È il 1955. Un operaio in vespa è fermo al semaforo, quando gli si affianca una berlina. Il finestrino si abbassa e l’uomo all’interno esclama, tra l’ironico e lo stizzito: “Ah! Si trattano bene, i miei dipendenti!”. È Giangiacomo Feltrinelli.
Quindici anni più tardi, esplode la bomba di piazza Fontana. L’attentato cambierà l’atteggiamento di ogni italiano verso l’attualità. Mentre la popolazione moderata discute e litiga con chi ha idee diverse, gli estremisti di sinistra in eskimo e quelli di destra in loden aumentano di numero e intensità, oramai certi che l’Italia sia in bilico tra la rivoluzione comunista e una dittatura di estrema destra. Il 12 dicembre 1970, al primo anniversario di piazza Fontana, durante gli scontri tra anarchici e forze di polizia muore uno studente in legge, Saverio Saltarelli, di 23 anni. Il questore Bonanno dichiara che “l’ha ucciso un infarto”, affermazione tecnicamente non sbagliata, ma incompleta: un lacrimogeno sparato ad altezza uomo lo aveva preso in pieno petto, spaccandogli il cuore. La disastrosa dichiarazione viene subito ripresa da giornali e studenti del Movimento studentesco, i quali dicono che la polizia “li uccide e mente”.
Giornalisti, opinionisti, scrittori e intellettuali spesso non hanno a disposizione la verità dei fatti, e coltivano posizioni alimentate da mere supposizioni, illazioni, allusioni che portano l’opinione pubblica al parossismo. La paranoia si diffonde tra la popolazione come un virus in un miscuglio di notizie tendenziose, congetture e mitomania. È difficile per l’Italia di oggi riuscire a immaginare l’atmosfera di profonda agitazione che si respirava nelle strade, in cui il padre non si fidava del figlio, in cui chiunque poteva essere un traditore, un infiltrato, un terrorista o un assassino. Si parla di “agibilità politica”, ovvero quartieri rossi e quartieri neri dove girare è pericoloso; basta un capo d’abbigliamento per essere etichettati. È in questo periodo che ogni dettaglio assume un’identità politica. Le camicie a righe sono di destra, quelle a quadri di sinistra. Lo sport, la musica, il cinema, le commedie, le scarpe, il cibo, l’arredamento, la pettinatura, come poi cantò Gaber nel 1994.
Il 15 marzo 1972 Battisti e Mina duettano in TV, la gente esce dai cinema dopo aver visto il film sulla morte di Enrico Mattei; dai giornali alla televisione, dal cinema al teatro, è un fiorire di teorie complottiste, organizzazioni occulte paramilitari, manovratori oscuri e uomini nell’ombra. A Segrate, alle 15.30, Luigi Stringhetti sta portando il suo cagnolino Twist a fare i bisogni vicino al traliccio n°71 dell’Enel quando nota il cadavere dilaniato di un uomo sulla quarantina. Avvisa i Carabinieri che una volta sul posto trovano sul traliccio 43 candelotti di dinamite inesplosi e i resti di un congegno a tempo. Poco distante c’è un furgone adibito a camper la cui assicurazione è intestata al professor Carlo Fioroni, mentre addosso al corpo trovano fotografie di una donna e due bambini, una carta d’identità intestata a tale Vincenzo Maggioni e tre mazzi di chiavi. La mattina dopo il Corriere della Sera pubblica una fotografia dell’uomo e molti telefonano a giornali e questura. Altro che Vicenzo Maggioni: il corpo su quel prato è di Giangiacomo “Giangi” Feltrinelli, di cui non si avevano più notizie da mesi.
La storia del patrimonio della famiglia Feltrinelli parte da molto lontano. Giangiacomo era nato nel giugno del 1926 ed era cresciuto con sua sorella minore, Antonella, circondato dal lusso e dalla solitudine. Perde il padre nel 1935, a 9 anni, ed è uno studente mediocre che a 14 anni, quando la madre si risposa, diventa aggressivo e ribelle. Con l’avvento del fascismo, simpatizza inizialmente con il regime e si racconta tappezzasse la casa di poster inneggianti all’immancabile vittoria dell’asse. A diciotto anni si allontana dalle precedenti posizioni e sposa la causa antifascista, arruolandosi nel Gruppo di combattimento Legnano, uno dei nuclei partigiani del (ricostruito) regio esercito che affiancava la V Armata americana: il suo nome di battaglia è Osvaldo. Liberata l’Italia torna a Milano e milita nel partito socialista, che però ha idee troppo pacate per i suoi gusti, quindi passa quasi subito nel Pci. Quando Togliatti blocca l’insurrezione comunista nel 1946, parlando dall’ospedale dopo l’attentato, Feltrinelli ci rimane molto male e abbandona anche loro. Nel 1950 fonda l’istituto Feltrinelli per la storia del movimento operaio e nel 1955 inizia a pubblicare con la sua casa editrice. È lui a pubblicare capolavori come Il Gattopardo di Tomasi da Lampedusa o Il dottor Zivago di Boris Pasternak. La storia che accompagna la pubblicazione di quest’ultimo romanzo racconta molto di Giangiacomo Feltrinelli, e vale la pena raccontarla.
Nel 1956 Sergio D’Angelo che lavora nell’Unione sovietica per Radio Mosca viene a sapere che è imminente l’uscita di un romanzo di Pasternak. Lo va a trovare nella sua dacia a Peredelkino e lo convince a cedergli una copia da pubblicare in Italia con Feltrinelli, mentre in Urss sarebbe uscita con l’editrice Goslitidzat. Pasternak sa di compiere un gesto inaccettabile agli occhi del Partito, ma è anche consapevole che senza Feltrinelli, del dottor Zivago rimarrebbe poco. Consegna a D’Angelo la copia e gli dice “fin d’ora voi siete invitati alla mia fucilazione”. D’Angelo arriva in Italia e la censura sovietica scrive subito a Feltrinelli di posticipare la pubblicazione al 1957, e lui acconsente. Nel frattempo in Urss chiedono – o meglio, costringono – Pasternak a tagliare, rivedere e censurare interi capitoli del romanzo, perché troppo polemici sulla dittatura comunista. Pasternak ha poca scelta, dato che il Partito tiene sua moglie Olga Ivinskaja in Gulag, dove viene torturata e interrogata di continuo. Il primo arresto di Olga è nel 1949, e da allora non fanno altro che lasciarla uscire e arrestarla di nuovo, causandole anche un aborto. Alla fine il romanzo viene ridotto a un pamphlet di poche pagine e Pasternak viene costretto a firmare un telegramma in cui chiede a Feltrinelli la restituzione del manoscritto, ma di nascosto gli scrive una lettera in francese: “La ringrazio del libro che pubblicherà e la prego di non accettare nulla di ciò che verrà fatto per impedirglielo. Non tenga neppure conto di messaggi da me firmati se non saranno, come questo, scritti in francese”.
Con prodromi come questi, il libro è un bestseller molto prima di essere distribuito, e Feltrinelli lo sa. Quando esce vende sette milioni di copie e vale il premio Nobel all’autore, ma Pasternak muore nel ’60 senza aver mai potuto ritirare né i soldi né il premio. Sua moglie prova ad averli da Feltrinelli e Valerio Riva, suo collaboratore, racconta della telefonata tra lui e Olga. Lei chiedeva i soldi che le spettavano, lui opponeva rifiuti di ogni genere finché alla fine sbottò: “Ma è possibile che tu m’infastidisca per un po’ di vile denaro, tu che hai la fortuna di vivere in una società socialista mentre io sono qui a soffrire sotto il giogo capitalista?”. Olga finirà condannata ai lavori forzati in Siberia, dove morirà.
Nel 1969 Feltrinelli riedita il libro del 1965 di Edouard-Marcel Sumbo Il sangue dei leoni, un manuale militare che illustra tecniche di guerriglia e sabotaggio che le BR considereranno un testo basilare. È certo che in Italia stia per avvenire un’occupazione militare e sogna l’azione. Frequenta Fidel Castro e stringe amicizia con tutti gli intellettuali più radicali mentre i suoi operai non lo prendono sul serio. Fonda, dirige e scrive la rivista mensile Voce comunista da cui ipotizza la formazione di un esercito internazionale del proletariato, sogna di trasformare la Sardegna in una nuova Cuba e altre idee a dir poco visionarie.
Nel frattempo nascono i Gap (Gruppi di Azione Partigiana), le cui azioni si limitano a dare fuoco alla sede del partito socialista e l’ambasciata statunitense a Genova. Tutto cambia quando nel 1971, nel consolato boliviano ad Amburgo, una pistola registrata a nome di Feltrinelli uccide Roberto Quintanilla, capo della polizia segreta. Tira una brutta aria e Giangiacomo si rifugia nei suoi possedimenti in Carinzia da cui scrive lettere di fuoco contro tutto e tutti. Rientra in Italia il 7 marzo su un treno da Oberhof via Ponte Chiasso, mescolato a un gruppo di pendolari. Una volta arrivato in Italia incontra Ernesto “Gunther” Grassi, operaio in una fabbrica di Bruzzano ed ex partigiano in Valtellina, e insieme raggiungono una sede di brigatisti, non si sa quale: le chiavi che ha addosso aprono via Boiardo (sede prediletta dei terroristi Curcio e Moretti), via Delfico e via Subiaco, in cui gli inquirenti trovano dell’esplosivo Nitrogel2. Lì costruisce il timer modificando un orologio Lucerne, lo stesso usato nel fallito attentato all’ambasciata statunitense ad Atene il 2 settembre 1970 da parte del Superclan di Corrado Simioni, poi, a bordo del furgone intestato al futuro primo pentito delle BR raggiunge il traliccio di Segrate, mentre Gunther dovrebbe occuparsi di quello di Gaggiano. Lo scopo è togliere l’elettricità a Milano e impedire il congresso del Pci al Palalido, che avrebbe visto l’elezione a segretario di Enrico Berlinguer.
Sale in cima con l’orologio Lucerne collegato a una carica di Dynamon – un esplosivo austriaco – compresa tra i 500 e i 1000 grammi, poi esplode. Alla fatalità del decesso, però, non crede nessuno. Il funerale è blindatissimo. Le Brigate Rosse fanno un’inchiesta interna e lo catalogano come incidente. In una sede viene rinvenuto un nastro magnetico con la voce di Ernesto Grassi durante l’inchiesta: “All’inizio Osvaldo ha i candelotti di dinamite in mezzo alle gambe. Si trova impacciato nella posizione, impreca. Sposta i candelotti, probabilmente sotto la gamba sinistra, e seduto con i candelotti sotto la gamba, in modo da tenerli fermi, sembra che prepari l’innesco, cioè il congegno di scoppio. È in questo momento che quello a mezz’aria sul traliccio sente uno scoppio fortissimo. Guarda verso l’alto e non vede nulla. Guarda verso il basso e vede Osvaldo a terra, rotolante. La sua impressione immediata è che abbia perso entrambe le gambe. Va da lui immediatamente e gli dice: ‘Osvaldo, Osvaldo’ Non c’è… è scoppiato…”.
Nell’estate del 2004, il dottor Danilo Coppe, geominerario esplosivista esperto in blasting engineering, laureato in scienze criminologiche e perito di molte procure italiane, in collaborazione con l’Istituto ricerche esplosivistiche ha studiato il fascicolo processuale di Giangiacomo Feltrinelli. Per assicurarsi dell’esito finale ha effettuato una serie di prove sperimentali per determinare la quantità di esplosivo e non ha dubbi sull’esito: Feltrinelli ha fatto un errore dovuto a ignoranza e inesperienza. Come esplosivo aveva a disposizione anche il Nitrogel2 che sull’acciaio ha una resa maggiore, ma aveva preferito il Dynamon; poteva costruire il timer in maniera assai più semplice ed efficace, ma aveva scelto un metodo artigianale e farraginoso perché basato sui mezzi obsoleti dei partigiani di trent’anni prima.
Tutto questo, però, in un’atmosfera paranoide non ha importanza. Per dirla con Edward Louis Bernays: “Il ragionamento non trova spazio nella mentalità collettiva che è guidata dall’impulso, dall’abitudine o dall’emozione”. Giangiacomo Feltrinelli diventa uno di quegli omicidi risolti in un modo dagli inquirenti, e in un altro dalla stampa. La popolazione italiana trova un altro motivo per sentirsi minacciata da un’entità occulta, assassina e schizofrenica che un morto dopo l’altro sta per colpire l’intera comunità. E si affretta a correre ai ripari.