Palermo, 2 maggio 1982. La fotografa Letizia Battaglia sta seguendo un corteo funebre lungo le strade della città. Una folla sterminata si dirige verso Piazza Politeama. Movimento pacifista e movimento antimafia si fondono in un unico corpo in dolorosa marcia. A un tratto l’obiettivo scorge la sagoma di un’anziana donna che piange e prega. Quel corpo, mani conserte e ginocchia piegate, davanti al mirino assume la forma di una scultura che racchiude, anima e corpo, i sentimenti del dolore e dello sgomento della Palermo popolare. Quel giorno, in città, ci sono il presidente della Repubblica Sandro Pertini, la presidente della Camera Nilde Iotti, il segretario del Pci Enrico Berlinguer, il futuro Capo dello Stato Sergio Mattarella. Sono ancora una volta momenti di dolore per il capoluogo siciliano che, in quelle ore, celebra i funerali del segretario del Pci siciliano e di un suo stretto collaboratore, ennesime vittime innocenti di una guerra che Cosa Nostra sta portando avanti contro la democrazia italiana.
Pio La Torre e Rosario Di Salvo sono stati uccisi il 30 aprile, alla vigilia del primo maggio, festa dei lavoratori e trentacinquesimo anniversario dell’eccidio di Portella della Ginestra, la prima strage dell’Italia repubblicana. “1° Maggio insanguinato da un barbaro delitto politico-mafioso” scrive L’Unità. A sparare un gruppo di fuoco a bordo di una moto e di un’auto, composto da Giuseppe Lucchese, Antonino Madonia, Giuseppe Greco, Salvatore Cucuzza e altri non identificati. Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci, invece, i mandanti riconosciuti come colpevoli. Neanche un mese prima, il 4 di aprile, a Comiso, a un pugno di chilometri da Ragusa dove l’aeroporto è oggi dedicato a La Torre, si è tenuta una marcia oceanica contro l’installazione dei missili Cruise nella locale base Nato. Un popolo festante e colorato ha invaso nuovamente il territorio in nome della pace e del rifiuto della guerra. Ad aver voluto quella manifestazione è stato La Torre, dirigente politico-sindacale, onorevole del Pci, uno degli uomini-simbolo del Novecento italiano. “Sulla Sicilia gravano, oggi, tre minacce: gli effetti della crisi economica, il dilagare della violenza criminale e mafiosa e il suo intrecciarsi col sistema di potere egemonizzato dalla Dc e, infine, la trasformazione dell’isola in avamposto dello scontro fra i blocchi militari contrapposti”, aveva scritto lo stesso La Torre su Rinascita il 4 dicembre del 1981 in un articolo intitolato “Pace e autonomia, base del rilancio unitario”.
Sulle pagine di quella rivista, La Torre si interrogava su quale “destino” si intendesse “riservare al popolo siciliano in un Mediterraneo già attraversato da tensioni e da focolai di guerra estremamente pericolosi”. Nel giugno del 1980, nel cielo tra l’isola di Ponza e quello di Ustica un DC-9 dell’Itavia proveniente da Bologna e diretto a Palermo era esploso causando la morte di 77 persone e dando vita a un nuovo mistero italiano. Su cosa sia realmente accaduto quella sera non è stata ancora fatta del tutto luce nonostante decenni di indagini. Eravamo nella fase terminale della Guerra Fredda, nel convulso contesto geo-politico ed euro-mediterraneo, in un Paese membro della Nato e con il Partito Comunista più grande del blocco occidentale. “La scelta di Comiso, estremo lembo Sud dell’Italia,” continuava La Torre, “ci dice che gli ordigni che vi si vogliono installare sono rivolti verso Sud. È qui, infatti, che può scoppiare quella guerra atomica limitata di cui parlano gli attuali governanti americani. La Sicilia rischia, quindi, di diventare bersaglio di ritorsioni in uno scontro che va ben oltre i confini e la concezione difensiva del Patto atlantico ed è contrario agli interessi nazionali. Ecco perché in Sicilia, più che altrove, balza al primo posto l’esigenza di dare vita a un grande movimento per il disarmo e per fare del Mediterraneo un mare di pace”.
In quei mesi, le manifestazioni contro la guerra si susseguono su scala continentale: Bonn, Londra, Helsinki, Oslo, Bruxelles, Parigi, Venezia, Vicenza, Madrid, Atene, Amsterdam, Messina, Berna, Copenaghen. L’idea di La Torre era quella di inserirsi “nel grande movimento che si sta sviluppando in tutta l’Europa con l’obiettivo di arrivare attraverso il negoziato a ridurre le basi missilistiche a Est e a Ovest. In questo contesto chiediamo al governo italiano di non dare inizio alla costruzione della base a Comiso. Il successo eccezionale della marcia per la pace svoltasi a Comiso l’11 ottobre ha dimostrato che questa impostazione conquista le coscienze dei siciliani, uomini e donne, giovani e anziani, borghesi e proletari, al di sopra di ogni fede politica e religiosa”.
Pio La Torre era rientrato in Sicilia nell’autunno del 1981, nel pieno dell’ondata mafioso-terrorista e del golpe tutto interno a Cosa Nostra disegnato e attuato dalla fazione corleonese capeggiata da Riina, Provenzano e Bagarella. A Palermo, il quotidiano L’Ora contava i morti in prima pagina. Cadaveri eccellenti e cadaveri ordinari. Senza distinzioni. La seconda guerra di mafia sfoderava tutto il suo carico di morte e di violenza. “Che la vita di mio padre fosse in pericolo era evidente a lui per primo. Questa evidenza non gli aveva impedito di respingere tutti gli affettuosi o autorevoli tentativi opposti alla sua decisione di tornare in Sicilia a combattere, in prima linea, la battaglia politica per il riscatto della sua terra”, scriverà suo figlio Franco nel libro Sulle ginocchia. Pio La Torre, una storia.
Pio La Torre nasce nel 1927 da una famiglia poverissima, nella borgata palermitana di Altarello di Baida dove non c’era acqua corrente e la luce elettrica arrivò nel 1935, tredicesimo anno dell’era fascista. La sua abitazione, racconterà lo stesso La Torre era “una casa di campagna, […] forse più povera che modesta ma civilissima”. In quegli anni, La Torre capisce che per affrancarsi dalla povertà e dalla sottomissione bisogna aver accesso all’istruzione. La sola scuola può essere motore e causa del cambiamento di una società. Nel 1945 si iscrive all’università e al Partito Comunista. Il 29 ottobre del 1949, quando si unisce in matrimonio civile a Giuseppina Zacco, la sua lunga carriera politico-sindacale ha già preso il via, in un’Italia inquieta e in una Sicilia sconvolta quotidianamente dalle decine e decine di attentati in cui perdono vita sindacalisti e militanti social-comunisti. Placido Rizzotto di Corleone, Calogero Cangelosi di Camporeale e Epifanio Li Puma di Petralia Soprana e qualche anno dopo Salvatore Carnevale di Sciara sono i nomi più celebri di quel periodo. Nel 1944, a guerra ancora in corso, il ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo firma una serie di decreti per “dare continuità e stabilità al lavoro agricolo, [e] incentiva[re], inoltre, il movimento contadino a organizzarsi e a servirsi di strumenti legali, propone[ndosi] di inaugurare un nuovo rapporto tra Stato e masse rurali”.
Nella neonata Italia repubblicana contadini e contadine si battono per l’attuazione di quei provvedimenti. In Sicilia, nell’aprile del 1947 si va al voto e il Blocco del popolo che riunisce le forze di sinistra segna un avanzamento importante da un punto di vista elettorale. Pochi giorni dopo, le undici vittime e i ventisette feriti della strage di Portella della ginestra portano a una svolta centrista dell’assetto politico del nostro Paese. Sta per scoppiare la Guerra Fredda, il quadro politico diventerà prigioniero del rigido centrismo democristiano per dare forma a una democrazia paralizzata.
Nell’ottobre del 1949, in un quadro giuridico sostanzialmente “pre-costituzionale”, nel crotonese, in Calabria, la polizia spara ad altezza d’uomo uccidendo tre lavoratori. L’episodio passerà alla storia come l’eccidio di Melissa. In quelle ore La Torre è in viaggio di nozze, ma rientra a Palermo per organizzare l’occupazione delle terre nel corleonese. È la mattina del 13 novembre 1949 quando circa seimila persone all’alba si dirigono verso i feudi da occupare. Tra questi vi è quello di Strasatto. Lì, a fare da campiere, vi è Luciano Liggio. Qualche mese dopo, nel marzo del 1950, La Torre guida un corteo di contadini a Bisacquino. La polizia spara. La Torre cerca una mediazione ma viene arrestato e condotto nel carcere borbonico dell’Ucciardone a Palermo. Nei diciassette mesi di detenzione, perderà la madre e nascerà il suo primogenito Filippo di cui incrocerà lo sguardo la prima volta proprio tra le mura del penitenziario. È dura la vita dietro le sbarre per il giovane Pio. Racconterà sua moglie Giuseppina: “Le lettere che ci scrivevamo, venivamo previamente lette e anche censurate per cui […] ci accordammo che alla fine avremmo aggiunto la parte più intima, scritta col limone, illeggibile se non si passa una fiammella sotto al foglio”.
Il lavoro. La pace. La lotta alla mafia intesa come “fenomeno di classi dirigenti”. I diritti. Queste sono le battaglie legate alla vita concreta delle persone che La Torre conduce fin dagli esordi della sua parabola pubblica. Nel 1952, pochi mesi dopo l’istituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), nove anni prima della prima Marcia Perugia-Assisi, La Torre, nelle vesti di segretario della Camera Confederale del Lavoro di Palermo promuove una raccolta di firme per aderire alla campagna a favore dell’appello di Stoccolma, lanciata dal movimento internazionale per la pace per la messa al bando delle armi atomiche. L’eco della seconda guerra mondiale da poco conclusasi con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki risuona ancora. In quel 1952 La Torre entra poi in consiglio comunale a Palermo dove vi resterà fino al 1966.
Sono gli anni caldi del boom edilizio, in cui a ricoprire la carica di assessore ai Lavori pubblici sono Vito Ciancimino e Salvo Lima. Sono gli anni del “sacco di Palermo” che sfigura per sempre il volto della città con lo slogan “Palermo è bella, facciamola più bella”. Ha scritto John Dickie in Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana: “Tra il 1959 e il 1963 […] il consiglio comunale concesse 4205 licenze edilizie, l’80 per cento delle quali andò a soli cinque uomini. E siccome in quel periodo il grosso dell’economia palermitana dipendeva dall’edilizia sovvenzionata con fondi pubblici, per le mani di queste cinque persone passò una quota enorme della ricchezza della città”. La Torre denuncia e combatte incessantemente il groviglio politico-mafioso che soffoca la città. Nel 1964, davanti all’Assemblea Regionale Siciliana esclama: “Il vero nodo da sciogliere oggi è perciò quello della mafia inserita nell’attuale sistema di potere. Affrontare questo tema significa entrare nell’ordine di idee di costruire un nuovo sistema di potere, basato veramente sulla democrazia politica e sulla democrazia economica in Sicilia”.
Il suo percorso nelle istituzioni prosegue nelle vesti di deputato regionale prima che nel 1972, in un’Italia che ha già conosciuto i primi effetti della strategia della tensione, possa sedere in Parlamento e diventare membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, istituita nel dicembre del 1962 dalla legge n. 1720. Nel 1976, la Commissione pubblica il suo rapporto finale. A redigere e sottoscrivere la relazione di minoranza ci sono le firme “dei deputati La Torre, Benedetti, Malagugini e dei senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano, Maffioletti nonché del deputato Terranova”.
Vengono analizzati, tra gli altri, i rapporti “mafia-banditismo-governo” nell’immediato secondo dopoguerra, la stagione delle lotte contadine e della riforma agraria, le caratteristiche della “mafia urbana” e i rapporti tra “mafia e potere” nella Sicilia di allora. Nella relazione ci sono nomi e cognomi di politici conniventi con il mondo mafioso. Uomini del calibro di Vito Ciancimino, Salvo Lima, Giovanni Gioia e i cugini Salvo. “La relazione di La Torre,” commenterà Emanuele Macaluso in L’antimafia dei comunisti. Pio La Torre e la relazione di minoranza, “analizza con acutezza e vasta informazione una lunga fase in cui il rapporto mafia-politica e mafia-istituzione hanno un segno preciso: la mafia è parte del blocco sociale e di potere che si contrappone alla sinistra “social comunista””. Una chiosa che tiene in considerazione lo scacchiere geopolitico internazionale in cui “il nemico principale degli Usa, dell’occidente, è il comunismo e il campo sovietico”. La relazione di minoranza del 1976 vedrà, quarant’anni dopo, una “simbolica” e importante approvazione da parte della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, che sottolineerà come quel lavoro contenesse già “tutti i fondamenti della legislazione di contrasto alle mafie, che furono introdotti purtroppo solo dopo il suo omicidio e quello del generale Dalla Chiesa”.
Pio La Torre aveva illustrato il suo progetto politico anche al giornalista Giuseppe Marrazzo che, dopo l’omicidio del giudice Cesare Terranova, avvenuto il 25 settembre del 1979, aveva realizzato in Sicilia un reportage Rai dal titolo Una vita contro la mafia. Davanti alle telecamere, La Torre aveva insistito sulla necessità di sottrarre beni e ricchezze alla criminalità mafiosa, invitando l’opinione pubblica a concentrare l’attenzione “sull’illecito arricchimento” delle cosche. “Presenteremo precise proposte per dotare polizia e magistratura degli strumenti legali necessari per potere perseguire su questo terreno i presunti mafiosi”, aveva energicamente dichiarato. Nel suo progetto di legge, erano previsti controlli patrimoniali per andare a colpire la disponibilità economica dei mafiosi, l’introduzione del reato di associazione di tipo mafioso e nuove disposizioni in materia di appalti che avevano l’obiettivo di svelare quel segreto bancario fedele alleato del riciclaggio di denaro sporco. La legge n. 646/1982, conosciuta come legge Rognoni-La Torre, vedrà la luce il 13 settembre del 1982, dieci giorni dopo l’omicidio del prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo. L’introduzione dell’articolo 416-bis nel codice penale sarà per il nostro Paese uno dei grandi lasciti di Pio La Torre, un uomo che considerava fare politica impegno e responsabilità e per questo “meritava di essere ucciso”. “Perché,” dirà Enrico Berlinguer durante la sua orazione funebre, “non era uomo da limitarsi a discorsi, analisi, denunce di una situazione, ma era un uomo che faceva sul serio alla testa di un grande partito di lavoratori e popolo”.