Nella scuola italiana, la Storia si ferma al 1945 e la gente confonde Mandela con Morgan Freeman - THE VISION
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Gli studenti italiani sono intrappolati in un loop spazio-temporale. Studiare Storia è probabilmente una delle esperienze più affascinanti e formative per un individuo, soprattutto da giovani, quando ogni cosa è una scoperta. In Italia, però, sembra ci sia una cesoia invisibile che taglia alcune parti della linea temporale senza mai creare un ponte con il presente. Sul più bello, quando ci si avvicina a sondare i collegamenti con i giorni nostri, il percorso si interrompe per ricominciare da capo. Da quelle che un tempo chiamavamo scuole elementari ci sono rimaste impresse alcune immagini, a volte una memoria visiva del sussidiario. Penso alla Mesopotamia, allo scioglilingua Tigri-ed-Eufrate, ai Sumeri, agli Assiri, ai Babilonesi, alla “Mezzaluna fertile”. Si progredisce un passo alla volta, ma in prima media si torna di nuovo lì. Tigri-ed-Eufrate, ma con più approfondimento. Prima superiore, che sia liceo o qualche istituto professionale, eterno ritorno e ancora Tigri-ed-Eufrate. Nulla da eccepire, è qualcosa che va necessariamente studiato – magari però una volta sola, non tre. Il problema è che impariamo a menadito la planimetria di Ninive ma ci sfugge l’era contemporanea, come se dopo la seconda guerra mondiale la Storia fosse finita. È dunque probabile – nel migliore dei casi – che uno studente si diplomi potendo tenere una lectio magistralis sull’invenzione della ruota, ma non sapendo chi sia Giulio Andreotti e pensando che Nelson Mandela e Morgan Freeman siano la stessa persona.

Non c’è una legge che impedisca a un insegnante di superare il bastione del 1945. Ci sono però svariati motivi che non fanno addentrare gli studenti nelle vicende della seconda metà del Novecento, e probabilmente il principale è il tempo. Qualche anno fa venne fuori un sondaggio, realizzato a due settimane dagli esami di maturità, in cui veniva mostrato a che punto fossero gli studenti italiani con il programma di Storia. Il 25% non era arrivato nemmeno alla seconda guerra mondiale. Sempre in quel periodo, ottenne un notevole risalto mediatico un articolo del professore di Storia Gianni Mereghetti in cui chiedeva pubblicamente scusa ai suoi studenti dell’ultimo anno delle superiori per aver coperto soltanto la prima metà del Novecento. Si assunse tutta la responsabilità, spiegando di intendere l’insegnamento della Storia come un modo per approfondire accuratamente le tematiche evitando il nozionismo, in modo tale da valutarle insieme agli studenti per formare una coscienza critica. E per fare ciò, usando anche il cinema e i documentari come mezzi aggiuntivi di informazione, il tempo non bastava. 

L’articolo di Mereghetti diede vita a un dibattito tra professori, che si interrogavano sull’importanza della scelta dei temi da trattare, iniziando a fare una scrematura fin dall’inizio del percorso della formazione dell’obbligo. Il professor Roberto Persico si chiese se fosse “proprio necessario che gli studenti sap[essero] tutto il dettaglio degli scontri tra gli Stati italiani fra Duecento e Quattrocento”, eliminando porzioni importanti della Storia successiva. E aggiunse: “Che cosa è meglio sacrificare, la Guerra dei Trent’anni o quelle del Golfo?”. Persico scrisse orgogliosamente di aver concluso il suo programma con la caduta delle Torri Gemelle. Noi trentenni, o giù di lì, ricordiamo quel momento perché le immagini drammatiche interruppero la Melevisione, ma uno studente che oggi frequenta l’ultimo anno delle superiori nel 2001 non era nemmeno nato. Sta dunque nella scelta del singolo professore il percorso storico che un alunno seguirà, a costo di tagliuzzare argomenti considerati meno appetibili, e questa non è una ribellione dell’insegnante contro il Ministero, anche perché va sfatato un mito che resiste da anni: i programmi scolastici tecnicamente non esistono più.

Guerra del Golfo, 1990
Attentato alle Torri Gemelle, 11 settembre 2001

Quelli che un tempo venivano chiamati programmi ministeriali, infatti, sono stati ormai sostituiti dalle Indicazioni nazionali (per i licei) e dalle Linee guida (per gli istituti), e nemmeno da poco. Si iniziò con il Regolamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche con il DPR n275 del 1999, rafforzato dal decreto legislativo 59 del 2004 e dal Dpr 89 del 2010. In pratica vennero stoppati i “diktat” ministeriali sui programmi sostituendoli con indicazioni – spesso generiche – che concedono maggiore libertà agli insegnanti. Fino a un certo punto, perché comunque per la formazione di uno studente non si possono tranciare interi periodi storici, e quindi un ordine cronologico abbastanza rigoroso va comunque rispettato. Non a caso molti professori vivono ancora con il fantasma del programma, come dichiarato anche dall’ex ministro Patrizio Bianchi: “Bisogna uscire dal mito ossessivo del programma”.

È però incappato in questo errore il suo successore, l’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, che ha recentemente affermato: “Purtroppo spesso nell’attività didattica non si riesce a concludere il programma di Storia e non si riescono a toccare gli eventi della Storia contemporanea”. Giusta la seconda parte; meno la prima, non essendoci più un programma definito. La didattica e il percorso da seguire dipendono dal singolo insegnante.

Fidel Castro e Salvador Allende, 1972
Ronald Reagan e Margaret Tatcher, 1982

Durante il mio ultimo anno del liceo scientifico, ormai più di sedici anni fa, riuscimmo a finire a pelo la seconda guerra mondiale e toccammo superficialmente alcune tematiche della guerra fredda. Crollo del muro di Berlino, fine della Storia. Nulla su Israele e Palestina, sulla rivoluzione cubana, sugli anni di Piombo, su Reagan e Thatcher, Berlinguer e Moro. Figuriamoci Tangentopoli, le stragi di Cosa Nostra, la Seconda Repubblica o le guerre in Afghanistan e in Iraq. A circa tre lustri di distanza, la situazione non è cambiata. È possibile trovare il professore illuminato che riesce a fare la sintesi del “secolo breve” in maniera più capillare, ma anche restare impantanati tra le due guerre mondiali.

Il muro di Berlino, 1989
Scontri tra palestinesi e la Polizia israeliana, 1993

Si crea così una visione a imbuto, con la fine della seconda guerra mondiale percepita come l’epilogo del secolo. In tal modo gli studenti non riescono a collegare quei pezzi fondamentali che compongono il mosaico attuale e quindi non comprendono la complessità del presente perché mancano loro dei tasselli importanti. Non possono afferrare fino in fondo la portata dei bombardamenti su Gaza se non hanno studiato la nascita dello Stato di Israele; non concepiscono gli scossoni causati nell’Est Europa – e non solo – in seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica; non sanno che anche noi abbiamo avuto la nostra fase del terrorismo – nero e rosso – e lo associano esclusivamente al fondamentalismo islamico. Non è però soltanto il tempo l’ostacolo principale per un insegnante, anche volendo ridurre all’osso alcune tematiche per aggiungerne altre, resta un problema legato alla sensibilità e all’oggettività con cui si affrontano certi temi, con il rischio che qualche genitore possa far la voce grossa per questioni politiche. 

Rapimento di Aldo Moro, 16 maggio 1978
strage di Bologna, 2 agosto 1980
Enrico Berlinguer inaugura una sezione del Pci, 1984
Bettino Craxi, Silvio Berlusconi e Salvatore Ligresti, 1990
Strage di Capaci, 1992

È scomodo infatti raccontare la storia di Che Guevara, di Malcolm X o di Berlusconi senza prendere una posizione. Perché è facile condannare le azioni criminali di Hitler, Mussolini o Pol Pot: c’è un’universalità storica nel giudizio del loro operato, nonostante con gli strascichi del fascismo ci sia ancora qualche assurda renitenza. Su altri personaggi o avvenimenti, invece, è sempre dietro l’angolo la mannaia della censura, altrimenti si rischia la nomea del “professore politicizzato”. La destra, per esempio, tira fuori a più riprese la tiritera dell’egemonia culturale della sinistra anche nelle scuole, con gli sporchi “compagni” che indottrinano i ragazzi oscurando le foibe oppure omettendo la prodigiosa bonifica delle paludi. Sono bagattelle tra fazioni che non portano a nulla, anche perché uno studente non può limitarsi a imparare alcune date a memoria, ma deve formare il suo spirito critico, anche a costo di contestare un professore e le sue idee. Nel caso della Storia, parliamo di una materia che può riallacciarsi benissimo alla neutralità delle fonti, ai documenti che certificano un fatto senza alcun revisionismo. Politicizzarlo è una conseguenza a latere inevitabile, poiché tutto, in teoria, rientra nella sfera politica. Spiegare ai giovani che il fascismo è stato un male assoluto non è un vezzo da professore con manie di protagonismo che vuole schierarsi: è un’oggettività storica.

Bisognerebbe avere dunque il coraggio di affrontare la contemporaneità senza il timore di plagiare gli studenti. Anche perché i diciottenni dell’ultimo anno non sono i bambinoni tonti che vengono descritti da qualche sepolcro imbiancato allergico alle nuove generazioni: hanno già dei loro ideali, scendono in piazza per salvaguardare il pianeta, manifestano contro leggi considerate sbagliate. Solo che la scuola italiana non riesce ancora a offrire loro tutti gli strumenti per poter chiudere il cerchio della Storia e riallacciarsi all’attualità. Perché è fondamentale uscire dalla scuola conoscendo Pio V e il Granducato di Toscana, ma se poi si pensa che Palmiro Togliatti fosse un terzino della Sampdoria c’è qualche problema.

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