Giuseppe Giannola nasce a Palermo nel 1917, in una Sicilia dove mafia e mezzadri si dividono il potere condannandola all’arretratezza economica. A diciotto anni Giuseppe è gracile, somiglia a Fred Astaire, con una virgola di sorriso e le spalle strette. Viene richiamato per il servizio di leva e dopo il Car viene indirizzato all’aeronautica militare. È il 1929.
Horace West nasce in Oklahoma nel 1911. La sua famiglia è povera e sopravvive raccogliendo cotone. Terminata la prima guerra mondiale gli Stati Uniti entrano nei Roaring Twenties. A diciassette anni Horace è un uomo enorme, con braccia possenti frutto del lavoro nei campi e nel 1928 si trasferisce a New York in cerca di fortuna. Trova lavoro come cuoco in un albergo prestigioso, ma con il crack finanziario di Wall Street del 1929 diventa uno dei milioni di americani a perdere il lavoro.
In Italia, Benito Mussolini gode del consenso della maggioranza degli italiani: i cittadini lo idolatrano perché ha sconfitto la minaccia comunista, i contadini perché si sentono rappresentati e riconosciuti, mentre molti degli oppositori iniziano a rivalutare la sua opera al governo. Dopotutto l’economia italiana sta ripartendo, lasciandosi alle spalle la fame della prima guerra mondiale. La lira è stata rivalutata a quota novanta, i risparmi dei cittadini sono tutelati e sono aumentati i dazi protezionistici per l’economia nazionale. La mattina del 24 ottobre 1929, dall’edificio della borsa di New York, si sentono delle urla. Migliaia di cittadini accorrono per capire cosa succede, mentre uomini e donne si buttano dalle finestre dei palazzi. Imprenditori e lavapiatti piangono abbracciati, ci sono cartacce e urla per tutta la Wall street. I giornali pubblicano un’edizione straordinaria: la bolla delle speculazioni è esplosa, e la borsa ha bruciato 25 miliardi di dollari del 1929, ossia 368 miliardi di oggi. Migliaia di banche falliscono e milioni di americani perdono la macchina, la casa, il lavoro e i risparmi di una vita contemporaneamente. Tra loro c’è anche Horace.
Horace, con la moglie e i due figli, vive anni di fame e miseria. A 29 anni, mosso da un desiderio feroce di riscatto sociale, si arruola nella Guardia Nazionale dell’Alabama. Da lì chiede il passaggio in fanteria. Gli Usa hanno deciso di farsi coinvolgere nella seconda guerra mondiale contro le forze dell’Asse e hanno un bisogno enorme di uomini, arruolando anche i meno giovani e quelli con la psiche meno adatta. Nelle camerate, nella mensa, Horace viene ricordato da tutti come uno “fuori di testa”. Quando arriva in vista delle coste della Sicilia nel 1943 ha 33 anni.
Da qualche giorno i contadini siciliani hanno suggerito ai parenti militari di disertare. Stanno arrivando gli americani, dicono, e sono imbattibili. Molti disertano, ma Giuseppe Giannola, di stanza all’aeroporto militare Santo Pietro, vicino a Caltagirone, rimane. Il 10 luglio, il generale Patton e il generale Montgomery danno il via all’operazione Husky, per liberare l’Italia dai nazisti. L’ordine che Patton dà ai soldati è chiaro: “Kill, kill, and kill some more”. Per Patton non bisogna fare prigionieri. Gli americani sbarcano a Gela il 10 luglio 1943. Patton incarica la 45° divisione Thunderbird di sfondare le linee italo tedesche.
Il 14 luglio c’è una battaglia feroce vicino all’aeroporto dove si trova Giuseppe. I soldati italiani, per la maggior parte bresciani, e tedeschi resistono agli alleati per due giorni. Dopo 48 ore vengono martellati da una tempesta di fuoco: l’operazione Husky è una macchina bellica che ha schierato più di 160mila uomini, 1800 mezzi da sbarco, 600 carri armati e quasi 5mila aerei. All’alba, Giuseppe e gli altri si arrendono.
Alle dieci di mattina, Giuseppe, altri 42 italiani e tre tedeschi sono raggruppati come prigionieri di guerra dagli americani. Il comandante del primo battaglione, maggiore Roger Denman, ordina a Horace e altri sette militari, di portarli nel retro dell’aeroporto, lontani dalla strada in modo che non diano nell’occhio, per consegnarli all’ufficiale dell’intelligence militare che li aspetta per interrogarli. Horace fa loro togliere camicia e scarpe affinché la fuga sia più difficile, poi scortato dai suoi uomini si mette in cammino. Fatto un chilometro, Horace devia fuori dalla strada, e percorsi un centinaio di metri ferma il gruppo: incarica un soldato di scegliere nove prigionieri da mandare all’intelligence, poi fa disporre gli altri in linea e domanda al sergente Haskell Y. Brown di prestargli il suo mitragliatore Thompson.
Haskell dovrebbe obbedire senza fiatare, invece domanda per farci cosa. Horace risponde “uccidere quei figli di puttana”. Haskell consegna l’arma, Horace dice ai soldati di voltarsi se non vogliono vedere e poi svuota il caricatore sui prigionieri, tra cui Giuseppe. Un proiettile gli fracassa il polso, poi crolla tra gli altri corpi che sussultano per i colpi e gli cadono sopra. Horace ricarica, raggiunge il mucchio di ragazzi e finisce quelli che ancora respirano.
Ma Giuseppe è ancora vivo. Resta nascosto sotto i corpi dei commilitoni per due ore e mezza. Quando è convinto di essere solo si fa largo tra i corpi usando la mano intera e si tira fuori. Fa appena in tempo a vedere un soldato americano che gli punta il fucile contro, poi diventa tutto nero. Mezz’ora dopo, Giuseppe rialza la testa. Il proiettile dell’americano l’ha solo sfiorato. Si rialza dal mucchio di cadaveri, ferito e fradicio di sangue; comincia a camminare verso il suo paese, con il sole della Sicilia che gli martella le spalle nude e i piedi si scarnificano sui ciottoli. Fatti un paio di chilometri si ferma a riposare sotto un albero, quando vede una jeep sulla strada. Ha la croce rossa sul cofano. Giuseppe è troppo debole per alzarsi o nascondersi, ma i tre uomini a bordo lo vedono e accostano. Sono americani. Gli prestano i primi soccorsi e gli dicono di aspettare sul bordo della strada e che verranno a riprenderlo. Si avvicina un’altra jeep, a bordo ci sono tre soldati americani: inizialmente pensano sia uno di loro, ma quando capiscono che è italiano uno dei tre tira fuori una Garand e gli spara nel collo.
Due militari della croce rossa britannica lo portano di corsa all’ospedale militare e Giuseppe, nessuno sa come, sopravvive. Quando racconta la sua storia e identifica Horace, non gli crede nessuno, né le autorità, né i suoi parenti, né i giornalisti. Gli altri italiani uccisi erano bresciani, uomini le cui famiglie erano lontane e non li conosceva nessuno. Vengono dati per dispersi. È solo merito di un parroco militare se la testimonianza di Giuseppe viene presa sul serio, mentre l’aeronautica era sul punto di processarlo per diserzione. All’inizio il generale Patton minimizza sull’accaduto e dice di non divulgarlo per non rovinare la narrativa degli Alleati, poi quando scopre che la storia è vera ordina “processate quel bastardo”. Il 2 settembre West viene portato davanti alla corte marziale in segreto. Si dichiara non colpevole per temporanea infermità mentale. In un giorno viene degradato e condannato al carcere a vita, ma il 23 novembre 1944 la sentenza viene riesaminata e Horace viene reintegrato nell’esercito a tutti gli effetti.
In Sicilia gli anni passano, la guerra finisce, le ferite si rimarginano, ma nessuno crede alla storia di Giuseppe, nemmeno i suoi figli. Horace intanto è tornato negli Usa, congedato con onore, e morirà in Oklahoma nel 1974, a 63 anni. Giuseppe no, continua a insistere, a mostrare i luoghi della strage e a raccontare quella storia. È solo merito di un senatore del Pdl (e storico), Andrea Augello, se quella storia diventa nota nel 2004. Giuseppe ha 87 anni, ma fa in tempo a vedere la commemorazione e il monumento collocato nello stesso posto dove diversi anni prima gli Alleati l’avevano ucciso tre volte, senza riuscirci. Alla cerimonia del luglio 2012 sono presenti il vice presidente del Parlamento europeo, Roberta Angelilli, che porta le parole del presidente Martin Schulz, e il vice presidente del Senato italiano Domenico Nania, ma nessun rappresentante delle istituzioni statunitensi. Schulz, nel suo discorso dice: “La barbarie della seconda guerra mondiale ha prodotto lutti, sofferenza e dolore in tutte le famiglie, in tutti i Paesi europei. Le storie delle persone che ne hanno subito le conseguenze sono innumerevoli. La nostra Europa è nata dalle macerie di quella guerra: è stata una rivoluzione silenziosa, che ha detto ‘mai più’ alla guerra, ‘mai più’ alle divisioni, alle barriere, alle ingiustizie, al sangue. L’Europa è un progetto unico nella storia dell’umanità! È un progetto che ha fatto sì che i nemici, in segno di riconciliazione, si tendessero la mano, diventando amici. Ha permesso a interi Paesi di liberarsi dalle dittature e dai fascismi, di diventare democrazie, assicurando al tempo stesso pace, prosperità e giustizia sociale a gran parte dei suoi cittadini. Dobbiamo essere fieri di tali conquiste, senza dimenticare da dove veniamo. La memoria è un dovere necessario per evitare che simili catastrofi possano abbattersi di nuovo sul nostro continente. In questo momento difficile per l’Europa, attraversata da una crisi gravissima, dobbiamo dar prova dello stesso coraggio che permise ai padri fondatori, a partire dal punto più basso della storia dell’umanità e della civiltà, di capire che possiamo farcela soltanto insieme, ed è quindi insieme che dobbiamo andare avanti”.