La moda gender neutral è una delle tante questioni su cui i detrattori della fantomatica teoria gender amano accanirsi di più. Quando pensano alla “dittatura del gender”, oltre a immaginarsi una Sodoma in fiamme in cui le persone Lgbtq corrompono i bambini a suon di “genitore 1” e “genitore 2”, vedono un mondo alla rovescia in cui gli uomini indossano le gonne e si truccano, proprio come le donne. Appellandosi all’idea che vestirsi diversamente dai canoni che la norma prevede per il proprio genere sia contro natura, cadono in un grande fraintendimento: non c’è nulla di naturale infatti nell’abbigliamento, e men che meno in un principio che divide i vestiti da uomo e quelli da donna. La moda gender neutral è sempre esistita.
Nel 1984, Jean-Paul Gaultier scandalizzò le passerelle di Parigi presentando la sua iconica collezione “Men in Skirts”. I modelli della sfilata maschile si presentarono indossando gonne di ogni forma e dimensione, da quelle aderenti per l’ufficio a ben più elaborati strascichi da sera. “Se per le donne va bene indossare abiti sartoriali maschili, perché non va bene per gli uomini indossare le gonne?”, si chiedeva la critica di moda del Times Bernadine Morris subito dopo il defilé. In realtà, per moltissimo tempo, che una donna indossasse i pantaloni non andò bene per niente. Quando in Italia comparve la prima gonna-pantalone dello stilista francese Paul Poiret, la jupe-culotte, il Corriere della Sera parlò di donne assalite, molestate e ingiuriate per strada perché colpevoli di vestirsi come i maschi. Erano gli anni ’10 e si usciva, proprio con la morte della regina che le diede il nome, dalla stagione più conservatrice dal punto di vista dei costumi, l’età vittoriana.
L’Ottocento viene generalmente considerato il secolo in cui si sono rafforzati e radicati i ruoli di genere che ancora, in parte, dominano la società. Mentre gli uomini andavano a lavorare in fabbrica o nei nascenti uffici, le donne progressivamente diventavano le regine della dimensione domestica. Si diffuse in quest’epoca la teoria delle due “sfere separate”, basata sulle differenze naturali e biologiche tra uomo e donna. All’uomo perteneva la sfera del lavoro mentale e fisico, mentre alla donna quella della cura della prole. Le due sfere, che corrispondevano anche a due spazi fisici e temporali separati – il luogo di lavoro e la casa – interagivano solo la sera, quando il marito rientrava dal lavoro. Questa teoria, appoggiata dalla regina Vittoria in persona, si rifaceva non solo alle scienze mediche che avevano dimostrato le differenze inconciliabili tra l’uomo e la donna, ma anche alla religione: Dio aveva creato l’uomo diverso dalla donna, affinché il primo lavorasse e la seconda si occupasse dei figli.
Questa mentalità si riflette anche nella moda dell’epoca. È in età vittoriana che la moda maschile si separa in modo definitivo e irrimediabile da quella femminile, in nome del solito principio naturalistico. Uomini e donne si sono vestiti allo stesso modo, o con minime variazioni, per secoli. Nel mondo antico tuniche, toghe, stole e pelli venivano indossate indifferentemente dai due sessi, con differenze nella lunghezza dell’orlo, nella disposizione delle stoffe o nelle decorazioni. Gli storici della moda hanno notato che le differenze nell’abbigliamento cominciarono a pesare nel XIV secolo, con la fine del Medioevo e la definizione dei centri urbani: della donna venivano esaltati il busto e i fianchi, mentre l’uomo doveva essere vestito il più comodamente possibile per lavorare o andare a cavallo. Erano i prodromi delle due sfere separate ottocentesche, la donna in casa ad allattare e l’uomo fuori a lavorare. Gli uomini della nobiltà invece continuavano a indossare gioielli, tacchi alti e trucco pesante fino alla Rivoluzione Francese, proprio per dimostrare il loro status privilegiato di non-lavoratori. Nell’Ottocento, quando la nobiltà cadde e la borghesia si fece spazio, tutti gli uomini dovettero iniziare a lavorare e quindi a disporre di un abbigliamento adeguato.
Finita l’epoca vittoriana ci fu una sorta di cortocircuito. Cominciò la prima guerra mondiale e le donne si videro costrette a prendere il posto degli uomini in fabbrica. Di certo non lo potevano fare strette in corsetti, busti e sottogonne. Alla militarizzazione della società corrispose la militarizzazione dei costumi: la divisa, che fosse quella da operaio o da soldato, diventò la forma d’abbigliamento più pratica per l’uomo, ma anche per la donna. Persino il fascismo, l’ideologia che tanto ha esasperato le differenze fra i sessi, paradossalmente si fece portatrice di una moda gender neutral. L’artista fiorentino Thayaht inventò infatti la tuta, che doveva essere “tutta”, in ogni senso: non solo era realizzata con un pezzo unico di stoffa, ma doveva anche adattarsi a tutti gli usi possibili ed essere uguale per tutti, uomini e donne. Il resto è storia: Coco Chanel che passeggia in riva al mare con i pantaloni dell’amante, il look androgino e i capelli corti delle Flapper Girl immortalate da Francis Scott Fitzgerald, Marlene Dietrich che indossa lo smoking nel film Marocco. Tutte queste piccole rivoluzioni hanno portato la moda femminile a convergere su quella maschile con l’unisex, ma non viceversa.
“Unisex” è un termine nato negli anni ’60, legato agli stilisti della cosiddetta “Space Age”: Pierre Cardin, Andre Courreges e Paco Rabanne. Questo aggettivo si riferiva non tanto alla neutralità dell’abbigliamento o alla fluidità di genere, quanto più a un’immagine di femminilità nuova, più androgina e mascolinizzata: alla donna che cominciava a indossare i pantaloni. Le tendenze unisex del secolo scorso, per quanto liberatorie e innovative, hanno avuto però il limite di concentrarsi solo sulla liberazione della donna. I capi più neutri che il Novecento ci ha dato in eredità, i blue jeans e la t-shirt, non sono altro che capi espressamente creati per il comfort maschile e trapiantati nel guardaroba femminile.
Nel 2018, però, non c’è niente di rivoluzionario in una donna che indossa i pantaloni, e invece ancora ci si scandalizza se Jaden Smith indossa una minigonna nella pubblicità di Louis Vuitton.
La moda ha da tempo preso la direzione della neutralità, è evidente. Sfilate miste e modelli queer hanno ormai conquistato non solo i marchi più all’avanguardia, ma anche i grandi retailer come Zara o H&M. Si può pensare che la moda gender neutral rappresenti un’ottima fonte di guadagno per questi marchi, messa in atto con sofisticate operazioni di rainbow washing. Così Zara non è solo l’ennesima catena fast fashion, ma diventa la paladina dei diritti Lgbtq. Inoltre, l’impressione è che queste linee vengano comunque create avendo bene in mente un target femminile e cisgender di riferimento, a cui si aggiunge qua e là qualcosa di androgino a cui si appiccica sopra l’etichetta “gender neutral”. Il che spiegherebbe perché è ancora difficile trovare una gonna in questo tipo di linee, e se c’è, vederla indossata da un modello. C’è da augurarsi, ma questo è difficile da dire al momento, che il gender neutral non sia semplicemente un modo per monetizzare movimenti civili e politici concreti, ma sia una risposta da parte della società a determinate esigenze.
In ogni caso, il gender neutral rappresenta sempre più il futuro della moda: aperta, libera e inclusiva. Si possono fare ancora molti passi avanti, ma non si può non riconoscere che sia un valore aggiunto. Le persone che non si identificano nell’uno o nell’altro genere, o che più semplicemente non si sentono rappresentati dai vestiti della norma, potranno finalmente disporre di un’ampia scelta di abiti che si adattano a ogni tipologia di corpo e occasione. Le dinamiche della storia del costume ci dicono che questo non è un trend passeggero, ma una direzione a cui la moda tende da sempre, in un modo o nell’altro. Nessuno, se non il pregiudizio, ha stabilito che gli uomini non potessero indossare le gonne e viceversa. Fra i corpi ci sono delle innegabili differenze, ma voler stabilire una volta per tutte cosa vada bene e cosa no per l’uno o per l’altro significa cadere nella trappola del naturalismo. La percezione del corpo è mutata moltissimo nei secoli e considerarlo solo nella sua dimensione biologica è una concezione ormai superata. La società ha superato da molto la rigida separazione fra i generi dell’età vittoriana. E così anche la moda.