La sera del 9 novembre 1989, l’incrocio della dogana di Bornholmer strasse, a Berlino est, è pressoché deserto, fatta eccezione per qualche macchina di passaggio. Ci sono sette gradi: fa freddo, ma non più del solito. Alle 20.30 gli addetti alla dogana vedono una coppia sbucare da un angolo e dirigersi verso di loro a passo svelto. Poi un’altra. Poi un’altra ancora. Diventano una dozzina. Dalle strade laterali arrivano altre persone; sono famiglie con bambini in pigiama e vestaglia, con valigie fatte in fretta e furia. In pochi secondi diventano un centinaio, tutte dirette verso di loro. I militari alla dogana alzano il ricevitore per parlare col loro superiore, ma non risponde nessuno. Provano alla Stasi, ma anche lì i telefoni tacciono. I doganieri hanno visto la televisione, ma non sanno se crederci. Quando imbracciano i fucili, la massa di persone davanti a loro non rallenta, accelera.
Per capire l’enormità di quello che sta succedendo a Berlino est, bisogna cambiare prospettiva sul mondo. Nella notte tra il 12 e il 13 agosto del 1961 i russi iniziano la costruzione di un muro che divide Berlino in due: la parte ovest è tedesca, mentre quella orientale è sotto l’influenza dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, un’entità vastissima che copre quasi tutto l’est Europa e buona parte del continente asiatico. Lo fanno perché i cittadini dell’Urss, abituati a una vita di rinunce, vedono i loro concittadini della parte ovest girare con pellicce e macchine lussuose e uscire da supermercati con le borse stracolme. Intellettuali, professionisti, laureati e non solo che vivono nella parte est ci mettono poco a capire dove conviene loro stare, e cambiano sponda. L’emorragia di residenti è tale che l’Urss deve costruire un muro non solo per fermare quelli che partono, ma anche per non far vedere a quelli che restano l’alternativa al comunismo.
La costruzione del muro è stato uno dei momenti più caldi della cosiddetta guerra fredda, il periodo tra la fine del secondo conflitto mondiale e la fine degli anni Ottanta, in cui Russia e Stati Uniti terrorizzavano il mondo con la minaccia di una guerra nucleare che avrebbe potenzialmente annientato il genere umano, motivo per cui le due superpotenze preferivano combattere attraverso spie, bugie, propaganda, sabotaggi e azioni sotto copertura.
L’ideologia comunista ispirata a Lenin prima, e a Stalin dopo, ha creato un’unione di nazioni in cui la vita, oggi, è molto difficile da immaginare. Nella propaganda Urss tutti sono giovani, belli, lavoratori e felici, perché la censura non passa altro genere di testimonianze. L’Urss è il mondo di Orwell, dove la credenza comune è che se qualcuno oggi ascolta jazz, domani tradirà la patria. Ci sono esecuzioni, processi sommari, uomini e donne che vengono sequestrati nel cuore della notte, processati e uccisi senza conoscere la loro accusa. Gli anni di regime del terrore hanno logorato l’economia, ma anche la psicologia di milioni di persone. Come ben raccontato dalla BBC nel documentario Hypernormalisation, alla fine degli anni Ottanta la vita nell’Unione Sovietica è un inferno di miseria, bugie e terrore. I popoli dell’Urss non ne possono più e vogliono un cambiamento rispetto a una vita che non è affatto felice e prospera come quella raccontata dalla propaganda.
Dall’altra parte della cortina di ferro, l’Occidente se la passa bene. La Chiesa è parte integrante della vita di tutti i giorni, preti e vescovi sono punti di riferimento della comunità, ascoltati con rispetto e venerazione da sindaci, assessori e persone di successo. Non c’è stato ancora alcuno scandalo sulla pedofilia, l’omosessualità non esiste e se c’è è una malattia rara che può essere curata. Ogni dissenso, ogni dubbio o opposizione, viene bollato semplicemente come “comunismo”. È anche grazie a questo fantomatico nemico dell’Est che l’Occidente prospera. Film, telefilm e libri martellano il pubblico occidentale con quest’immagine di buoni e cattivi, est e ovest. L’Urss è il secondo mondo dove c’è povertà, paura, censura, repressione e violenza. Il primo mondo siamo noi, che facciamo finta di non vedere la lunga mano della Chiesa allungarsi sui nostri film, i nostri libri, le nostre scuole, le nostre famiglie e alla fine, i nostri figli. Il mondo si divide in capitalisti e comunisti, buoni e cattivi. È un mondo semplice, in cui papa Wojtyla finanzia Solidarnosh in Polonia e in Italia il consumismo entra pian piano nella vita di tutti, creando quell’immaginario di anni d’oro la cui nostalgia, oggi, muove miliardi.
Nel frattempo, famiglie residenti a Berlino est cercano in tutti i modi di fuggire dalla miseria. Vengono uccise mentre tentano di scavalcare il muro, o dai cecchini nascosti vicino agli altri confini. È talmente raro riuscire a fuggire che quelli che ci riescono passeranno alla storia. C’è l’acrobata Horst Klein, che nel 1963 valica il muro camminando su un filo elettrico a 18 metri d’altezza. Ci sono Hans Strekczyk e Gunter Wetzel che costruiscono una mongolfiera con vecchie coperte logore e passano dall’altra parte insieme alle loro famiglie. Una dozzina di persone scava dei tunnel sotterranei, mentre altre centinaia vengono uccise durante i più svariati tentativi. Persino i doganieri, quelli che assassinano i fuggitivi, sognano di passare dall’altra parte. Solo nei primi due anni ne scappano 1300, tra cui Conrad Schumann, di soli 19 anni.
All’interno della Repubblica democratica tedesca (Ddr) l’opposizione cresce nonostante la sistematica repressione da parte della Stasi. Ovunque è proibito riunirsi, fatta eccezione per le chiese protestanti. Ed è lì che i dissidenti organizzano manifestazioni e proteste, specialmente a Lipsia e Dresda. Sono manifestazioni oceaniche, molto diverse da quelle che vediamo oggi: la polizia e l’esercito sparano sulla folla per disperderla, eppure questo non spinge le persone a desistere. In Ungheria, il 19 agosto 1989, si sta tenendo un raduno abbastanza innocuo: si tratta del Picnic paneuropeo che celebra le radici comuni dei popoli del Vecchio Continente, nella campagna al confine con l’Austria; Budapest li autorizza, assicura la presenza di un ministro e riduce al minimo le formalità doganali. Quando i pacifici manifestanti arrivano alla frontiera, i cittadini di Berlino est che sono tra loro decidono di giocarsi il tutto per tutto: abbattono i posti di frontiera e scappano in Austria, che ne accoglie 661. È una figura tremenda per l’Urss, e l’inizio di una reazione a catena.
Il 10 settembre dello stesso anno, il governo Ungherese apre i confini con l’Austria: alla notizia migliaia di abitanti di Berlino est scappano in Ungheria e, passando dall’Austria, rientrano nella parte ovest della loro città. A Lipsia le manifestazioni si susseguono una dopo l’altra, nonostante repressioni e arresti. Il 22 settembre, il segretario generale del comitato centrale del Sed (Partito socialista unificato di Germania) scrive ai segretari regionali del partito: “È tempo di sradicare il germe di queste azioni ostili e impedirne le diffusione.” Quattro giorni dopo, il capo della Stasi Rudolf Mittig ordina di infiltrare dei sabotatori tra i manifestanti per alimentare divisioni e disaccordi. C’è un motivo: il 6 e il 7 ottobre 1989, a Berlino è attesa la visita di Gorbačëv; non si può rischiare di mostrargli una popolazione ostile. Gli infiltrati però non servono a niente, sono gocce nel mare. Il 3 ottobre la Ddr chiude le frontiere con Bulgaria, Romania e Cecoslovacchia. Le manifestazioni aumentano. Quando Gorbačëv arriva le parate si svolgono in un clima da apocalisse. Non c’è pubblico tranne le comparse, non ci sono applausi. Sembra una recita. Dopo un colloquio di tre ore, Honecker chiede a Gorbačëv un aiuto militare per sedare le sommosse. Ma Gorbačëv ha altri problemi e detesta gli incompetenti, così lo liquida con la famosa frase “La Storia non perdona chi arriva in ritardo”. Honecker si dimette il 18 ottobre, sostituito da Egon Krenz; questo, per fermare l’emorragia di cittadini, le manifestazioni, gli arresti e le strade sporche di sangue, decide di concedere nuovi permessi per andare nella Germania ovest e riaprire i confini. Il 4 novembre 1989, a Berlino, mezzo milione di persone manifesta in Alexanderplatz. Sono famiglie, operai, professionisti, donne con bambini. A quella vista, la Sed fa l’errore che fanno tutti i tiranni assediati: concede riforme.
Alle 9 di mattina dell’8 novembre il Politburo della Germania est incarica la Stasi e il ministero dell’Interno di modificare la legge sulla libertà di viaggio ed espatrio, eliminando le restrizioni. I lavori si concludono alle tre del pomeriggio, ed Egon Krenz presenta le riforme al comitato centrale, per poi convocare una conferenza stampa alle 18. Il portavoce della Germania est, Shabowski, è appena tornato dalle ferie e non ha altre informazioni, solo il comunicato. Lo legge in diretta Tv, dichiarando che è stato deciso di aprire i posti di blocco del muro. Un giornalista dell’Ansa gli domanda quando sarà reso effettivo, ma Shabowski non ne ha idea. “Se sono stato informato correttamente, l’ordine diventa esecutivo da questo istante.”
Non è vero, ma l’istante dopo averlo pronunciato lo diventa. Alle 19.05 l’Associated Press lancia la notizia che “la Ddr apre le frontiere”. Alle 20.45, i cittadini di Berlino est si riversano in strada correndo verso il confine, dove le guardie non hanno ordini precisi. Anche loro hanno sentito la notizia alla televisione, e dal quartier generale tutto tace. Appena lasciano passare il primo, la notizia si diffonde per le strade come il fuoco di un fiammifero nell’erba secca. In un’ora transitano un migliaio di persone, poi inizia un esodo di massa. Alle 22.28 il muro è preso d’assalto e la Ddr capisce l’errore; cerca di rimediare annunciando a mezzo Tv che può varcare il muro solo chi ha un’autorizzazione documentata, ma è troppo tardi. Nessuno sta più guardando la televisione. La gente si schiaccia contro le transenne, passa attorno alla dogana, corre contro il muro e lo scavalca arrampicandosi a mani nude.
Anche i cittadini di Berlino ovest avvertono la confusione e accorrono per capire cosa stia succedendo. Quando si rendono contro che tra coloro che scavalcano ci sono anche amici e parenti, tornano a casa per prendere martelli e picconi. All’una di notte stanno facendo a pezzi il muro, mentre più di 40mila tedeschi dell’Est scappati in Cecoslovacchia entrano in Germania ovest. L’era delle ideologie si chiude in quel momento. All’improvviso non esistono più amici o nemici, buoni o cattivi. Tutto quello in cui le persone avevano creduto fino ad allora crolla: il Vaticano perde il nemico che lo teneva in vita, il capitalismo qualsiasi freno e il sogno di uguaglianza comunista si frantuma in un fragoroso schianto.
Nicolae Ceaușescu e sua moglie, due criminali che negli anni hanno trasformato la Romania in uno stato di polizia sotto il controllo della Securitate, sono i primi a venire investiti da questo cambiamento epocale. Il 16 dicembre, a Timișoara, in seguito all’espulsione di un pastore della Chiesa riformista, gli studenti scendono in piazza a protestare. A loro si uniscono gli operai che sventolano bandiere con falce e martello. Vengono sterminati con le mitragliatrici. Quella vista fa insorgere un Paese i cui cittadini, ormai, divisi tra la prospettiva di morire di fame a casa e quella di essere uccisi per la strada, non hanno più nulla da perdere. Il 21 dicembre, Ceaușescu cerca di riprendere il controllo a Bucarest con un discorso in diretta Tv.
Dalla piazza, presieduta da militari con le armi puntate sulla folla, dovrebbero provenire applausi. Invece partono fischi. La trasmissione viene interrotta e nessuno sa dire cosa sia successo dopo. L’ennesima carneficina su vasta scala, il cui bilancio non è mai stato rivelato, fa sprofondare il Paese nell’anarchia fino al 27 dicembre. Il Fronte di salvezza nazionale, guidato da Ion Iliescu, prende il comando e blocca le rivolte. I Ceaușescu scappano in elicottero, ma vengono fermati, processati pro-forma da un tribunale militare in meno di un’ora e fucilati il 25 dicembre 1989. Il video della loro esecuzione viene mandato su tutti i canali a ripetizione per una settimana, così da convincere i rumeni dell’effettiva morte del tiranno. ll dualismo ideologico che aveva tenuto in equilibrio il mondo collassa quella notte di fine anni Ottanta e ogni politico, ogni religioso, ogni spia, guarda quelle immagini alla Tv allibito; nessuno sa cosa verrà dopo.
È una valanga immensa, la cui unica colonna sonora possibile è la versione di Take on me commissionata da Spielberg per Ready Player One. Il 9 novembre 1989 è l’anno zero della storia recente. C’era stata l’aristocrazia, poi l’ideologia, poi il sogno di un mondo armonico capace di oltrepassare il binomio consumismo/comunismo. Ma non succederà. Lo tsunami destinato a stravolgere il mondo è appena partito.