressività però Raffaele ha cervello; aiuta i carcerati a scrivere lettere e a leggerle, distribuisce consigli, e quel ragazzo con gli occhiali da vista che sa parlare italiano corretto finisce per meritarsi il soprannome di ‘o professore. Conosce personaggi di spicco della camorra, ci fa amicizia grazie a quel misto di altruismo e coraggio che ispira fiducia; studia saggi storici sulla camorra del 1800, trattati sull’iconografia religiosa e tattica militare. Impara le differenze e le rivalità tra camorra, mafia e ‘ndrangheta. Quando nel 1970 viene scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, ha passato in carcere solo sette anni, ma ha capito cosa vuole fare nella vita: il boss.
Allora va da Vittorio Nappi, avvocato di Scafati, e gli chiede di presentarlo ai contrabbandieri di sigarette napoletani e marsigliesi. Forte delle conoscenze che ha fatto in carcere, impiega poco a sedurli con discorsi nazionalisti e visioni di grandezza, forse perché ha davanti uomini di scarsa cultura, nati in una città difficile, che si arrabattano per vivere. Quando gli effetti della legge Valpreda Cutolo tenta la fuga ma viene arrestato dai Carabinieri il 25 marzo 1971. È già troppo tardi: all’interno del carcere di Poggioreale, nel padiglione Milano, Raffaele Cutolo aveva già fondato, nell’Ottobre dell’anno precedente, la Nuova camorra organizzata. Il giuramento recita: “Noi siamo i cavalieri della camorra, siamo uomini d’onore, d’omertà e di sani principi, siamo signori del bene, della pace e dell’umiltà, ma anche padroni della vita e della morte. La legge della camorra a volte è spietata, ma con chi tradisce”.
La struttura della Nco è divisa in “cielo coperto”, cioè i carcerati, e in “cielo scoperto”, cioè gli affiliati fuori da Poggioreale. Per comunicare con l’esterno usa i parenti dei carcerati, o fa corrompere gli impiegati del comune affinché falsifichino i documenti d’identità, così da procurarsi una sfilza di parenti infinita. La parte amministrativa è affidata a sua sorella, Rosetta, che oltre a tenere i conti si occupa anche degli stipendi. Perché se da una parte la Nco allunga le mani su contrabbando, furti, ricettazione, prostituzione e spaccio di droga, dall’altra è un ente affidabile ed efficace: garantisce alla propria manovalanza uno stipendio di 500mila lire al mese, assistenza legale, un fondo di solidarietà per detenuti e vittime del “lavoro”. Alfonso Rosanova, un imprenditore di Sant’Antonio Abate, è definito dalle cronache locali “cassiere”, “guida spirituale” e “mente” della Nuova camorra organizzata. Vincenzo Casillo, detto ‘o nirone, è il suo vicecapo fuori dal carcere, e insieme a Rosetta gestisce uomini e incassi. Quando c’è qualcosa che richiede la presenza del boss in persona, non è un problema.
Nel maggio del 1977 una sentenza della corte d’Appello gli riconosce l’infermità mentale. Lo mettono prima a Sant’Efrem, poi nel carcere di Aversa: è più comodo. Cutolo lì riceve visite quotidiane di galoppini e amministra il suo impero, che si espande a una velocità impressionante. Rosetta tiene riunioni con i generali ogni due settimane, mentre la Nco arruola un migliaio di persone in più ogni anno. Napoli a Cutolo non basta più, e allarga i tentacoli prima su tutta la Campania, poi su tutta Italia. Chiede alla ‘ndrangheta di allearsi e loro acconsentono, a patto di un favore: a Poggioreale c’è Mico Tripodo, un ex boss calabrese ormai troppo ingombrante. Chi sia l’esecutore materiale non si sa, ma viene trovato assassinato a coltellate il giorno dopo. L’alleanza con la ‘ndrangheta lo porta in vetta al contrabbando di droga e sigarette. Oltre a questo, essendo in carcere, Cutolo non può scialacquare i soldi che guadagna: così li rovescia su chiunque gli chieda un aiuto per sé e per la propria famiglia, creando una schiera di disperati che per lui sono disposti a tutto: “Spero di non cadere malato,” dice un abitante di Ottaviano durante un’intervista, “perché se mi ammalassi io il sangue me lo farei dare da lui, perché è un sangue nobile e degno di essere amato”.
Per arrivare nel resto d’Italia, però, Cutolo ha bisogno di ufficiali sul campo, e non può delegare il compito della trattativa. Il 5 febbraio 1978 i suoi uomini fanno saltare il portone del manicomio con la dinamite e Cutolo scappa fuori, dove lo aspetta un’automobile che se lo porta via. Va a Roma, dove conosce la banda della Magliana e ci si mette in affari. Risale fino a Milano, dove si mette in affari anche con Renato Vallanzasca; gli accordi stanno per chiudersi, quando Francis Turatello si oppone: Milano è la loro torta, non vogliono spartirsela. Cutolo non la prende bene, ma al momento ha altri problemi e lascia perdere: il nome della Nco è arrivato alle orecchie della mafia siciliana, e quella non scherza. Torna a Marano, a casa dei fratelli Nuvoletta; gli sono amici, e sono dei Corleonesi. Tramite loro organizza un incontro con Totò Riina, che va a trovarli appositamente da Palermo. Cenano insieme, si conoscono e non si piacciono granché. Alla fine, quando in privato i Nuvoletta chiedono a Totò un’opinione, lui delega a loro il giudizio. Dopo una lunga riflessione, i fratelli propongono a Cutolo di affiliarsi, ma la richiesta d’affiliazione mafiosa è complicata: per chiedere a qualcuno di farne parte prima bisogna spiegare tutto il suo funzionamento e la sua gerarchia; quindi, se qualcuno non accetta, va ucciso perché sa troppo. Per questo bisogna essere sicuri, prima di pronunciarla. Quando Cutolo rifiuta andrebbe assassinato, o almeno così pretenderebbe Riina. I due fratelli però non lo fanno perché Cutolo è un pezzo da 90, oltre a una miniera di soldi. Assicurano che lo persuaderanno in un secondo tempo. Cutolo, però, non si fa scrupoli a raccontare una versione assai diversa, quanto improbabile: una riunione in cui lui pisciava sulle scarpe a Totò Riina. Procrastinato il problema con i siciliani, decide di risolvere quello con i milanesi.
Nell’estate del 1981, nel carcere di massima sicurezza in Barbagia, Francis Turatello fa una bella vita. Gli portano in cella Dom Perignon e astice, può comunicare e comandare liberamente i suoi sottoposti a Milano. La mattina del 17 agosto, in cortile gli va incontro Salvatore Maltese, sorride, fa una battuta, gli si mette sul fianco destro per passeggiare mentre alle loro spalle si avvicinano Pasquale Barra, Antonino Faro e Vincenzo Andraous, sicari della Nco. Arrivati a mezzo metro, Andraous lancia il segnale: bloccano Turatello mentre Maltese lo sventra con un coltello. Turatello grida “Dio mio, no” mentre vede le viscere uscirgli e lui che tenta di trattenerle con le mani. Lo finiscono tagliandogli la giugulare, e poi Pasquale Barra, davanti agli occhi di tutti i carcerati e i secondini attoniti, gli apre la cassa toracica, strappa il cuore e lo morde. Quando si sparge la voce di cosa sono capaci di fare gli uomini della camorra, nessuno ha più nulla da ridire sulle sue mire espansionistiche.
La mafia però non dimentica: a Napoli c’è Michele Zaza, un contrabbandiere che fa l’infiltrato per la mafia siciliana. Insieme ai clan di Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, fondano la Nuova Famiglia con lo scopo di spodestare Cutolo e riprendersi il porto di Napoli, con tutto il contrabbando che ne segue. Quando nel 1980 c’è il terremoto, la Nco conta 7mila affiliati infiltrati negli appalti e nei cantieri di ricostruzione, chiedendo tangenti a quei cantieri che nascono come funghi in tutta la Campania. Allungano le mani sui fondi Cee, sui bagarini, sull’usura, fino allo scandalo Totonero. La Nuova Famiglia cerca di rubargli il malloppo, finendo in conflitti a fuoco che trasformano le strade di Napoli in una zona di guerra: in un anno i morti ammazzati sono 134 e l’anno dopo sono quasi raddoppiati. Ma c’è di più, nella NCO, qualcosa che non è mai stato chiarito e che si incrocia con altre storie.
La prima succede alle 21.45 del 27 aprile 1981, un commando di cinque brigatisti guidato da Giovanni Senzani entra nel garage dell’onorevole Ciro Cirillo (Dc); in cinque uccidono l’agente di scorta e l’autista, gambizzano il segretario Ciro Fiorillo e lo portano via. È un sequestro strano, fatto da uomini strani: Senzani è laureato a Berkeley, insegna nelle università di Siena e Firenze e fa da consulente criminologo alla fine degli anni ’70, quando i comunicati delle Br sono pieni zeppi di informazioni riservate, tanto da far parlare di una talpa ai vertici dei Servizi segreti. Quando era stato coinvolto nel rapimento di Aldo Moro, il Sismi aveva testimoniato per scagionarlo dicendo che in quel periodo Senzani si trovava negli Usa. Anni dopo, il Ros scoprirà che Senzani insegnava anche nella succursale di quello strano centro studi a Parigi fondato dai brigatisti che aveva aperto una succursale in via Caetani sei mesi prima del rapimento Moro, e l’aveva chiusa la settimana dopo il suo ritrovamento.
Cosa sia davvero, Senzani, non si saprà mai. Di sicuro, come terrorista sa il fatto suo: per la liberazione di Cirillo chiede cinque miliardi, la requisizione degli alloggi sfitti di Napoli, un’indennità per i terremotati e la pubblicazione dei comunicati che stavano costringendo Cirillo a scrivere. Per Cutolo, questo sequestro è un problema: Polizia e Carabinieri indagano dovunque con molta più ostinazione, e rischiano di mandare a monte parecchi affari; per togliere l’attenzione dei media e degli inquirenti dalle strade di Napoli, si offre di mediare tra Dc e brigatisti. Quasi subito, all’Unità arriva un documento che dimostrerebbe la trattativa. Ma il documento è falso, ed è stato fornito al giornale da Aldo Semerari, un criminologo amico della banda della Magliana legato alla strage di Bologna. Peccato non possa parlare; lo trovano decapitato nella sua auto.
Sulla serie di coincidenze e presunti legami con apparati deviati inizia a indagare il vice questore Antonio Ammaturo, e si rende conto in fretta che sotto c’è qualcosa di più grosso. Il 15 luglio 1982 è talmente spaventato da quello che vede da cercare di tutelarsi spedendo copia delle sue indagini a suo fratello, Grazio, e al ministero. Lo stesso giorno, le Brigate rosse lo uccidono sotto casa insieme all’agente di scorta. Suo fratello non riceve mai i fogli; le copie arrivate al ministero, scompaiono. Gli esecutori vengono arrestati quasi subito, mentre i mandanti restano ancora oggi ignoti: di sicuro, armi e munizioni sono stati pagati con il riscatto. Ma nessuno può parlare, perché tutti muoiono. A Roma, il 29 gennaio 1983, Vincenzo Casillo entra in macchina e appena lo accende il motore esplode. L’auto era imbottita di tritolo. La sua fidanzata, Giovanna Matarazzo, dirà che la morte è legata all’omicidio del banchiere Calvi. Pochi giorni dopo scompare anche lei, e viene trovata il 2 febbraio 1984 in un blocco di cemento. Cutolo, interrogato dai magistrati, dice di esserne estraneo perché Casillo era il suo più caro amico.
Nel 1983, la lotta intestina della camorra lascia a terra 238 cadaveri, quasi tutti sotto i trent’anni. Carabinieri e polizia organizzano il maxi blitz che porta in carcere centinaia di camorristi, e comincia a interrogarli. Nella Nuova Famiglia, invece, entrano altri clan come i Galasso, gli Alfieri e i Casalesi; copiano tutto dal loro rivale, inclusa iconografia e giuramento. Cutolo contrattacca; inventa la figura del falso pentito, cioè ergastolani che con la scusa di confessare deviano e confondono le indagini dei magistrati anche a costo di colpire persone innocenti come Enzo Tortora, un presentatore televisivo amatissimo finito nell’infamia, incarcerato e abbandonato da tutti, salvo poi scoprire che non c’entrava nulla. Per qualche anno funziona, ma il declino è inevitabile. Cutolo viene arrestato ad Albanella, a Salerno, e nel 1989 assassinano suo figlio e il suo avvocato, Enrico Madonna. Scotti, il suo braccio destro, scappa dall’Italia e scompare nel nulla; verrà arrestato in Brasile 31 anni dopo. Cutolo viene messo in isolamento, senza poter ricevere visite da nessuno, ed è ancora lì, quello stesso Don Raffaè su cui De Andrè scrisse uno dei suoi pezzi più belli, e che ricevette una lettera di apprezzamento dal boss in persona, che gli domandava come facesse a conoscere così bene i dettagli della sua vita in carcere.