Durante la seconda guerra mondiale anche gli italiani si macchiarono di alcuni crimini contro l’umanità. All’apparenza sembrerebbe un assioma, la naturale conseguenza dei meccanismi bellici, ma in realtà, oltre agli orrori insiti nella natura stessa della guerra esiste una certa gratuità del male, nel nostro caso figlia di un ventennio fascista che ha imbastardito un Paese e il suo esercito, portandolo a vessare intere popolazioni in nome di un ideale: è accaduto durante il colonialismo in Africa, nella campagna in Jugoslavia e, con la stessa violenza, in Grecia.
I rapporti tra Italia e Grecia dopo la Prima guerra mondiale non erano dei migliori. Il pomo della discordia era l’Epiro settentrionale, lingua di terra al confine con l’Albania che venne occupata militarmente dagli italiani nel 1916. In questa regione greci e albanesi convivevano in bilico costante tra la tolleranza e il rischio di esplosione. Dopo decenni di simil guerra fredda, nel 1936 in Grecia arrivò al potere Ioannis Metaxas. Fervente sostenitore di Mussolini e del fascismo, istituì nel Paese un regime che prendeva spunto da quello italiano, uno Stato militarizzato che riprendeva il saluto romano, mandava al confino gli oppositori e controllava la stampa. Quando però Mussolini occupò l’Albania, nel 1939, Metaxas capì che il prossimo obiettivo strategico per l’Italia sarebbe stato proprio la Grecia.
Dopo un’iniziale dichiarazione di neutralità agli albori dello scoppio della guerra mondiale, Metaxas fu costretto a chiedere aiuto e ad allearsi con gli Alleati, ottenendo l’appoggio di Regno Unito e Francia. Come spiega Paolo Fonzi nel saggio Fame di guerra. L’occupazione italiana della Grecia (1941-43), i motivi che spinsero Mussolini ad attaccare la Grecia furono molteplici. In primis il Duce voleva annettere l’Epiro settentrionale all’Albania e creare una provincia italiana incorporando le isole Ionie. Poi voleva dimostrare ad alleati e avversari di avere il potere necessario per non farsi schiacciare, contrastando da un lato le mire espansionistiche francesi e britanniche nel Sud-Est europeo; e dall’altro l’avanzata dei nazisti, che metteva in secondo piano le operazioni del fascismo, ormai relegato ad anello debole dell’Asse. Quando dunque Hitler nell’ottobre del 1940 invase la Romania senza avvertirlo, Mussolini decise di replicare attaccando la Grecia.
Fu un fiasco. Senza una preparazione adeguata e potendo contare soltanto sulle truppe stanziate in Albania, l’ingresso dell’Italia nel territorio ellenico, il 28 ottobre del 1938, presentò enormi difficoltà. La presunzione di poter ottenere una vittoria rapida si scontrò con la realtà di un esercito impreparato, che subì la resistenza della compagine greca, coadiuvata dall’aviazione inglese e che rimase impantanato al freddo nelle trincee. Mussolini reagì ordinando di bombardare e radere al suolo tutte le città con più di 10mila abitanti, esclusa Atene: “Occorre che l’aviazione faccia quello che non possono fare gli altri. Bisogna disorganizzare la vita civile della Grecia, seminando il panico ovunque”. I bombardamenti arrivarono, interi paesi furono spazzati via, eppure l’esercito italiano non riusciva ancora a sfondare. L’esercito greco cadde soltanto nell’aprile del 1941 e non sotto i colpi di quello italiano, ma perché intervenne la Germania.
Per quanto possano essere dannose le battaglie iniziali, per un Paese sconfitto è sempre il periodo della successiva occupazione il più svilente, perché colpisce principalmente la sua identità e condanna alla fame i cittadini. Fu questo il primo crimine degli italiani: l’esercito razziò interi villaggi sottraendo cibo e viveri agli abitanti. Esasperati perché impossibilitati a sopravvivere, tra i greci nacquero i primi moti di ribellione contro gli invasori. Per evitare rappresaglie, il regime fascista firmò ordinanze che prevedevano arresti, fucilazioni e deportazione nei campi di concentramento per ribelli. Nikolaos Bavaris, al vertice della polizia di Elassona, scrisse una lettera indirizzata all’Italia e alla Croce Rossa internazionale: “Vi vantate di essere il Paese più civile d’Europa, ma crimini come questi sono commessi solo dai barbari”. Come risposta fu torturato e poi internato.
Come documentato negli scritti dello storico Angelo Del Boca, il regime fascista non intendeva soltanto occupare il territorio ellenico, ma voleva trasformarne i tratti identitari attraverso la stessa fascistizzazione attuata in Etiopia e in altri Stati africani durante il periodo del coloniale. Per farlo, era necessario portare il popolo alla miseria e controllarlo attraverso azioni di violenza che servissero d’esempio. Così partirono le operazioni di rastrellamento. Bisognava mantenere l’ordine per mezzo della repressione. I soldati italiani incendiarono interi villaggi e il destino dei civili veniva deciso sul momento in base alle loro caratteristiche: le donne venivano stuprate e poi reclutate nei bordelli per soddisfare gli ufficiali dell’esercito, gli uomini trovati con le armi venivano fucilati sul posto, gli altri, compresi i bambini, finivano nei campi di concentramento.
La Grecia giunse presto a una condizione di povertà insostenibile. Mancavano i viveri, l’occupazione italiana supportata dall’esercito nazista impediva al popolo di vivere dignitosamente. Fu inevitabile la nascita di alcuni gruppi di contestatori, i partigiani greci che tentarono di combattere contro i soprusi del fascismo. I loro tentativi di ribellione finirono però nel sangue. Nel febbraio del 1943, in Tessaglia, un gruppo di partigiani locali attaccò dei soldati italiani. Nove di essi persero la vita, e la reazione del regime fu inaudita. Nel villaggio di Domenikon, luogo dell’azione dei partigiani, l’intera popolazione maschile tra i 14 e gli 80 anni fu prelevata e portata via sui furgoni, pur non avendo colpe e non essendo partigiani, mentre l’intero villaggio fu distrutto. I loro destino era finire internati in un campo di concentramento, ma durante il tragitto giunsero degli ordini dall’alto: uccideteli tutti. Le 97 persone furono fatte scendere dal furgone nel pieno della notte e furono fucilate sul momento.
Non fu un caso isolato, gli eccidi avvennero anche in altre zone della Grecia con gli stessi metodi brutali, e sempre coinvolgendo i civili. La regola per mantenere l’ordine era semplice, e abbiamo la testimonianza di una circolare del generale Carlo Geloso che riporta: “Per annientare il movimento partigiano vanno annientate le comunità locali”. Alcune porzioni erano in mano a tedeschi e bulgari, ma la maggior parte del territorio greco era sotto il controllo dell’Italia, che quindi fu la principale responsabile di una politica che condannava principalmente i civili, come dimostrato dalle crisi vissute in quegli anni. La principale è collegata al crollo delle importazioni alimentari e della produzione agricola, che causò carestie e l’aumento di malattie tra la popolazione. Per comprendere la portata delle angherie ai danni del popolo greco, basta ricordare che più di metà delle morti registrate dalla Grecia durante la seconda guerra mondiale, cioè oltre 360mila, non avvennero nei campi di battaglia, ma furono causate da malnutrizione, eccessiva povertà e da tutte le altre conseguenze di un’oppressione che portò il popolo allo sfinimento.
Queste prove di forza erano in realtà un tentativo fallito di dimostrare di valere qualcosa di fronte alla potenza tedesca. Non soltanto gli italiani riuscirono a occupare la Grecia solo in seguito all’intervento dei nazisti, ma la persero immediatamente in seguito alla caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943. Le autorità del Reich disarmarono i soldati italiani in Grecia e gli oppositori furono deportati in Germania. Si arrivò a una situazione paradossale quando alcuni italiani combatterono contro i nazisti a fianco dei partigiani greci, gli stessi che fino a poco tempo prima avevano perseguitato. I partigiani greci però non si fidavano degli italiani ed escludendo qualche battaglia di convenienza contro il nemico comune si tennero alla larga da quelli che per anni erano stati i loro oppressori. Inoltre, una volta terminata la guerra, la Grecia denunciò alle autorità internazionali decine di ufficiali italiani che furono indicati come criminali di guerra. Come avvenne anche per altri crimini sotto il fascismo, i colpevoli furono in larga parte coperti. L’assenza di una Norimberga italiana è un peso tutt’ora inspiegabile.
Gli eventi in Grecia non fanno che sottolineare l’inesattezza dei luoghi comuni che in alcune parti d’Italia ancora circolano sui soldati fascisti “buoni e semplici”, cuori nobili in contrapposizione ai nazisti. Se non bastassero le tante testimonianze partigiane del nostro stesso Paese, etiopi, greci, libici e jugoslavi possono testimoniare il contrario, svelando ulteriormente le mostruosità di un regime che non ha soltanto danneggiato la propria nazione, ma ha travalicato i confini portando morte e distruzione in giro per il mondo. Dimenticarlo ci renderebbe complici del male in tutte le sue forme.