“La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case”. Queste parole rappresentano uno dei più importanti incipit nella storia contemporanea della letteratura italiana. Le scrisse Carlo Levi – medico, pittore, intellettuale antifascista nato a Torino nel 1902 – per descrivere la Roma malata negli immediati giorni del dopoguerra. Finzione e realtà si mescolavano per restituire il clima politico di una crisi di governo, quella dell’esecutivo presieduto da Ferruccio Parri, il primo formatosi in Italia dopo il 25 aprile del 1945.
Su questa immagine enfatica della città eterna Levi andò poi a costruire tutta la narrazione de L’Orologio, la sua seconda opera dopo il famoso Cristo si è fermato a Eboli, del 1945. Pubblicato per la prima volta nel 1950 da Einaudi, L’Orologio è un libro che permette ai lettori e alle lettrici di oggi e di domani di entrare in contatto attraverso la narrativa con le dinamiche legate alla ricostruzione di un Paese in ginocchio. L’incipit di Levi potrebbe infatti descrivere in maniera ancora efficace l’attuale atmosfera sociale e politica della capitale e forse dell’Italia intera.
L’opera rappresenta un’atipica e formidabile forma di romanzo-saggio che racconta gli ultimi giorni del cosiddetto “governo della Resistenza”. Un esecutivo formato da Democrazia cristiana, Partito comunista, Partito socialista, Partito d’Azione (l’organizzazione in cui Levi militava), Partito liberale e Partito democratico del lavoro – che, una volta capitolato, avrebbe lasciato spazio a un lungo, rigido ed egemone centrismo democristiano rafforzato geo-politicamente dalle dinamiche della guerra fredda. In una prospettiva strettamente politica, come ricordava lo scrittore Alessandro Leogrande su Lo Straniero nel novembre del 2013, “il governo cadde con il beneplacito degli stessi De Gasperi e Togliatti”, segretari della Dc e del Pci con incarichi, rispettivamente, di ministro degli Esteri e ministro della Giustizia. Decisiva, quindi, fu la “questione dell’epurazione della macchina dello Stato, del Palazzo, da coloro i quali erano stati collusi con il regime fascista”. “Il Partito d’Azione”, concludeva Leogrande, “avrebbe voluto un’epurazione non punitiva o moralistica, ma che segnasse una cesura netta con il ventennio, e che non fosse rivolta solo al ceto politico […], ma anche alle università, i giornali, la radio, l’economia, le banche, i ministeri, le vere oligarchie che avrebbero voluto continuare a guidare il paese”.
Nelle pagine del romanzo impariamo a conoscere poi la classe politica che ha partecipato alla Resistenza e alla ricostruzione repubblicana. I personaggi che lo animano, seppur battezzati su carta con nomi di fantasia, sono corporei e concreti nella loro dimensione biografico-politica e per questo riconoscibili. Insieme al “Presidente” che è Ferruccio Parri, al centro della scena ci sono i dirigenti azionisti: “Carmine” è Manlio Rossi-Doria, “Roselli” e “Fede” sono Altiero Spinelli e Vittorio Foa, “Andrea” – che in alcuni momenti porta avanti la visione dell’autore – è Leo Valiani. E da questo elemento emerge l’altra caratteristica del romanzo. Le sue pagine rappresentano infatti in chiave letteraria un’originale forma di racconto del Partito d’Azione, perché provano a interpretare la sua breve ma intensa parabola politica, un’esperienza frutto dell’incontro del movimento di Giustizia e libertà con forze di orientamento liberalsocialista e repubblicano. Nascendo nel 1942 per spegnersi poi nel 1947, la vita del partito coinciderà sostanzialmente con il vento della Resistenza che soffiava nel Paese, scontando probabilmente l’incapacità di far presa sui cosiddetti ceti medi nel cuore del Novecento, il secolo delle masse. Ma la sua grande ricchezza ideale e progettuale – che nella guerra di Liberazione avrebbe toccato il suo momento più alto grazie ai suoi dirigenti: raffinati intellettuali e coraggiosi combattenti a un tempo – avrà la forza di diventare patrimonio della cultura politica italiana per gran parte del Ventesimo secolo.
In questo testo si riscopre un Levi diverso e meno conosciuto da quello di Cristo si è fermato a Eboli, un intellettuale politico che, dopo essersi misurato con la repressione fascista, da giornalista e militante – in quei giorni dirigeva peraltro L’Italia Libera, quotidiano del Partito d’Azione – aguzza il suo sguardo “urbano” per leggere in presa diretta le dinamiche sociali e politiche dell’immediato secondo dopoguerra, prima della nascita della Repubblica e dell’entrata in vigore della Costituzione. Se Cristo si è fermato a Eboli era ambientato nel contesto meridionale di un’Italia misteriosa e straniera (nel quadro politico del regime totalitario di Mussolini e nell’esperienza da confinato ostile al fascismo che forgerà il Levi scrittore e meridionalista), con L’Orologio siamo infatti nella Roma del 1945, in quel contesto raccontato magistralmente dal cinema neorealista. La capitale era il cuore di un’Italia che desiderava un riscatto morale dopo le tragedie della guerra e rappresentava il centro di una comunità immaginata che cercava il proprio futuro mentre la vita ricominciava poco a poco. Come sottolineato da Goffredo Fofi, L’Orologio è “un libro del dopoguerra”, “un libro di rinascita e di speranza” in cui “viene fuori anche tutta la tristezza e la cupezza di una visione barocca dell’Italia, un’Italia in cui si ha più il senso della continuità Risorgimento-fascismo-democrazia, che non quello della discontinuità, del fascismo come parentesi”.
La metafora su cui – in continuità con quanto espresso in Cristo si è fermato a Eboli – fa perno la riflessione politica del romanzo è quella di un Paese incrinato e sospeso dalla divisione fra “contadini” e “luigini”. Una visione del mondo italiano che riesce ad avere una sua paradossale attualità ancora oggi, alla luce della liquefazione dei partiti di massa, dell’abbandono della lotta di classe, delle crescenti disuguaglianze economico-sociali e, soprattutto, dell’incapacità delle classi cosiddette dirigenti di farsi carico della rappresentanza del mondo del lavoro e delle classi subalterne. Se “contadini” – ispirati dalla figura del poeta-politico lucano Rocco Scotellaro – sono infatti “tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano”, dice Andrea, i “luigini” – dal personaggio di don Luigi, podestà fascista descritto nel Cristo si è fermato a Eboli – finiscono per essere “gli altri”, “la grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia”.
E se i “luigini hanno il numero, hanno lo Stato, la Chiesa, i Partiti, il linguaggio politico, l’esercito, la Giustizia e le parole”, ai contadini non spetta “niente di tutto questo”, con il dramma ulteriore di non sapere “neppure di esistere”. Un problema di rappresentanza, insomma, e di visione del futuro, fra chi crede in un benessere diffuso e chi sostiene politiche conservatrici e autoritarie; tra chi auspica inclusione e allargamento dei diritti e chi si batte per la staticità e l’esclusione; tra chi crede nel conflitto come motore del progresso e chi celebra la pace nel cuore di una democrazia desertificata. Se i “luigini” rappresentano a pieno titolo un universo – simultaneamente borghese e piccolo-borghese – fatto di autorità locali e burocrati indistintamente squallidi e meschini, votati all’opportunismo, al doppiogiochismo, al trasformismo, all’eterno presente, i “contadini” – al di là della classe sociale di appartenenza – incarnano chi vive in forma costruttiva, con aspirazioni comunitarie ed egualitarie, il proprio tempo e la propria dimensione storica con uno sguardo rivolto ai giorni che verranno, per sé e le generazioni future.
I passi in cui Levi fa parlare Andrea sono tormentati e carichi di delusione: “Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al governo, e poi di non esserne cacciati”. Lette con gli occhi del presente, queste parole sembrano descrivere i sentimenti largamente condivisi. Nella recente storia politica italiana, mentre il quadro politico progressivamente si spostava verso destra, più volte è stata utilizzata durante le campagne elettorali la categoria “impolitica” e opaca di “voto utile”. Una strategia che considerava fruttuoso ed adeguato la preferenza data alle forze politiche in predicato di vittoria e non al partito/coalizione più vicino all’elettore per cultura, sensibilità, istanze ideali e materiali, ma che ha portato a una disfatta politico-culturale.
Un altro punto de L’Orologio su cui vale la pena riflettere è quello in cui Ferruccio Parri – il glorioso comandante partigiano dal nome di battaglia di “Maurizio” amaramente fotografato come “un crisantemo sopra un letamaio” – convoca una conferenza stampa per parlare al Paese nelle vesti di capo di un governo agonizzante. “Lo guardavo diritto in mezzo ai due compagni di destra e di sinistra, dai visi fin troppo umani, accorti, avidi di cose presenti, e mi pareva che egli fosse impastato della materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, dei fucilati, degli impiccati, dei torturati con le lacrime e i freddi sudori dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani, nelle città e nelle montagne”, si legge nel romanzo. Levi carica sulla sagoma di Parri il peso ideale e materiale della Resistenza. Siamo a pochi mesi dal 1945, la Repubblica e la Costituzione devono ancora vedere la luce e le azioni dei partigiani sembrano perdere già di senso di fronte al rischio della caduta del governo. Nonostante l’amarezza di Levi, però, solo dieci anni dopo, le sue stesse parole sembrano rivivere con un senso rigenerato. È il 26 gennaio del 1955, quando a Milano, nel Salone degli affreschi della Società Umanitaria, il giurista Piero Calamandrei, rivolgendosi a studenti universitari e medi dirà: “Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. […] Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione”.
La sofferenza e la disillusione di Levi nel corso del romanzo si mescolano allo stesso modo a uno sguardo sereno e fiducioso verso il futuro. Quello che Levi offre è un nuovo affresco sulla dimensione quotidiana del secondo dopoguerra, l’affermarsi di un tempo che secondo le sue parole potremmo definire “contadino”, perché – in continuità con le scelte partigiane della Resistenza – impegna gli uomini e le donne di buona volontà a scegliere da che parte stare, a cosa dedicare il proprio tempo e le proprie risorse. “Guardate le facce delle persone, i loro gesti, la loro attività […], non hanno perso quello che avevano trovato allora, e forse non lo perderanno per molto tempo. Sono vivi, attivi, tirano su muri diroccati, si sposano, fanno all’amore, cercano tutti i modi possibili, senza pigrizia e senza lamenti, di guadagnare la vita, di migliorarla e, con una incredibile rapidità, si sono dimenticati della guerra, della paura, del sangue, della servitù, del moralismo, della falsa santità, degli stati e delle leggi, e di tutte le menzogne e le atrocità degli anni passati”.
Questa immagine si concretizzerà nel referendum sulla forma istituzionale dello Stato del 2 giugno 1946, quando, chiusa l’esperienza della dittatura fascista, una straordinaria partecipazione alle urne – l’affluenza ai seggi registrò l’89,08%, 28 milioni erano i cittadini e le cittadine con diritto di voto – portò alla nascita della Repubblica e alla elezione di un’Assemblea costituente che avrebbe scritto la carta costituzionale. Numeri sulla partecipazione al voto che risuonano mestamente rispetto alle previsioni di voto del prossimo 25 settembre in cui l’astensionismo è stato stimato intorno al 33% (dati Ipsos), una percentuale che rappresenterebbe il record nella storia dell’Italia repubblicana e un aumento “di oltre 6% rispetto al dato delle elezioni del 2018, quando l’affluenza fu pari al 72,9%”.
L’Orologio è un classico che, come tutte le opere rappresentative di un’epoca, ha ancora la capacità di parlare al presente e al futuro, alla luce di un’attualità politica che vede l’Italia prepararsi al primo voto autunnale della sua storia repubblicana, nel pieno di una crisi multiforme e per di più alla vigilia del centenario della marcia su Roma. Il complesso pensiero che lo attraversa non smette di interrogarci, soprattutto laddove ci si interroga sulla qualità della classe dirigente del Paese e laddove si conducono battaglie politico-culturali in cui i valori legati alla cultura fascista riaffiorano pericolosamente in forze politiche non legate storicamente al patto costituzionale maturato grazie alla Resistenza. I rischi del risultato delle urne del 25 settembre prossimo non sono forse quelli di un ritorno a un regime totalitario come quello che l’Italia ha conosciuto in passato – e per questo storicamente irripetibile – quanto il trionfo di forze che in Parlamento potranno, numericamente, modificare la Carta costituzionale secondo “valori” – come dichiarato dallo storico Giovanni De Luna – “antitetici a quelli della religione civile degli italiani nata con la Costituente”. In caso di vittoria, il 28 ottobre 2022 sarà un appuntamento di portata storica per capire in che modo l’Italia si relazionerà con la sua espressione politica più tragica: il fascismo, quel movimento politico che Piero Gobetti considerava “autobiografia della nazione”.