"Paraventi”, in Fondazione Prada, l'importanza dell'invisibile - THE VISION

A volte faccio un gioco, è molto semplice, consiste nell’elencare le mie tre parole preferite. La preferenza non dipende dal significato in questo caso, o dall’uso, è una preferenza puramente edonistica, sensibile. Vengono scelte quelle parole che nella vita di tutti i giorni si usano raramente, al cui suono di solito siamo poco abituati: per quanto mi riguarda tra queste di solito c’è lustrini, o bluette, altresì turchiniccio, bovindo e piroetta, a volte le inserisco casualmente nelle conversazioni per vedere se l’atmosfera del discorso cambia. A queste parole vorrei aggiungere paravento. Personalmente non ricordo quand’è stata l’ultima volta che l’ho pronunciata prima che fosse presentata la mostra Paraventi, curata da Nicholas Cullinan, in contemporanea alla Fondazione Prada di Milano, a Prada Rong Zhai a Shanghai e a Prada Aoyama Tokyo.

Le origini del paravento affondano in Cina, nella fase tarda della dinastia Chou, ovvero nel 300-200 a.C. Il paravento, all’epoca, era un oggetto di contemplazione, fonte di ispirazione spirituale e strumento meditativo, al pari di quello che nella vicina india era il mandala. Poi il paravento raggiunse il Giappone, dove divenne una sorta di schermo domestico, che posizionato all’ingresso delle case proteggeva le dimore dagli spiriti maligni. Arrivato in Europa, divenne uno degli oggetti di scena fondamentali del teatro barocco, sia per la prosa che per l’opera, ma è dall’ottocento che subisce la sua ultima evoluzione, diventando un supporto molto amato da artisti (in particolare Paul Cézanne e James McNeill Whistler), architetti e infine designer, fino ai nostri giorni. In occasione della mostra, infatti, Fondazione Prada ha commissionato appositamente diverse opere ad artisti come Tony Cokes, Cao Fei, Wade Guyton, Anthea Hamilton, William Kentridge, Shuang Li, Goshka Macuga, Kerry James Marshall, Chris Ofili, Laura Owens, Betye Saar, Tiffany Sia, John Stezaker, Keiichi Tanaami, Wu Tsang, Luc Tuymans e Francesco Vezzoli. Il paravento, infatti, è un oggetto estremamente evocativo nella sua geometrica semplicità, spesso abbinata a una grande ricchezza decorativa. Come suggerisce il suo nome, avrebbe in teoria una funzione molto chiara, eppure questo oggetto si è evoluto in maniera del tutto originale, andando ad assumere un’enorme varietà di significati diversi.

Ciononostante, il paravento resta un oggetto inusuale, ma Fondazione Prada ha saputo far della sua inattualità un dispositivo artistico, che ci porta a immaginare contesti e spazi ormai più vicini all’immaginazione che alla realtà. I paraventi, nella quotidianità del mondo accelerato contemporaneo, si trovano solo negli ambulatori dei medici, spesso dei ginecologi. A volte sono asettici, altre volte ricercati, vintage, in alcuni casi autentici pezzi antichi provenienti dall’oriente, dipende dalla passione silente dei loro proprietari per il design e l’architettura, la cura per gli interni. Così l’ambulatorio si trasforma in una piccola Wunderkammer e il paravento cela l’angolo in cui i personaggi si trasformano, le maschere si cambiano, o si tolgono. D’altronde il paravento è un classico elemento scenografico, torna negli spettacoli teatrali, spesso nell’opera lirica, il paravento – se vogliamo – è una piccola quinta, un espediente narrativo, dietro a cui accadono cose, si cambia, ci si trasforma.

Il paravento è il confine che prende forma tra la direzione di due sguardi, e quindi di due punti di vista e due identità. Il paravento è qualcosa che sta a metà tra l’architettura e l’arredo, tra l’elemento spaziale e l’oggetto, l’arte e il design, l’ornamento e la funzione, così simile al ventaglio, usato per nascondere l’espressione del volto, un corpo, un’intimità, usato anche per ingannare, o per proteggersi – come dimostra bene la scenografia di Ezio Frigerio per la regia di Giorgio Strehler di Nozze di Figaro, l’opera di Mozart, ma non solo. In questo essere un oggetto liminale, ci si offre come una sorta di talismano, al pari di uno specchio.

Uno strumento di indagine, interrogazione, a suo modo uno strumento di potere, qualcosa di simile a un monumento o a un totem, ma anche a un biglietto. Il paravento, infatti, come emerge dalla mostra permette un raffinato esercizio intellettuale e compositivo tra dimensioni, matericità e superficie, che dispiega una quantità di argomenti caleidoscopica. Questa caratteristica è stata fatta emergere sapientemente nel progetto espositivo, sviluppato in collaborazione lo con studio di architettura giapponese SANAA, fondato nel 1995 da Kazuyo Sejima e Ryūe Nishizawa, da sempre interessati alla ricerca formale sulle possibilità della parete divisoria, destrutturata, trasformata, reinventata.

Al piano terra del Podium si trovano sette prospettive tematiche disposte in maniera volutamente anti-gerarchica. Le linee secche e a zig zag dei paraventi – di varie forme, epoche, materiali e dimensioni – sono abbracciate da pareti curvilinee a tutta altezza di Plexiglas, che si alternano a tende sinuose che danno vita a uno spazio intimo, attutito, a tratti misterioso e disturbante, a metà tra un bosco distorto da un sogno ambientato in una distopia tecnologica e un labirinto surreale. Le caratteristiche forme sinuose dei progetti di SANAA si trasformano a loro volta in paraventi muti e deformi, organici. Questo displacement ci fa immediatamente capire quanto non siamo abituati a muoverci in ambienti senza una gerarchia spaziale, tematica e funzionale, progettati per suggerire determinate direzioni, specifici movimenti, flussi precalcolati. Così, questa prima parte della mostra trasforma l’intero spazio in un’opera d’arte, un dispositivo cognitivo attivato dall’esperienza estetica.

All’interno di queste bolle si celano i temi chiave della ricchissima mostra. In primis, in “Reading, East and West”, il pregiudizio cognitivo che ci muove: le abitudini legate alle direzioni, in particolare quelle del dispiegamento narrativo, della lettura, sia dei testi, che delle immagini, degli spazi, del paesaggio stesso, una storia fatta di migrazioni, traduzioni, convenzioni. Poi si passa a “Public/Private” che esplora proprio la dimensione erotica del paravento, in quanto punto di contatto con l’intimità e il suo disvelarsi, la dimensione domestica dei tabù, ma anche teatrale, basti pensare al burlesque, agli spogliarelli, o banalmente all’attesa maliziosa, sadica, a seconda del ritmo, che a volte sostituisce la soddisfazione del desiderio stesso.

“Split Screens” ragiona invece sulla digitalizzazione della superficie, ormai pervasiva. Così come sul significato di schermo, oggi completamente ribaltato. Lo schermo infatti ora è uno strumento per mostrarsi, mentre una volta era qualcosa dietro cui celarsi. Ancora una volta riemerge la dialettica e la tensione tra rivelazione e occultamento, con cui più o meno consapevolmente ci troviamo quotidianamente a confrontarci. Ma il paravento è anche una sintesi del libro. Sui paraventi si sono raccontate delle storie, entra così in gioco la struttura della narrativa, l’umana e insopprimibile spinta di suddividere il continuum temporale in frangenti determinati e determinabili, innaturali e – dovremmo ricordarci più spesso – inesistenti, immagini, appunto, rappresentazioni logiche. “Four Seasons: Space and Time, Figuration and Abstraction” mostra proprio questo primo, semplice meccanismo di descrizione del mondo, dello spazio e del tempo, attraverso il susseguirsi delle stagioni, e dei cambiamenti che imprimono sul paesaggio e sulle nostre azioni e abitudini.

Ma il paravento, parimenti al vaso, è anche dimostrazione di ricchezza, oggetto puramente ornamentale e rappresentativo del sistema di valori di chi detiene il potere, e quindi strumento di persuasione, dominio e manipolazione semiotica. Così la serie di opere del tema “Propaganda” analizza il potenziale politico di questo oggetto, negativo e positivo, e anche provocatorio, avvicinandoli quasi al concetto di manifesto.

Parallelamente, per restare in ambito sociale, “World of Interiors”, sfrutta la funzione sovversiva dell’estetica queer per ridefinire il campo semantico della decorazione stessa, andando a conquistare il dominio dell’arte considerata alta. Infine, “Parody/Paradox” porta in scena paraventi trasparenti, paradossali appunto, che spingono all’irruzione del ridicolo. Nel saggio sul comico di Henri Bergson, Il riso, il filosofo francese sostiene che il ridicolo si manifesti quando non ci si rende conto della propria rigidità e dei propri automatismi, in una parola della propria forma – come nella canzone “Pippo non lo sa”, composta nel 1939 da Mario Panzeri e Nino Rastelli per Silvana Fioresi e il Trio Lescano. “Ciò che la vita e la società esigono da ciascuno di noi, è un’attenzione costantemente sveglia, che discerna i contorni della situazione presente, e anche una certa elasticità del corpo e dello spirito che ci metta in grado di adattarci ad essa. Tensione ed elasticità: ecco due forze complementari l’una all’altra che la vita mette in ballo. Ne è privo il corpo? Si hanno gli accidenti di ogni genere, le infermità, la malattia. Ne è privo lo spirito? Si hanno tutti i gradi della povertà psicologica, tutte le varietà della follia. Ne è privo il carattere? Si hanno i profondi inadattamenti alla vita sociale, sorgenti di miseria, a volte occasioni di delitto”. 

Salendo al primo piano si dispiega invece una quinta infinita, un mare di paraventi a perdita d’occhio ci immerge in una sorta di città orizzontale, in cui come in alcuni film che occhieggiano al teatro, ogni tre passi cambia la scenografia, e così le epoche, le atmosfere, i sentimenti e le stagioni. Il paravento, infatti, tra la fine dell’Ottocento e prima metà del Novecento, era considerato un vero e proprio esercizio di stile, quasi una prova per sancire la mano di quelli che poi sarebbero diventati grandi pittori, come per esempio Pablo Picasso, o invece un primo confronto per testare l’abilità di artisti che avrebbero poi ottenuto un riconoscimento solo più tardi, come Francis Bacon.

Al magma sincronico, acquatico, yin, uterino del piano terra si contrappone uno spazio organizzato e lineare, che pure non manca di avere dei fortissimi punti di contatto esperienziali con la prima parte della mostra, o forse innescati proprio da quella. L’organizzazione del tempo prende forma in un flusso storico che enfatizza ancor più lo status liminale dei paraventi, ma allo stesso modo di quella convenzione intellettuale che siamo stati abituati a chiamare Storia, fatta non altro che da forme, il fronte e il retro dei paraventi innescano un dialogo silenzioso ma chiarissimo, facendo emergere la negazione che incarnano e in un certo senso dileguandola, dissolvendola. Fronte e retro si svelano e si ribaltano, cambiando ordine di lettura quando per forza di cose il visitatore è costretto a tornare indietro.

I più di settanta paraventi, realizzati dal XVII secolo fino a oggi, raccolti da Paraventi, come già Fondazione Prada ha saputo fare sul fronte ecologico con Everybody Talks About the Weather (aperta fino al 26 novembre a Ca’ Corner della Regina, a Venezia), si offrono come uno strumento di profonda indagine su noi stessi e sul nostro modo di vivere e intendere il mondo, l’ambiente, gli altri e ultimi ma non ultimi il nostro corpo e i nostri pensieri. La forma del paravento è profondamente simbolica e tuttora, a più di 2000 anni dalla sua apparizione, continua a offrirsi come un passepartout cognitivo capace di spingerci sul confine delle nostre credenze e quindi della nostra stessa identità. Ibridando culture ed epoche diverse, così come tecniche e sensibilità questa mostra ci porta a sporgerci sul limite del conosciuto, riconoscendo le contraddizioni e la parzialità su cui si fonda la nostra conoscenza, invitandoci a decifrare con occhi nuovi la maniera in cui si manifesta il presente, esercitandoci ad abitare la liminarità.

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