“Monte di pietà”, in Fondazione Prada, ci mostra il debito come radice della società e del potere - THE VISION
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È difficile definire i contorni di un dispositivo che ci cambia nel profondo. Mentre si cerca di farlo emerge l’angoscia dell’indistinto (passaggio transitorio di qualsiasi metamorfosi), un sentimento di paura latente, misto ad ansia e inquietudine, che nasce proprio dal porsi di fronte a una realtà che suggerisce il rischio di una doppiezza, e che se da un lato ci si offre senza difese, dall’altro suscita in noi un sospetto, l’improvvisa consapevolezza dell’indeterminato, e dei limiti della nostra capacità – unità, solidità, verità – cognitiva. Tutto ciò che sappiamo del mondo, infatti, non è altro che ciò che sappiamo di noi stessi, ed esperire questo limite ci getta nell’oceano del relativo, del molteplice, dell’in-unificabile, facendoci sperimentare una delle sfumature di ciò che Jean-Paul Sartre chiamava “assurdo”. È in questo universo che ci scaraventa “Monte di Pietà”, l’ultimo progetto ideato dall’artista svizzero Christoph Büchel negli spazi di Ca’ Corner della Regina, sede veneziana di Fondazione Prada, e visitabile fino al 24 novembre 2024. A partire dalla storia stratificata del palazzo settecentesco, sede del Monte di Pietà di Venezia dal 1834 al 1969 e dal 2011 spazio permanente della Fondazione, Büchel ha costruito un vero e proprio mondo nel mondo. Una realtà alternativa che finisce per superare ed eradicare completamente la realtà comune che il visitatore è costretto a lasciare all’ingresso della biglietteria, insieme ai suoi averi.

Büchel prima ci confonde e ci disorienta, per poi rapirci e carpirci in una dimensione onirica e straniante, in cui progressivamente ci si immerge, perdendo ogni contatto con il mondo “esterno”. E riesce a ottenere questa dislocazione percettiva in primis attraverso i sensi: la vista, l’orientamento, gli odori, i suoni. Dopo averla visitata probabilmente non sarete più disposti a usare l’aggettivo, decisamente abusato di questi tempi per l’arte, “immersivo” per qualsiasi cosa sia anche vagamente più debole dell’esperienza offerta da “Monte di Pietà” e dalla sua complessa rete di riferimenti spaziali, economici e culturali, complessa non come una restituzione concettuale del mondo, ma appunto come un’autentica parte di esso – pur del tutto progettata e ricreata. È qui che per chiunque abbia frequentato il cinema – in cui è difficilissimo restituire allo spettatore lo sporco, il sudicio, la patina del tempo – appare la deflagrante sapienza scenografica dell’artista, capace di superare qualsiasi finzione.

“Monte di Pietà” è indagine-voragine del concetto di debito come radice della civiltà umana e come veicolo primario con cui è sempre stato esercitato il potere politico e culturale. Venezia appare come perfetta incarnazione di questo meccanismo, essendo uno storico crocevia di commistioni e scambi commerciali e artistici, informato a livello urbano, sociale, culturale, grossolano e sottile da queste profondissime relazioni di potere e di desiderio, soggettivo e plurale, nazionale e internazionale. Il progetto riprende l’aspetto originale del Monte di Pietà Veneziano, con un banco dei pegni in fallimento, “chiuso fino a data da destinarsi”, in cui sono accatastati oggetti su oggetti, di vario valore, compresi diamanti sintetici fatti realizzare apposta da Büchel. Fin dall’inizio infatti si pone un potentissimo tensore tra oggetto e soggetto, passato e futuro, bisogno primario e desiderio, istinto e cultura, vittima e voyeur. Il banco dei pegni appare come un Compro Oro, l’estetica pacchiana atta a carpire l’attenzione dei disperati, “un diamante è per sempre”. Ma il discrimine è che il diamante mantiene per sempre intatte le sue qualità. Gli oggetti, invece, anche se ci sopravvivono, al pari dei nostri corpi invecchiano, si guastano, imputridiscono. Intrisi della nostra storia, tuttavia, occupano uno spazio enorme, anche quando inutilizzati o inutilizzabili, metafisico e materiale, che preme ai bordi della nostra coscienza, personale e collettiva, un inconscio pronto a esondare come un conato di vomito, appena allentiamo un attimo il giogo delle nostre difese; a sommergere la piccola identità che a costo di un prezzo altissimo siamo riusciti faticosamente a scolpire, indebitandoci fino al midollo, di un debito che non potremo mai estinguere, di coerenza, d’affetto, di compassione, di pietà. Essere chi siamo – a scapito degli altri – ha un costo che non ci possiamo permettere, ecco cosa ci sbatte in faccia Büchel.

Un passo alla volta l’artista ci attrae nei meandri di un inconscio, e ben presto, ci si accorge di non poter più tornare indietro, anche se lo si desidera, si vorrebbe infatti scappare, ritirarsi da questa atmosfera imprevedibile, in cui ogni angolo disorienta, ci allerta come se ci trovassimo sull’orlo di un baratro, nel cuore di una caverna sconosciuta e senza alcuna arma di difesa, in prima persona in un film di David Lynch, in cui la realtà segue le regole dell’alterità ed è impossibile applicare i nostri pregiudizi come rapido metodo di comprensione del reale. La mente, al pari del corpo, infatti, è portata ad attivare le soluzioni adattative più rapide ed apparentemente funzionali e meno dispendiose in termini di tempo ed energia. Ma se questa è una forma di intelligenza acutissima, dall’altro è anche una delle nostre trappole principali. Perché la soluzione “più semplice” non è detto che sia la migliore, o la più funzionale, e a lungo andare ci danneggia. Ma soprattutto questa tendenza all’economia fisiologica ci impedisce proprio di cambiare, di evolvere e di discernere i margini d’errore della nostra esperienza, in cui ci identifichiamo. 

All’interno di questa enorme installazione siamo costretti ad abbandonare le nostre abitudini percettive, facendo attenzione a ogni movimento, a ogni sguardo, proprio a causa di un senso di pericolo diffuso ottenuto grazie allo straniamento, anzi, meglio, lo “spaesamento”, innescato fin dall’esterno del palazzo, quell’Unheimliche freudiano, reso in italiano col concetto di “perturbante”. “Monte di Pietà” è infatti una perturbazione esperienziale, bouleversante, sconvolgente, proprio perché ribalta la nostra percezione, i nostri pattern cognitivi ed emotivi – tra povertà, guerre, abbandono, mancanza, o dimenticanza. Attraversandola sembra di essere finiti in uno di quei sogni (incubi?) da cui non ci si riesce a svegliare, e in cui pure si è completamente padroni di sé, svegli eppure sognanti. Anche i visitatori stessi sembrano comparse scritturate solo per popolare la mostra, fasulli. Ci si sente come come se potesse succedere da un momento all’altro qualcosa di tremendo e irreversibile. Siamo disorientati davanti al varco aperto sul passato, sul ricordo, all’esperienza più disturbante. Uno stratificarsi di memorie storiche collettive, un intersecarsi ormai indistinto di culture. Nella penombra, o accecati da luci abbaglianti, tra la polvere e le muffe, Büchel ci chiede di addentrarci in uno spazio che non vogliamo esperire, e che pure vorremmo scoprire. Si attiva così una sorta di meccanismo erotico, che come tale coinvolge la nostra insopprimibile – a volte fatale – curiosità.

In tutti gli spazi il suono gioca un ruolo fondamentale, musica classica si alterna a jingles, musica per “riempire” gli spazi del commercio; colonne sonore di famosi videogiochi che riempiono i piccoli spazi in cui riponiamo le nostre solitudini; rumore bianco di ventilatori, ventole, tubi catodici; inquinamento acustico che avvolge i nostri pensieri, li indirizza in maniera subdola ma estremamente diretta; voci, in varie lingue, che escono da televisori e monitor, e parlano ancora una volta di scambio, soldi, perdite e guadagni. E ovunque riferimenti sparsi alla società dello spettacolo, dell’immagine, in cui tutto è contenuto, tutto è vendibile e spendibile, monetizzabile. Si lucra anche sui conflitti, soprattutto sui conflitti, si scommette. D’altronde la finanza è anche questo. Nel mezzanino vengono riprodotti spazi domestici e pubblici, con dettagli “fuori posto”. Stride la presenza di una penna muji viola in un portapenne. Ovviamente non messa lì per caso. In un ambiente che non è il suo. Nel passato. Cosa ci vuole dire? Specchi, scatole Ikea trasparenti in cui tutti noi riponiamo i vestiti al cambio stagione, o magari inseriamo quelli che non usiamo più, in attesa che ci tornino utili, che la moda cambi, di decidere cosa farne. In attesa del futuro la plastica protegge il passato: ma sarà utile davvero? Merita davvero tutte queste attenzioni? O è solo l’ennesima illusione? L’ennesimo proteggere qualcosa che pensiamo vitale, mentre tutto intorno a noi crolla, viene distrutto, mutilato.

In ogni spazio tornano come oggetti totem stampelle, sedie a rotelle, protesi, a ricordare insistentemente questa condizione di fragilità, di irreparabilità, di violenza, di essere complici col male che accade nel mondo, delle guerre dettate sempre dal denaro, dal potere. Questi oggetti assumono sagome spaventose, macabre, proprio perché risvegliano la nostra paura, il nostro sentirci colpevoli. Ci fanno confrontare con la cosiddetta “disabilità”, altro termine per cui ci sentiamo colpevoli, che confessa un privilegio. Gli oggetti sono vecchi, corpi che hanno resistito al tempo come hanno potuto, e in questo estremamente simili a noi. Ciclette. Asciugamani sporchi. Vecchie lenzuola e coperte. Stufette. Mobili in formica. Gli oggetti raccolti da Büchel potrebbero essere semplici oggetti, “normali”, ma non lo sono, perché gli oggetti veicolano sempre un messaggio, una semantica, una funzione. Ci minacciano con le loro forme, le loro ombre, ci parlano. Iconici mobili Ikea, come il tavolino Lack, o il mobile composto da cubi componibili Kallax, e ancora la lampada da tavolo Lampan. Oggetti simbolo di un certo tipo di vita, di un certo ISEE anche, di una certa età, che stridono coi soffitti affrescati e gli stucchi di Ca’ Corner. Il monolocale di un maschio single si rispecchia e divide come una cellula, modem, dvd tutto sommato ordinati, cuffie per giocare online: da un lato monitor aperti su alcuni famosi videogame, dall’altro la personalissima versione dell’artista dell’Ultima Cena. Tutto sembra essere stato abitato, vissuto, eppure ora lo spazio è abbandonato, come se ce ne appropriassimo in maniera indebita, vendendo i resti della nostra esistenza, percependola come la distopia che probabilmente è diventata dagli anni Zero in poi. La stessa Venezia oggi appare come un territorio in cui non ci si perde più, grazie a una semplice app. Eppure perdersi a Venezia era fondamentale.

La tecnologia digitale ospita scenari di guerra, webcam in diretta su alcuni hotspot del territorio ucraino, giochi d’azzardo e di strategia. Büchel ci fa entrare in un posto da cui vorremmo scappare. Ma è la nostra vita. Piena di illusioni, e ricordi, paccottiglia. I sogni infranti, le speranze tradite, la mancanza di coraggio, la procrastinazione di un’azione, tutto diventa rifiuto, cadavere, fantasma. Si vive l’ansia di un trasloco da fare, di un rinnovamento da compiere, di un progetto di cambiamento da mettere in atto. Ma con che forza? Con che energia? La forza del passato, delle abitudini, delle cose come sono ci sovrasta, ci schiaccia. Il futuro è una pubblicità ingannevole, distorta. Tutto confina con l’inquietante. Attraverso un gioco di triangolazioni, oggetti apparentemente innocenti, vecchi, inutili, risvegliano incubi, tragedie, sensi di colpa. Come per i giubbotti di salvataggio, e i remi, le reti da pesca accantonati in un angolo, che ci fanno pensare alle centinaia di morti in acqua, che non hanno ricevuto aiuto, ai mari che saccheggiamo. Ma anche i vecchi sci e scarponi, così diversi da quelli che si usano oggi, da un lato ci ricordano il cambiamento climatico sempre più incalzante, la futura mancanza di neve, i ghiacciai che si sciolgono, dall’altro quelli che sono stati i nostri cari, mancati. A chi non è successo di dover liberare una cantina, un garage, e trovare dei vecchi, lunghi sci, o macchine da scrivere (chissà che cosa), casette di cani defunti?

La mostra è un iper-stimolante dell’inconscio. C’è tutto ciò che non vorresti buttare via. Ma  devi. Perché non c’è spazio. Ma quel tutto resta, ti infesta. Al tempo stesso ti verrebbe da allungare la mano e prendere qualcosa, portarlo via. Il disagio è acuito dalla necessità di lasciare le borse prima di entrare. Così ti senti costantemente spogliato, come se ti mancasse qualcosa di importante, lo avessi perso, o dimenticato. Sei nudo del presente di ciò che ti serve, che ti servirebbe. Come in carcere. Liberato dei tuoi effetti personali. Catapultato in un mondo altro. Senza nulla di tuo. La mancanza e l’abbandono sono ovunque, è pieno di post it che ci ricordano di chiamare o contattare qualcuno, di incontrare qualcun altro. Di fare qualcosa di urgente che non abbiamo ancora fatto. Cartelli che sottolineano un’assenza: scusate, torno subito; non toccare nulla. Come se il passato – che è già il nostro presente – fosse lasciato incustodito. Il nostro inconscio è un’enorme banco dei pegni. Chiuso a data da destinarsi. Rimosso. Eppure lì, forse con pazienza e attenzione, possiamo ricomporre una mappa.

Vestiti, trucchi, libri, dipinti, quaderni di scuola, fotografie, archivi, armi, elettrodomestici, e le giostrine che c’erano negli anni 90 nelle spiagge libere, in riviera (un colpo al cuore). Gli orologi, le monete, i francobolli. I simboli del tempo, dello scambio e delle relazioni col mondo. E ovviamente le lettere. Le cartoline. I biglietti. I banconi, all’ultimo piano, giocano un ruolo fondamentale nella suddivisione dello spazio, ma anche nella gerarchia tra esseri umani. Qualcosa che ha a che fare con lo scambio, il commercio, il “negozio”, e l’attesa. Tanto che alcuni visitatori si avventurano dove non dovrebbero, e vengono duramente ripresi. Tutto ci ripete che solo i diamanti sono per sempre, tutto il resto deperisce, anche se molto lentamente. Libri di scacchi, scacchiere, strategie domestiche. Storie personali che creano una storia collettiva. Bilance, microscopi, tutto ha un valore simbolico. Giacche e scarpe usate che silenziosamente ci rimandano i mucchi raccolti dai nazisti.

Il passato ha un odore. Come Venezia. Come l’India. Forte, riconoscibile. Non tutti i luoghi lo hanno. Non tutte le emozioni. I libri giocano un ruolo fondamentale. E il nostro occhio cerca comunque indizi nelle parole, di qualsiasi tipo esse siano, per orientarsi nel delirio dell’esperienza. Di questo enorme set, scenografia, che è la nostra memoria, confusionaria, l’inferno di Marie Kondo. E anche quando organizzata spaventosa, perché enorme (come i registri dei debiti). Vengono addirittura censite le perline di Murano. Tutto è accatastato. Gli oggetti aspettano che qualcuno gli dia nuova vita. I giocattoli, i tappeti, i mobili per la prima infanzia. In una stanza, adibita a deposito, sembra che da un momento all’altro questi oggetti ci possano schiacciare. “Monte di Pietà” sembra dialogare con Quarto potere (non penso sia casuale lo slittino riposto nel punto più remoto del palazzo), proprio in quel deposito asfissiante da cielo a terra che ricorda la scena finale del film di Orson Welles, una geografia di oggetti, lo slittino che simboleggia l’infanzia, quel nucleo di vita più vivido di Charles Foster Kane e che viene gettato tra le fiamme al comando diThrow that junk”.

Uscendo si ripassa da dove si è venuti, ma ormai si vivono quegli spazi, quegli oggetti accatastati in maniera completamente diversa, sicuramente più consapevole. Prima la cattedra del tribunale, su cui cade la luce della serenissima, simile all’altare di una chiesa, poi le brande per gli sfollati. Pezzi di computer distrutti. Il Banco Alimentare svuotato e abbandonato (ricordi di lockdown). Una cassaforte sventrata. Raccoglitori per l’acqua. Un carrello della spesa. Tapparelle. Una cappella con calcinacci. Un confessionale. Ancora una volta le stampelle, le carrozzelle. Impossibile non pensare ai bambini palestinesi. Una cantina pienissima e puzzolente. Asfissiante, un articolo di giornale che parla di femminicidio. Büchel non si dimentica di nessuno. Ci circonda da tutto ciò che vorremmo evitare, nascondere. Eppure questa immersione nel rimosso ci libera lo sguardo, quando finalmente si torna in superficie, si esce dall’incubo, si continua a guardare il mondo con quegli stessi occhi, con la stessa attenzione e cura al minimo dettaglio, dettata da uno sconfinato desiderio di sopravvivenza, d’amore.

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