Piazza Fontana, la madre di tutte le stragi di Stato
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Abbiamo lasciato l’Italia spaccata in tre parti: una è quella degli studenti che assumono posizioni sempre più estremiste sia a destra che a sinistra e che nelle manifestazioni portano la violenza a livelli sempre più alti; un’altra è l’Italia sotterranea, dove la Gladio nera e quella rossa si preparano ad agire; la terza è quella più grossa, composta da cittadini pacati, moderati, che hanno simpatie politiche altalenanti e nel dicembre del 1969 sono preoccupati dei regali di Natale e di come passare il capodanno – il turismo fuori città non è ancora di moda. Mentre alcuni “cumenda” andranno in settimana bianca a Cortina – dove si riversano anche gli arricchiti o i millantatori, come racconta Alberto Sordi in Vacanze d’inverno che poi diventerà Vacanze di Natale 1983 – il resto dei milanesi parteciperà a qualche cena aziendale di Fantozziana memoria. “Ma che freddo fa”, canta Nada, ed è una canzone azzeccata: il 12 dicembre 1969 per le strade di Milano c’è un gran freddo, sotto i -2°. Per le strade camminano donne con cappotti aderenti e pantaloni a zampa, hanno i capelli tenuti da una bandana colorata e occhiali larghi; gli uomini hanno cravatte sottili e giacche senza spacchi. Poi, comincia.

Alle 16.25, vicino a piazza della Scala, un addetto alle pulizie trova una scatola metallica e avvisa la polizia. Sul posto vengono inviati gli artificieri per farla brillare, ma alle 16.37 una bomba esplode nella Banca dell’agricoltura a piazza Fontana. I giornalisti non fanno in tempo a lasciare la redazione che alle 16:55 ne esplode un’altra in un sottopasso a Roma, vicino alla Banca Nazionale del Lavoro. Poi un’altra alle 17:22 a piazza Venezia, alla base del pennone dell’altare della Patria, e una quarta alle 17.30, davanti al museo del Risorgimento. Sono bombe “simboliche”; quella nel sottopasso non causa feriti, quella all’altare della patria ne fa 12 lievi. Quella al museo, quattro. Ma a piazza Fontana è diverso. Secondo una delle svariate ricostruzioni fatte in seguito, la bomba sarebbe stata programmata per esplodere dopo l’orario di chiusura, come quella allo stand della Fiat di Milano, ma chiunque sia stato in banca sa che dopo aver chiuso le porte, gli sportelli vanno avanti a oltranza per chiunque sia dentro. C’è un tavolo, al centro della banca, sotto cui è depositata una valigia. Nessuno ci bada, ma contiene sette chili di tritolo collegati a un timer, che alle 16.37 esplode facendo quattordici morti e 88 feriti, di cui tre moriranno poco dopo.

Strage di Piazza Fontana, Milano, 1969

Funerali delle vittime di Piazza Fontana, Milano, 1969

Quando il fumo si deposita, l’intero Paese è sconvolto. A caldo, opinione pubblica e inquirenti notano che gli obiettivi delle bombe sono riconducibili agli ideali comunisti, quindi le indagini e il biasimo della folla si concentrano sull’area anarchica più estremista. Viene istituita una taglia di 50 milioni di lire per chiunque sia in grado di fornire informazioni; a Milano vengono tradotti in questura 84 sospetti, perlopiù appartenenti al circolo anarchico XXII Marzo; solo due sono invece di estrema destra. Gli interrogatori sono condotti dal commissario Luigi Calabresi. Tra i fermati ci sono Giuseppe Pinelli, ferroviere di porta Ticinese e tra i fondatori del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, Pietro Valpreda, ballerino di fila in una compagnia d’avanspettacolo, e Mario Merlino, uno strano anarchico del circolo XXII marzo. Strano perché è uno appena arrivato, ma sembra sapere il fatto suo. I tre si conoscono, ma sono molto diversi; Pinelli è un brav’uomo, sposato, che vive l’anarchia come una teoria da elaborare e sviluppare. Pietro Valpreda disprezza i teorici e anzi, sogna l’azione. Si è formato nel circolo anarchico Bakunin per poi uscirne accusandolo di essere troppo obsoleto e moderato e fondando il circolo XXII Marzo, il cui motto è “Bombe, sangue e anarchia”.

Pietro Valpreda (a destra) durante una protesta

Il 15 dicembre, Pinelli viene interrogato per la terza volta mentre in un’altra stanza viene sentito Valpreda. Calabresi conosce già il ferroviere; era indagato per altri attentati avvenuti in primavera. Tra loro si regalavano libri. L’interrogatorio va per le lunghe. Come negli altri due, Pinelli telefona alla moglie affinché lo aiuti a ricordare dati, luoghi e dettagli. Lei lo sente stanco ma tranquillo. Alle 21.30, l’aiutante del commissario Calabresi telefona alla moglie e le chiede di trovare, a casa, il libretto ferroviario del marito che ha all’interno i suoi spostamenti. Lei dice che non c’è problema e alle 23 si presenta un carabiniere a ritirarlo. Poco dopo mezzanotte, il telefono della moglie squilla ancora per comunicarle che suo marito è volato giù dal quarto piano del commissariato. Non è ancora morto, ma è in coma e lo farà due ore dopo, senza avere mai ripreso conoscenza.

Il mattino dopo la notizia scatena un uragano d’indignazione e incredulità in un clima già tesissimo. La prima versione è che Pinelli si sia gettato di sua volontà gridando: “È la fine dell’anarchia!”. La seconda è che si sia sentito male per la tensione, abbia aperto la finestra per prendere una boccata d’aria e abbia perso i sensi, cadendo. Cosa sia successo e chi ci fosse in quella stanza non si saprà mai. Ma il settimanale Vie nuove del Pci scrive: “L’uomo [Pinelli] si accasciò sulla sedia… l’ultimo colpo vibratogli alla nuca col taglio della mano era stato troppo forte”. In questa ricostruzione il corpo del ferroviere sarebbe stato ucciso con un colpo di karate e il corpo gettato dalla finestra per coprire la vera causa della morte. Non importa che sia una ricostruzione fantasiosa priva di testimonianze o fatti, né che il settimanale Lotta Continua sia stato denunciato per diffamazione continua e aggravata: tra il pubblico di estrema sinistra rimane l’immagine di Pinelli ucciso dalla polizia dietro ordine del commissario Calabresi, e la tensione sale. Il 12 dicembre 1970, all’anniversario della strage, ci sono violentissime contestazioni tra studenti e carabinieri in cui muore Saverio Saltarelli, studente in Legge, centrato da un lacrimogeno in pieno petto. L’impatto gli ha spaccato il cuore.

Giuseppe Pinelli
Il commissario Luigi Calabresi

La prima svolta alle indagini avviene quando un tassista, tale Cornelio Rolandi, si presenta al commissariato e dichiara che il giorno dell’attentato aveva portato in piazza Fontana un uomo robusto con una grossa valigia. Ricorda che zoppicava. Anche Valpreda zoppica ed è ben piazzato, così viene fatto un confronto all’americana: Rolandi deve riconoscere Valpreda tra quattro poliziotti in borghese, solo che prima di pensare al confronto gli inquirenti hanno mostrato al tassista una foto domandandogli se fosse lui. Rolandi, pur essendo in buona fede, lo riconosce; a questo si aggiungono informazioni che trapelano da poliziotti infiltrati nel circolo XXII marzo riguardanti un presunto deposito di esplosivi in periferia di Roma. Per i magistrati, sobillati da un’opinione pubblica isterica, è abbastanza.

Cornelio Rolandi

Secondo alcune versioni il tassista incassa 50 milioni e Valpreda viene incarcerato in attesa di processo. Altri dicono che quei soldi, il Rolandi non li vedrà mai. Ma c’è qualcosa che non va. Dal Veneto, il segretario della Dc di Treviso, Guido Lorenzon, contatta un magistrato e lo informa di alcune conversazioni avute con tale Giovanni Ventura, un neofascista già sospettato per un attentato a un rettore ebreo dell’università di Padova. Fa parte dell’organizzazione Ordine Nuovo fondata da Pino Rauti. Secondo Lorenzon, Ventura sarebbe coinvolto nella strage di Piazza Fontana e anche nelle bombe piazzate nei treni tra l’8 e il 9 agosto. In effetti l’analisi delle tracce di esplosivo, della valigia che lo conteneva e dei resti del timer trovano analogie con quelle sui treni, e formano una pista che conduce a Padova. Il 13 aprile 1971 arrestano Ventura e Franco Freda, un sedicente nazi-maoista insieme al suo più stretto collaboratore, Marco Pozzan. A novembre, un muratore che sta rifacendo un tetto a Castelfranco Veneto sfonda per sbaglio un tramezzo e trova un arsenale: armi, esplosivi e cassette metalliche identiche a quelle usate sui treni. La casa è di proprietà di Giancarlo Marchesin, che dopo l’arresto dichiara che le armi appartengono a Giovanni Ventura e che prima appartenevano a Ruggero Pan. Ruggero Pan viene interrogato e dice che ha lavorato per Ventura, il quale aveva cercato di coinvolgerlo nell’organizzazione di attentati. Le cose si complicano ulteriormente a dicembre, quando in una banca di Montebelluna, all’interno di una cassetta di sicurezza intestata a zia e madre di Ventura, vengono ritrovate copie di veline dei Servizi segreti con il codice identificativo LSD/VI M 0281: riguardano la strage di piazza Fontana. Interrogato dai magistrati, il fascista dichiara di averle ricevute da Guido Giannettini, un giornalista de La Nazione. Ma cosa c’entrano i Servizi coi neofascisti e una bomba in banca?

Franco Freda

Il 21 febbraio 1972 Marco Pozzan confessa di aver partecipato a una riunione di Ordine Nuovo in cui veniva pianificata la strage. Tra i neofascisti presenti ci sarebbero Pino Rauti, il leader di Ordine nuovo, e Guido Giannettini, quello strano giornalista. Il primo processo si apre a Roma il 23 febbraio 1972 e gli unici imputati sono Valpreda e Merlino, poi a marzo vengono aggiunti Freda, Ventura e Rauti, quest’ultimo scarcerato dopo pochi giorni. Il 15 maggio la magistratura ordina una perquisizione nella casa del giornalista Giannettini dove vengono trovate altre veline identiche a quelle di Montebelluna, ma con il numero finale successivo: 0282.

Sono indagini complesse che hanno tempi lunghi, ma l’opinione pubblica degli estremisti sobillati dalla stampa che ritraggono Calabresi come un torturatore ha già deciso com’è andata e non ha voglia di aspettare i tempi della giustizia: il 17 maggio l’ispettore Calabresi viene assassinato a revolverate da due estremisti di Lotta continua su mandato dei fondatori Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. Poi, come se fosse una risposta, il 31 maggio i neofascisti compiono la strage di Peteano; con una segnalazione anonima cinque carabinieri vengono attirati vicino a una Fiat 500 parcheggiata in una frazione di Gorizia e appena aprono la portiera la macchina esplode, uccidendo tre e ferendone due.

Luigi Calabresi viene ascoltato in Tribunale

Omicidio di Luigi Calabresi, 17 maggio 1972

In questo clima indagare su piazza Fontana diventa difficilissimo. Ci sono fin troppi punti oscuri e contingenze con i Servizi, così la magistratura cambia direzione: il 20 ottobre emette tre avvisi a procedere nei confronti di Elvio Catenacci, dirigente degli affari riservati del ministero dell’Interno, del questore di Roma Bonaventura e del capo dell’ufficio politico della Questura di Milano, Antonino Allegra. Il 29 dicembre, dopo tre anni di carcere, Valpreda e gli altri anarchici vengono rilasciati e viene incriminato Giannettini, che però non si trova: è scappato a Parigi, aiutato dal numero due del Sid, Gianadelio Maletti, e dal capitano Antonio Labruna, capo del Reparto D. Pozzan, dopo aver testimoniato, viene rilasciato e fatto fuggire in Spagna sempre dal Sid sotto il nome di Mario Zanella. Ma chi siano questi terroristi di Ordine Nuovo, e cos’abbiano in comune con i Servizi segreti, è una cosa non così ovvia, che merita un capitolo a parte.

Valpreda viene rilasciato, 1972
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