Su Paolo Villaggio di solito le opinioni delle persone si dividono in due schieramenti: chi non lo ha mai visto e/o ascoltato fuori dal cinema, e che quindi proietta in lui l’immagine comica e penosa di Fantozzi e chi invece, indispettito anche solo dall’averlo ascoltato in qualche intervista lo considera un antipatico e sminuisce, con ciò, anche il suo ruolo di icona del cinema italiano. Mi sono sempre chiesto perché la gente odiasse tanto Paolo Villaggio fuori dal suo ruolo attoriale, nonostante il suo essere stato, prima che un semplice attore, un intellettuale brillante e un letterato istruito – la risposta è insita nella domanda: perché era a tutti gli effetti una persona insopportabile, almeno per l’italiano medio.
In una recente intervista alla trasmissione Rai Io e te, Anna Mazzamauro, attrice romana – interprete tra le altre cose della signorina Silvani, l’amore proibito del ragionier Ugo Fantozzi – aveva ricordato, riferendosi al suo rapporto di amicizia con Villaggio fuori dal set, come questo si fosse dimostrato: “Uno snob spaventoso”. E che, chiedendo delucidazioni sulle motivazioni dietro tale atteggiamento, lui si fosse giustificato con testuali parole: “Io sono amico solo degli attori ricchi e famosi”.
Senza la giusta dose di senso dell’umorismo e consapevolezza nei confronti della pungente satira di Villaggio, una risposta del genere potrebbe spiazzare, lasciare interdetti. Di aneddoti simili, del resto, ce ne sono tanti. A partire da quella volta che, in diretta durante la trasmissione di Oliviero Beha, affermò che “In Sardegna si fanno pochi figli perché ci si accoppia con le pecore”, guadagnandosi una querela da parte dei pastori sardi, e obbligando il presentatore a scusarsi ufficialmente. O ancora, di quando disse a Radio 24 che “le paraolimpiadi fanno tristezza, esaltano le disgrazie”, in riferimento a quelle di Londra del 2012. Villaggio era una persona senza filtri, difficile da comprendere e da accettare, soprattutto in un paese politicamente corretto come il nostro, ma la sua personalità e il suo modo di essere fuori dal set sono state il prototipo di un atteggiamento iconoclasta mai sdoganato, un baluardo contro il moralismo all’italiana e gli obblighi sociali a esso connessi. Il problema non era Villaggio, siamo noi, incapaci di giudicare un artista esclusivamente per la sua arte.
In una lucidissima intervista per la televisione svizzera del 1975, Paolo Villaggio parlava del popolo italiano come “incapace di recepire la satira”, perché privo del senso dell’umorismo, e quindi impossibilitato ad accettare la satira come tale, se non “contrabbandata” attraverso l’iperbole, che lui stesso era stato costretto a utilizzare nella realizzazione dei suoi film, al fine di essere capito. Quella stessa iperbole che si era deciso a non utilizzare nella vita di ogni giorno, rassegnandosi alla realtà di chi, guardando Fantozzi, rideva immaginando il proprio vicino di casa nelle stesse, esilaranti situazioni, senza mai porsi il dubbio di quanto quell’immagine grottesca non fosse in realtà lo specchio della sua stessa esistenza.
Chi lo aveva conosciuto raccontava di lui come di una persona chiusa, poco incline alle interazioni sociali, burbera, scostante, un’immagine che non fa onore alle surreali storie de “La vera storia di Carlo Martello”, in cui Villaggio racconta, ad esempio, di quando lui e Fabrizio De André, in compagnia di altri “fannulloni”, scommisero per far mangiare un topo morto al cantautore genovese, in cambio di ventimila lire. L’amicizia con De André è in realtà la chiave di volta per la lettura di Paolo Villaggio come uomo, e dare un senso alla sua “indecente sgradevolezza” che gli italiani gli hanno sempre additato.
Nato a Genova nel 1932 in una famiglia borghese. Frequenta il liceo classico e si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, che abbandona qualche anno dopo per dedicarsi ad altre attività: in questo periodo dà forma alla propria personalità, conosce Maura Albites, che sposerà alla fine degli anni Cinquanta, e nel frattempo si diletta in vari lavori: speaker radiofonico, cabarettista, impiegato e intrattenitore sulle navi della Costa Crociere, insieme a De André. La loro era stata una simpatia immediata, di quelle “a pelle”, durata negli anni a seguire e scandita dal “dolce far nulla” della loro crescita, La loro produzione artistica, si sviluppò con la stessa spontaneità: Faber, come lo aveva soprannominato lo stesso Villaggio, arrangia la musica, e lui compone i testi. Insieme scrivono “Il Fannullone” e “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”, tra i testi più dissacranti mai pubblicati da De André, passato poi attraverso la censura e divenuto uno dei primissimi catalizzatori dell’odio verso l’indecenza di Villaggio, autore del testo stesso.
Gli anni a seguire Villaggio li passa tra i cabaret meneghini e le prime comparsate televisive, scoperto artisticamente da Maurizio Costanzo, che lo porta in televisione e sarà produttore di molti dei programmi da lui condotti. A determinare il vero successo di Paolo Villaggio nel piccolo schermo degli anni Sessanta è il suo atteggiamento volutamente “aggressivo” verso il pubblico, a partire dalle sue interpretazioni del Professor Kranz, torvo illusionista tedesco, sempre sul piede di guerra nei confronti del pubblico. La novità è proprio quella, in modo del tutto inedito e spiazzante, il presentatore parla tra il pubblico e gli si rivolge con tono sprezzante, che scandalizza lo spettatore. È la prima volta che Villaggio spezza l’equilibrio del presentatore mansueto, sempre prudente e attento nei confronti del pubblico – è in quel momento che, per la prima volta, le catene del servilismo vengono spezzate in diretta nazionale, e Villaggio accetta il suo ruolo di “cattivo”.
C’è chi non apprezza la sua sconcertante schiettezza, ma il pubblico è affascinato da quella figura magnetica che lo rende partecipe allo show, parlandone male. Il conflitto di Villaggio per il formalmente costituito si caratterizza in quegli anni, quando capisce che per piacere al pubblico dovrà diventare il secondo “più grande antagonista, antipatico ma comicissimo, della storia del cinema Italiano”, dopo Alberto Sordi, tra i più grandi interpreti della commedia italiana, che prima di lui aveva interpretato l’italiano medio: l’arrivista disperato, crudele con i poveri e servile con i ricchi, alla ricerca del suo “posto al sole”, e disposto, per ciò, a fare qualunque cosa.
Nasce così la maschera del ragionier Fantozzi, descritta per la prima volta in una serie di racconti per L’Europeo, dove iniziava a prendere forma l’impiegato vittima del sistema post-industriale e della società dei consumi, in maniera del tutto letteraria, trovando solo successivamente spazio sul grande schermo. Insieme a Fantozzi si delinearono le figure ricorrenti nelle sue vicissitudini: la moglie remissiva Pina, l’aberrante figlia Mariangela, l’amore proibito rappresentato dalla signorina Silvani, e non ultimo il “compagno” impiegato, il ragionier Filini, interpretato nei film da Gigi Reder, storica spalla di Villaggio, e forse uno dei pochi collaboratori che riuscì a instaurare con Villaggio un’amicizia duratura.
Paolo Villaggio è morto a Roma il 3 luglio 2017, e in occasione del funerale la stampa nazionale ha dato largo spazio alla sua carriera attoriale, senza tralasciare le parole di coloro che lo avevano conosciuto, dentro e fuori dal set. Leggendo le tante interviste rivolte allo storico cast della saga di Fantozzi, colpisce che forse solo Milena Vukotic sia stata in grado di spendere parole di reale affetto nei suoi confronti come uomo, e che la maggior parte delle persone che aveva lavorato con lui a questi film si sia limitata a tessere le sue lodi in quanto attore, ma additando sempre a Villaggio una certa incapacità di intrecciare rapporti umani, o di avere, in ogni caso, un atteggiamento estremamente freddo e distante nei loro confronti. Già nel 2014, durante un intervento televisivo al talk show Roma InConTra-Ara Pacis, Anna Mazzamauro aveva definito Paolo Villaggio “un attore straordinario, un uomo un po’ meno.” Oltre a lei, anche Plinio Fernando (interprete della figlia grottesca di Fantozzi, Mariangela) aveva, sia pure in modo più discreto, fatto riferimento al carattere chiuso di Villaggio, e alla loro conoscenza “superficiale”, nonostante gli anni trascorsi insieme sul set.
Questi giudizi, oltre alle sue varie comparse televisive, hanno fortemente influenzato l’opinione pubblica, che pur ricordandolo come un grande artista, non ha mai smesso di avere “timore” di lui. Un giudizio che era influenzato, come lo è ancora oggi, dal prototipo di uomo che passava sul piccolo schermo – l’intrattenitore sempre felice, con la battuta pronta, bonario, con la maschera sempre indosso, disposto a spergiurare pur di divertire e soddisfare il pubblico, giudice supremo e detentore di precisi schemi sociali, che prevedevano la costante neutralità nei confronti del mondo e della politica, onde evitare di offendere uno o l’altro schieramento, in una continua lotta ai consensi.
Del suo modo di comportarsi in pubblico e in privato, si è detto di tutto, il più delle volte, in senso dispregiativo, ma Fantozzi è solamente una maschera, e la dicotomia tra l’attore, interprete di Fantozzi, e l’uomo, Paolo Villaggio, si innesca dal momento in cui si erge a modello il servilismo fantozziano, dimostrando, con ciò, di non aver colto la lezione insita nei suoi stessi film, e di aver riso, con ciò, a una ancor più tragicomica caricatura del proprio riflesso.
In netta opposizione con i suoi personaggi, Villaggio era una persona estremamente lucida, un intellettuale la cui capacità d’analisi confondeva l’utente medio dei suoi film. Quando parlava delle cose che realmente lo interessavano, come la sua “mania giovanile” per Hemingway, la sua passione per autori come Kafka, Borges e Musil, improvvisamente la simpatica macchietta che interpretava, l’impiegato Fantozzi, l’uomo del popolino che nessuno vuole o sa di essere, l’ultima ruota del carro di cui ridere, diventava la cosa più vicina al Megadirettore Galattico e alla sua schiera di intellettuali, facendogli guadagnare le antipatie dei suoi stessi fan. Villaggio non si piegava a quell’immagine caricaturale dell’italiano medio, sottomesso agli obblighi sociali delle vacanze aziendali, o dello scambio di doni natalizi; si rifiutava di frequentare persone che riteneva poco stimolanti, e si dedicava invece ai propri interessi: è una persona fortemente egoista, come tutti, ma che consapevole del proprio egoismo non recita una farsa per nasconderlo. Non si tratta di cattiveria, o di essere “stronzi”, ma di vivere in virtù delle proprie scelte, rifiutandosi di accettare i dettami di una società malata, come quella rappresentata dall’Italia degli anni Settanta, “imbastardita” da anni di servilismo e insensata retorica moralista post-fascista, tutt’ora viva sotto diversi aspetti.
La “nevrosi” di cui era solito parlare durante le interviste è proprio questa: l’incapacità di un intero popolo di svegliarsi dal torpore di una società standardizzata, i cui legami sociali sono retti da un filo sottile di bugie, falsi sorrisi e non detti. Villaggio era prima di tutto un uomo a cui non interessava nulla del giudizio degli altri, men che meno del popolo italiano. Negli ultimi anni poi le sue interviste televisive si erano ridotte, come spesso accade, a un tentativo retorico di mitizzare, da parte dell’intervistatore di turno, l’artista ormai anziano. Troppo vecchio per essere considerato realmente cattivo, veniva guardato con quello sguardo bonario che si rivolge a chi si considera ormai innocuo. Invece, Paolo Villaggio ha avuto fino alla fine quel piglio geniale, di satira travolgente, il cui scopo era quello di risvegliare gli animi del popolo.