Nan Goldin ha il raro dono di saper ritrarre la disarmante bellezza dei vinti - THE VISION

Sopracciglia sottili, capelli rossi e ricci, inconfondibili, come quello sguardo. Penetrante, autentico, acuto. Uno sguardo che non ti risparmia, che ti spoglia, che sembra denunciare tutto il male del mondo, e insieme a esso la sua verità. È proprio su questo tema che si innesta il documentario di Laura Poitras – vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 2022, essendo peraltro l’unico documentario tra i 23 titoli in concorso – All the Beauty and the Bloodshed, tradotto in italiano con Tutta la bellezza e il dolore, anche se Bloodshed è un termine che identifica un dolore molto specifico, un vero e proprio spargimento di sangue, in primis quello delle vittime dell’epidemia degli oppioidi, che ormai da almeno un paio di decenni affligge gli Stati Uniti e contro cui Goldin – da sempre attivista oltre che fotografa – ha intrapreso una vera e propria crociata.

Il documentario, infatti, magistralmente montato, inizia proprio con un flash mob di manifestanti guidato da Goldin, all’interno dell’ala del Metropolitan Museum di New York intitolata agli Sackler, ormai ex proprietari dell’azienda farmaceutica Purdue, tra le principali responsabili della diffusione incontrollata e fatta attraverso una strategia di marketing martellante di farmaci oppioidi tra la popolazione statunitense, soprattutto tra le fasce più povere della popolazione e spesso tra i reduci di guerra, insieme a polizze assicurative a basso costo, con effetti devastanti. In particolare Goldin – a sua volta dipendente da oppioidi tra il 2014 e il 2016, in seguito a un intervento chirurgico a Berlino – ha lottato strenuamente per il riconoscimento della responsabilità degli Sackler e della Purdue delle morti di overdose da OxyContin (ossicodone), un antidolorifico ampiamente pubblicizzato, responsabile dell’epidemia degli oppioidi, che ha segnato gli Stati Uniti negli ultimi vent’anni e ha portato alla morte di almeno 500mila persone. Mentre ai Sackler, che si davano arie da mecenati per ripulire la propria reputazione, venivano intitolate sale nei musei più famosi del mondo, tra cui appunto il MET e il Louvre.

L’OxyContin, distribuito negli anni Novanta, è stato il primo farmaco di questo tipo, e dava così tanta dipendenza da costringere i malati – ormai drogati – a rifornirsi sul mercato nero o a sostituirlo con la più economica eroina, morendo poi di overdose da Fentanyl, con cui l’eroina viene tagliata. Dopo essere sopravvissuta a sua volta a un’overdose di Fentanyl – per dare un’idea della forza della dipendenza innescata da questo farmaco: Goldin era passata dall’assumere le tre pastiglie al giorno che le avevano prescritto a 18 – nel 2017 Goldin ha fondato il gruppo di difesa PAIN (Prescription Addiction Intervention Now) per fare pressione su musei e altre istituzioni artistiche affinché interrompessero le collaborazioni con la famiglia Sackler, una delle più influenti non solo degli Stati Uniti, ma del mondo. Una famiglia potente, spietata e potenzialmente molto pericolosa. Ma nonostante tutto Goldin è andata avanti, per fare ciò che era giusto fare, e in tanti, nonostante la paura, l’hanno seguita, per reclamare un ultimo barlume di giustizia. Una sentenza del primo settembre del 2021 ha sancito che i Sackler dovranno pagare un indennizzo da 4,5 miliardi di dollari per risarcire le vittime dell’OxyContin, anche se, pur perdendo l’azienda, la famiglia si è salvata attraverso un importante patteggiamento dalle accuse più gravi.  “Il mio più grande orgoglio è quello di aver messo in ginocchio una famiglia di miliardari in un mondo in cui i miliardari possono contare su una giustizia diversa da quella di persone come noi e la cui impunità è totale negli Stati Uniti,” ha dichiarato Goldin a Venezia.

La scoperta di Nan Goldin la devo a un amico, il primo che mi parlò della sua scelta in tempi tutt’altro che sospetti di seguire una dieta vegana e il primo che mi venne a trovare mentre ero in Erasmus a Porto. Con sé, in quell’occasione, mi portò una piccola monografia su quella che sarebbe diventata una delle mie fotografe preferite, e che avrebbe ispirato un lungo periodo della mia vita. Ma Goldin trascende tutte le etichette che le si possono dare, è molto più di una fotografa, ed è molto più di un’attivista, soprattutto oggi in cui per definirsi ed essere definiti tali perlopiù bastano caroselli impaginati bene su Instagram. Goldin è una persona che non teme di essere contaminata dai tanti mondi che popolano la nostra realtà. Sempre pronta a immergersi in dimensioni sconosciute, nascoste, escluse, allontanate, ripudiate dalla società perbenista, conforme, feroce, trovando il coraggio di dar voce e di lottare per quelle che a dir molto da tutti gli altri sarebbero state etichettate come cause perse, e che invece sono il senso profondo del nostro agire e della nostra vita.

Nevica, le chiome degli alberi si piegano sotto il peso dei fiocchi e del vento. Nan fuma. Appaiono dei frammenti di immagini proiettate. Volti, corpi, occhi, bocche, capelli, capezzoli, mani, seni. “È facile trasformare la propria vita in una storia,” dice Nan, “Il difficile è sopportare i veri ricordi. Qual è la differenza tra una storia e la memoria reale? L’esperienza ha un odore, è sporca […]. I ricordi sono ciò che mi affligge. Appaiono di continuo, anche se sono cose che non vorresti vedere. Sono dentro di te, parte del tuo stesso corpo”. Da qui, sulle note struggenti di “Casta diva” – l’aria della Norma di Vincenzo Bellini, famosa per essere stata una delle più grandi interpretazioni di un’altra figura tragica, Maria Callas – parte una carrellata di quello che è probabilmente il suo lavoro più noto The Ballad of Sexual Dependency (1983-2022), titolo tratto da una canzone di Kurt Weill dell’Opera da tre soldi di Bertold Brecht. Attraverso centinaia e centinaia di immagini scattate nel corso degli ultimi cinquant’anni, Goldin ha raccolto le sue relazioni affettive all’interno della comunità queer (soprattutto quella in cui ha vissuto nel quartiere newyorkese di Bowery), della controcultura giovanile dell’East Village di New York a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, sengnata dalla droga, della sottocultura gay post-Stonewall, della scena new wave, dando voce e valore all’istantanea personale della sua esperienza intima e quotidiana, come parte di una realtà potente e sommersa. Come spettatori rivediamo e attraversiamo insieme a lei questi ricordi impressi su pellicola. Donne giovani, vecchie, ragazze, corpi conformi, corpi queer, corpi difformi, corpi malati, corpi sani, nudi, travestiti, espressioni allegre, disperate, perse nel vuoto. Molte di queste persone sono morte da tempo, a causa dell’AIDS. Si sente, nelle pause, il rumore delle diapositive che scorrono.

Nata a Washington nel 1953 e cresciuta in una periferia claustrofobica e asfissiante, Goldin all’età di undici anni ha dovuto affrontare nel 1968 il suicidio di sua sorella Barbara, diciottene, a cui era molto legata, anche perché l’aveva sempre accudita quasi come fosse una madre. Nel primo capitolo del documentario, “Merciless Logic”, Nan racconta la sua storia, segnata come quella di tante altre persone dell’epoca – sia negli States che in Italia – da una cultura castrante e perbenista, fondata su una fortissima repressione sessuale, che terrorizzava chiunque non riuscisse o non fosse disposto ad adattarsi ai suoi assurdi e violenti dettami. A causa del suo atteggiamento anticonformista e la sua libertà sessuale, infatti, Barbara fu più volte fatta ricoverare dai genitori in un istituto psichiatrico. Finché non decise di togliersi la vita, suscitando come unica reazione nella sua famiglia la negazione del suo malessere e soprattutto delle proprie responsabilità, riconosciute chiaramente dalla piccola Nan, nel compiersi di quel gesto. E dalla storia tratteggiata dal documentario sembrerebbe proprio in questo disvelamento, nel riconoscimento del male nato dall’ingiustizia e dalla mancanza di pietà necessaria per comprendere l’altro, che Nan abbia attinto la forza per lottare strenuamente dalla parte dei più deboli, degli emarginati, degli svantaggiati, che sanno essere molto più buoni e giusti di coloro che la società premia – cosa che non dovrebbe stupire dato che la società attuale si fonda tuttora sulla disparità, il conformismo e la punizione.

Lo stesso titolo del film è stato tratto da un rapporto psichiatrico scoperto da Goldin decenni dopo la morte di sua sorella, in cui si leggeva “She sees the future and all the beauty and the bloodshed” (“Vede il futuro, e tutta la bellezza, e il dolore”). Una frase che per certi aspetti ricorda lo sguardo medico che si posava nello stesso periodo – nel 1967 – su Susanna Kaysen – autrice del memoir da cui fu tratto Ragazze interrotte – e che mostra quanto sia labile il confine tra normalità e alterità, tra salute e malattia, e soprattutto quanto chi è in grado di contenere nel suo orizzonte cognitivo tutto il bene e tutto il male dell’esistenza diventi pazzo, alla maniera di Orlando e quindi finisca o per compiere l’atto estremo di suicidarsi oppure sopravviva trasformandosi in una sorta di Cassandra, di veggente (ovvero “chi possiede l’uso della vista”), di sciamano, in bilico tra le emozioni e i pensieri umani e la potenza ustionante del vero, infinito, composito e assoluto, per molti insostenibile. Quando vedi ciò che è vero non ti ci puoi sottrarre, sei chiamato a seguirlo, fino in fondo, non importa quali rischi sarai chiamato ad affrontare, come dice Nan Goldin: “La fotografia è sempre stata una via per camminare attraverso la paura”. Per questo non possiamo permetterci di rinunciare alla nostra capacità di visione.

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