Rileggere “Quaderno proibito” ci interroga su come ancora educhiamo le donne alla rinuncia di sé - THE VISION

Oggi la gran parte delle donne ha raggiunto consapevolezza sul tema della parità di genere, e molte stanno affrancandosi dalle catene del patriarcato. Ma sembra permanere un sostrato culturale, probabilmente inconscio, causato da secoli di subalternità imposta, che induce alcune donne a continuare a riconoscere nel sacrificio dei propri bisogni, a vantaggio delle esigenze altrui, un vessillo identitario. Alcune donne si sentono tuttora “costrette”, non sempre coscientemente, a trovare se stesse nello spirito di sacrificio. Le attuali narrazioni sul patriarcato e la disparità di genere indugiano spesso sulla violenza fisica, o comunque manifesta, dell’uomo sulla donna, che assume quelle forme brutali che purtroppo sono sempre presenti, e in misura sempre maggiore, nella nostra società. Ed è necessario parlarne, sempre. Ma c’è un’altra violenza, sotterranea e forse proprio per questo più subdola, che è quella perpetrata sulle donne attraverso una sotterranea educazione alla rinuncia e al senso di colpa.

Non è facile parlare oggi di subalternità femminile, di lotte per l’affrancamento da stilemi sessisti, senza scadere nel già visto, nel già sentito. C’è però un libro, pubblicato nel 1952, che tutte e tutti dovrebbero leggere, perché indaga la tendenza al sacrificio della donna concentrandosi sugli aspetti più impalpabili, su cliché obsoleti ma ancora non del tutto superati. Il libro è Quaderno proibito, di Alba de Céspedes, che svela un lato diverso della disparità di genere su cui tutti dovremmo concentrarci. 

Protagonista di Quaderno proibito è Valeria, moglie e madre di una famiglia della piccola borghesia romana, alla metà del Novecento. Quando inizia a scrivere un diario, e a riconoscere sé stessa nelle sue parole, Valeria incontra per la prima volta la propria insoddisfazione e inquietudine. Eppure è apparentemente una donna libera: ha un lavoro, i suoi figli si avviano verso l’indipendenza, persino il marito non limita in alcun modo – o, per lo meno, non in modo manifesto – la sua libertà. Ed è questo l’elemento interessante del romanzo: nonostante non sia vittima di alcun comportamento vessatorio da parte del marito e di nessun altro, benché abbia un suo stipendio e una sua potenziale indipendenza, Valeria sa riconoscersi solo nella rinuncia a sé stessa.

Quegli stilemi socio-culturali, che vogliono le donne accudenti e pronte ad accantonare o ignorare i propri bisogni per occuparsi degli altri, Valeria li ha talmente introiettati da autoinfliggersi una vita che lei stessa definisce “bianca, liscia, fredda”. “Il mio compito – dice – è quello di lasciarmi devastare”. Dal dolore degli altri, dai loro errori, dal senso di colpa perché, a un certo punto della sua vita, decide di ritagliarsi un tempo per sé. Perché anche quando è a un passo dall’essere, per una volta, egoista, Valeria finisce sempre per fare marcia indietro. La sua identità è costruita sulla rinuncia e sul senso di colpa, e crede che per essere accettata dovrà continuare come ha sempre fatto. A costo di essere infelice e, come dirà lei stessa, “di diventare cattiva”.

Valeria è terrorizzata all’idea che qualcuno dei suoi familiari si accorga che sta scrivendo un diario, da qui l’aggettivo “proibito” del titolo. Lo nasconde sempre in posti diversi della casa, teme ossessivamente che uno dei suoi figli o il marito la scopra. Per Valeria, che è madre – nonostante i suoi figli siano già grandi e per buona parte autonomi –, la sua identità è sorretta dalla sua disponibilità verso gli altri, dalla sua capacità di non desiderare altro che non sia essere sempre a disposizione, aiutare, essere utile a qualcuno. “Io non avrei mai potuto proclamare in tal modo il mio diritto alla libertà”, scrive Valeria, “senza invocare a mia giustificazione un sentimento, e accusarlo di avermi travolta”. Valeria rappresenta alcune paure femminili, che scaturiscono più o meno coscientemente da dettami restrittivi che a lungo hanno costretto le donne – e spesso continuano a costringerle – a scegliere, sempre, tra due alternative, a dover rinunciare a qualcosa: o a se stesse, per accudire qualcun altro e, proprio nell’accudimento, trovare un’identità socialmente riconosciuta, oppure, come accade sempre più spesso, alla maternità scegliendo di non avere figli.

Dettami del genere ci portano a pensare le donne più a loro agio con le professioni di cura rispetto agli uomini; gli stessi secondo cui una donna è incompleta, mancante in qualcosa, se sceglie di non diventare mamma. Eppure, è vero, in molti ancora reputano comunque – e altrettanto ingiustamente – “anomalo” un uomo che, dopo i quaranta, non ha ancora avuto figli o non ha una relazione stabile; ma c’è una differenza sostanziale: se un uomo con figli sceglie di conservare un lavoro che lo porta in giro per il mondo e lontano dalla famiglia, l’idea di certo non ci sconvolge; se la stessa scelta la fa una donna, a parte alcune menti particolarmente illuminate, generalmente si finisce per giudicarla una madre assente o, per lo meno, genera perplessità e preoccupazione.

In tutto il mondo – e non solo in Italia – le donne rappresentano il 67% della forza lavoro impegnata nel settore della cura e dell’assistenza. Secondo l’ultimo rapporto Istat, poi, le donne tra 20 e 74 anni dedicano in media più di cinque ore al giorno ai lavori domestici non retribuiti, mentre gli uomini non più di due ore. Disparità che rivela quanto detto: ancora oggi, alcuni di noi vogliono le donne madri, mogli, casalinghe e, se proprio scelgono di avere una professione retribuita, che almeno la svolgano prendendosi cura di qualcun altro. Narrazione nociva che produce quel senso di colpa ancestrale, quell’atavica – e difficile da sradicare – tendenza a ignorare i propri bisogni che racconta Valeria, la protagonista del libro di de Céspedes.

La protagonista del romanzo cresce infatti con una madre che le ripete che “agli uomini non piacciono le donne indipendenti”, e che quelle troppo intelligenti sono destinate all’infelicità. Lei stessa, Valeria, è cosciente che, di fronte alle problematiche familiari, il marito può estraniarsi leggendo il giornale o dedicandosi a qualcosa che si trovi al di fuori del microcosmo domestico, mentre lei deve farsene carico perché, scrive, “se gli altri si accorgessero che sto pensando a un problema morale, religioso o politico, si metterebbero a ridere”.

L’esperienza della protagonista del romanzo di de Céspedes prende coscienza autonomamente, all’inizio del libro, della rinuncia a sé stessa che ha messo in atto per anni. Ma anche prendendone coscienza, non riesce a liberarsi da alcune catene autoimposte, e questo è uno degli aspetti più interessanti su cui riflettere alla luce della contemporaneità. Per la mia esperienza, in Italia si è ancora troppo legati a certi stilemi asimmetrici. Ho dovuto misurarmi fin da subito con una rigida contrapposizione tra ruoli femminili e maschili, poiché cresciuta in una famiglia in cui l’unico a lavorare fuori casa era mio padre, mentre mia madre si è sempre dedicata a crescere – con dedizione assoluta – me e mio fratello. Per me, che ho avuto un determinato modello, prendere coscienza, da adulta, che le mie ambizioni erano principalmente legate a me stessa e ai miei interessi e che non provavo – e che ancora oggi, a 32 anni, non ho mai provato – il desiderio di costruire una famiglia, mi ha mandato in crisi più volte.

Accettare di non sentire il bisogno di mettere da parte alcuni miei desideri per diventare madre, non è stato facile. Oggi che, dopo un percorso di psicoanalisi legato in particolare all’accettazione dei miei bisogni, ho maturato una certa consapevolezza circa le mie priorità, vacillo comunque ogni volta che dico che non voglio diventare madre o che non mi immagino in una vita a due e che, al contrario, per me è prioritario conservare il mio tempo per coltivare i miei interessi e dedicarmi a ciò che mi piace in modo per lo più autonomo. E quando le stesse amiche o colleghe raccontano di rinunce varie fatte per accudire i figli, mi capita di avvertire un senso di inadeguatezza, come fossi una donna “diversa dalla norma”. Un pensiero stupido, che riesco a cacciare via fortunatamente ogni volta che mi aggrappo alla razionalità, e alle consapevolezze che ho maturato nel tempo. Ma ciò che conta, alla luce della riflessione sulla mistica del sacrificio che talvolta permea le donne è: mettere al centro i miei desideri e le mie ambizioni non è mai stato e non è mai, per me, un automatismo, ma una lenta conquista che, ancora oggi, talvolta rischia di vacillare.

La sensazione che si ha oggi è che, sì, le donne possono di tanto in tanto e faticosamente riuscire ad accedere a ruoli apicali o di potere, cosa impensabile anni fa, che scelgano sempre più spesso di non avere figli e dedicarsi alla carriera e questo, oltre a essere un dato molto rilevante, fa notizia; ma c’è un esteso sottobosco di altre realtà – che al contrario non fanno notizia – strutturate ancora su modelli vetusti in cui non ci sono mariti che costringono le mogli alla subalternità, ma in cui le donne, pur avendo un lavoro e un’indipendenza economica, si auto-impongono piccole o grandi rinunce che i loro mariti o compagni non fanno allo stesso modo. E in questo non c’è ancora traccia di parità di genere, nonostante la realtà sia ben diversa dal secolo scorso. Diversamente da altre narrazioni sulla disparità di genere, dove è la violenza del maschio tossico, del marito prevaricante e abusante, a essere messa sotto la luce dei riflettori, Quaderno proibito indaga la tendenza di alcune donne a rimanere imprigionate dalle catene della rinuncia a sé, pur avendo una percezione lucida della propria condizione. Interrogarsi su ciò che racconta questo libro, alla luce delle rivoluzioni contemporanee, è importante perché ci mette in contatto con la tendenza – che permane in alcune donne in modo magari residuale ma dannoso – a sentirci in colpa quando rivendichiamo uno spazio sempre più grande di libertà, e non per forza perché qualcuno palesemente ce lo sottrae dall’esterno, ma perché alcuni stilemi sopravvivono in noi a livello inconscio.

Seppure oggi le cose siano radicalmente diverse rispetto a settant’anni fa, c’è ancora chi nel nostro Paese riconosce la “brava donna” solo nell’atto di mettere gli altri davanti a sé; chi – donne e uomini – magari non lo dice con la stessa franchezza con cui l’avrebbe detto un secolo fa, ma che in cuor suo lo pensa e agisce in quella direzione. Libri come Quaderno proibito possono ancora metterci in contatto con una prospettiva originale sul tema, utile a farci riflettere, a raschiare via preconcetti residui e giungere a una presa di coscienza totale e uniformemente diffusa, non presente solo a livello superficiale come accade, purtroppo ancora oggi, per alcune donne e altrettanti uomini.

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