Alle medie sono stato vittima di bullismo – come tanti. Non si è mai trattato di violenza fisica, quanto di sottomissione psicologica e prese per il culo. Mai una mano alzata. Forse per questo, agli occhi degli adulti, non erano altro che “ragazzate”. Da vittima avrei potuto difendermi, rispondere con altrettanta violenza, ma ho preferito la strada dell’indifferenza, scambiata per disponibilità. Da testimoni, gli altri avrebbero potuto intervenire schierandosi, fosse per fomentare o per interrompere la violenza, eppure nessuno lo ha mai fatto. Nemmeno io so se l’avrei fatto.
Nel nostro immaginario fatto di fumetti, film e serie tv, l’unione spesso fa la forza, ma ogni eroe, anche quando è affiancato dai più validi aiutanti, prima della vittoria finale viene messo alla prova – a volte fino in punto di morte – dal villain, il cattivo. Gli eroi escono vincitori dalla battaglia, ma al costo di aver perso qualcosa di importante o, almeno, di aver rimediato un occhio nero. Nella vita reale, però, pochi sono disposti a subire in difesa di qualcun altro.
Oggi, il bullismo e le nuove forme di violenza virtuale, come il cyber-bullismo e il ghosting, sono temi all’ordine del giorno. La spettacolarizzazione e l’estetizzazione della violenza perpetrate dai media hanno contribuito alla nascita di tre fenomeni che poco hanno a che fare con la sensibilizzazione sul tema.
Il primo riguarda la nascita di una vera e propria industria del divertimento legata al crimine. Lo dimostra il moltiplicarsi dei canali TV dedicati. Le crime stories ci affascinano perché hanno un linguaggio universale, una lunga storia – nata con i racconti di Edgar Allan Poe, poi diffusa con Arthur Conan Doyle fino ad arrivare a George Simenon e Andrea Camilleri – e un’adattabilità geografica che non è propria di tutti i generi. Ciò che può fa ridere in Spagna può non far ridere in Francia, ma le categorie di bene e male sono uguali dappertutto.
Il secondo ha a che vedere con i confini sempre più indefiniti che la violenza ha assunto per ognuno. Se ogni atto che ci riguarda direttamente, anche il più piccolo – un commento negativo, uno sberleffo o semplice sarcasmo – ci fa infuriare, e viene utilizzato come giustificazione per rispondere con altrettanta o maggiore violenza, nel caso di quella subita da altri, il nostro limite si fa immediatamente molto più ampio. Violenza verbale e psicologica, cyber-bullismo e tutte quelle tipologie che non passano per il corpo, diventano minoritarie. Condanniamo solo il sangue e i lividi, le bombe.
Il terzo fenomeno è il carico emotivo che assimiliamo da ogni evento violento, che a volte si riflette non nell’empatia nei confronti della vittima, ma in una disperata ricerca del colpevole da punire. Nel suo ultimo saggio, Punir. Une passion contemporaine, Didier Fassin, antropologo e sociologo francese, spiega come negli ultimi decenni abbiamo assistito un diffuso populismo penale: il bisogno costante di capri espiatori, l’odio come base dell’ordine e più in generale una politica di tolleranza zero. Non c’è più differenza tra lo spirito di giustizia e quello di pubblica vendetta. Si punisce per infliggere sofferenza all’autore del crimine, non per restituire il torto subito alla vittima.
Sul perché l’essere umano sia violento non esistono risposte certe, ma sono state avanzate alcune teorie. C’è chi crede che siamo biologicamente destinati alla violenza. Chi pensa che la impariamo da altri. Chi dà la colpa alle dinamiche di gruppo, chi alla solitudine.
Nel 1997, Richard Wrangham, antropologo dell’Università di Harvard, pubblicò insieme allo scrittore Dale Peterson, il libro Demonic Males: Apes and the Origins of Human Violence, in cui proponeva l’idea che l’essere umano, in particolare il maschio, fosse il risultato di una tendenza millenaria all’aggressione letale, generatrice di molteplici vantaggi. Studiando gli scimpanzé, l’animale più vicino all’uomo e discendente dallo stesso antenato, era evidente come, attaccando una scimmia appartenente a un altro gruppo, l’assalitore aumentasse il proprio dominio sul territorio altrui. Il primate otteneva così accesso a maggior quantità di cibo e di femmine, era in grado di riprodursi più facilmente e garantire la sopravvivenza della propria specie.
Guardando al regno animale, solo poche specie sono violente come l’essere umano. Sono molti animali diventano aggressivi per difendere il proprio cibo, il nido o la compagna, ma lo fanno per sopravvivere: non attaccano mai, al contrario dell’uomo e degli scimpanzé, al solo fine di danneggiare o uccidere l’altro. A supporto della causale evolutiva, nel 2013 David R. Carrier, docente di Biologia all’Università dello Utah, pubblicò i risultati di uno studio in cui sosteneva come la capacità di formare un pugno con la mano – non essendo un’abilità riscontrabile nei primati – fosse un risultato evolutivo finalizzato a rendere i nostri arti vere e proprie armi di difesa.
L’evidenza che violenza e guerra non sono presenti in ogni società suggerisce però che i comportamenti di questo tipo non siano innati, ma scaturiscano piuttosto in certe culture e per determinate circostanze. Douglas Fry, docente di Antropologia all’Università dell’Alabama a Birmingham, ha esaminato prove archeologiche e contemporanee e, nel libro Keeping the Peace: Conflict Resolution and Peaceful Societies Around the World, ha documentato come più di 70 comunità vivano pacificamente, dai Martu australiani che nel proprio vocabolario non hanno parole come “faida” o “guerra”, ai Semai della Malesia, che fuggono nelle foreste quando si trovano a dover affrontare un conflitto. Fry sostiene inoltre che non ci siano evidenze archeologiche in grado di provare l’esistenza di conflitti nel nostro passato remoto, e suggerisce che la guerra divenne comune solo dodicimila anni fa, quando emersero le società più grandi e sedentarie, minando la teoria della violenza come fattore evolutivo.
Se tutti abbiamo una possibile tendenza alla violenza, potremmo tuttavia esprimerla solo in determinate circostanze. I fattori culturali e le credenze d’ognuno giocano infatti un ruolo importantissimo. Non è difficile immaginare lo stesso gruppo di persone agire diversamente in due scenari opposti. Nel primo scenario è presente una struttura familiare stabile, mentre nel secondo questa viene a mancare, producendo un contesto più caotico e violento. Nonostante sia quasi impossibile e sicuramente poco etico da sperimentare concretamente, alcuni studi indicano un più alto tasso di crimini violenti prodotti da chi proviene dal secondo scenario. Un esempio fittizio, ma che ben si presta al caso, è la serie trasmessa da HBO nel 2017 Big Little Lies, il cui fulcro è il modo in cui i bambini assimilano la violenza domestica.
Nel mondo occidentale, poi, al contrario dell’Oriente in cui vige l’equilibrio dinamico e complementare degli opposti yin e yang, si è da sempre affermata una logica che riduce tutto a sole due opzioni: vincere o perdere, giusto o sbagliato, noi e loro.
La società contemporanea fa leva proprio sui concetti di “perdita” e “diverso” e, agendo soprattutto tramite il virtuale, ha innescato un’ondata di odio e violenza senza precedenti. Quello di cui ci sarebbe bisogno lo ha ben espresso la senatrice a vita Liliana Segre nel suo discorso al Senato: “[..] Aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno ha verso gli altri”. Un auspicio che potrebbe concretizzarsi con l’educazione alla gentilezza e con l’inserimento delle ore di educazione civica nelle scuole.
Nel suo discorso agli studenti della Syracuse University, edito in Italia da minimum fax con il titolo L’egoismo è inutile, George Saunders, scrittore e saggista americano, sottolinea come il rispetto e la compassione verso l’altro siano non solo questioni di civiltà, ma modi per trarre giovamento noi stessi da un’esistenza più umana e sincera. Secondo l’autore: “Ciascuno di noi viene al mondo con una serie di malintesi innati che quasi certamente hanno un’origine darwiniana. Mi riferisco a: 1) noi siamo il centro dell’universo (in altri termini, la nostra storia personale è la storia più importante e interessante al mondo. Anzi, in realtà è l’unica storia che conti); 2) noi siamo qualcosa di diverso e distinto dall’universo (sì, certo ci siamo noi e poi, laggiù, c’è tutto il resto, cani e altalene e lo Stato del Nebraska e le nuvole basse e, sì, è vero, anche tanta altra gente); e 3) noi siamo eterni (la morte esiste, sì, certo, ma riguarda te, non me).”
Educare alla gentilezza significa educare al dialogo rispettoso, all’accoglienza della diversità, proporre alternative all’egoismo e alla prevaricazione sull’altro, e favorire percorsi di soluzione non violenta ai contrasti e ai conflitti che avvengono nelle relazioni tra i singoli e tra i gruppi. Senza la capacità di essere gentili, tutte le altre abilità sociali sono destinate ad appassire nel tempo. Si può e si deve credere nel potere della gentilezza partendo dalla prima infanzia, non solo a scuola, ma anche in famiglia, lasciando agli adulti il dovere di curare l’affettività dei bambini, stimolandola dando l’esempio attraverso pratiche quotidiane.
L’educazione civica entrò per la prima volta nelle scuole nel 1958, quando Aldo Moro, allora Ministro della Pubblica Istruzione, lo inserì alle medie e superiori: due ore al mese obbligatorie. Dall’anno scolastico 2010/2011, dopo varie riforme, si è passati a un corso, affidato al docente di storia, che comprende cinque argomenti: educazione ambientale, stradale, sanitaria, alimentare e Costituzione italiana. Di fronte all’attuale imbarbarimento del vivere civile, dall’evasione fiscale alla corruzione, dal razzismo al rifiuto degli immigrati, dall’omofobia alla violenza contro le donne e al bullismo, si sente il bisogno di un vero e serio insegnamento di educazione civica, affidato a docenti specializzati, con una valutazione e un adeguato numero di ore alla settimana, e non di un corso che sia – come definito da Carmela Palumbo, Direttore generale per gli ordinamenti scolastici del MIUR – “una sorta di filo rosso che attraversa le discipline, un insegnamento rimesso a docenti di area letterario-umanistica.”