Michele Santoro è tornato, e anche stavolta ce ne siamo accorti. La capacità di attirare a sé l’attenzione, che siano polemiche, elogi, battaglie o acredine, rientra nel magnetismo di un giornalista che non si è mai piegato alla logica del consenso. Santoro non soltanto è consapevole di non piacere a tutti e di non far nulla per ingraziarsi le simpatie del pubblico – perché il lavoro del giornalista non dovrebbe basarsi su fazioni e proselitismo –, ma è lui stesso il primo ad autodiagnosticarsi contraddizioni e tratti scontrosi del carattere: “Sono un dinosauro, sempre pieno di dubbi e di elementi chiaroscurali”. L’unica certezza, quasi una vocazione, è legata al ruolo del giornalismo come arma contro l’asservimento. In questo Santoro è sempre stato un maestro. A parlare è la sua carriera.
Non si può rovesciare il potere senza dare fastidio. L’arte di dare fastidio deve manifestarsi durante un’assemblea al liceo o in diretta sulla Rai, e Santoro l’ha capito più di tutti, sin dall’inizio. Nel 1967 venne censurato il giornale scolastico che aveva creato al liceo Tasso di Salerno, lasciato poi per frequentare il De Sanctis. Si avvicinò quindi al PCI e ai suoi periodici satellite. Quando sul finire degli anni Settanta divenne direttore de La Voce della Campania, creatura del PCI regionale, Santoro decise di rinnovare la redazione, “mettendo da parte i vecchi babbioni intellettuali e promuovendo sul campo giornalisti giovanissimi”, con l’intenzione di creare una struttura indipendente. Le sue iniziative andavano però contro la linea ufficiale del partito, e fu invitato a farsi da parte. Anche la sua collaborazione con l’Unità fu caratterizzata da divergenze d’opinioni: si arrivò al punto di rottura con Santoro che fu tenuto in redazione ma senza la possibilità, e la voglia, di scrivere. Così decise di svoltare la sua vita abbandonando la carta stampata. Direzione: Rai 3.
La terza rete del servizio pubblico era quella più spostata a sinistra. Il Tg3 targato Sandro Curzi venne addirittura soprannominato TeleKabul, nomignolo che Curzi non osteggiò mai. Fu la palestra di Santoro negli anni Ottanta, iniziando con i servizi, gli speciali, poi gli esteri e infine la nomina come vicedirettore. Anche il telegiornale gli andava stretto, diede così vita nel 1987 a Samarcanda, trasmissione che definì i nuovi canoni del talk show attraverso la formula della doppia prospettiva: da un lato l’attualità veniva commentata da intellettuali del calibro di Edoardo Sanguineti o Dario Fo, dall’altro venivano coinvolti i cittadini comuni con collegamenti esterni. Il linguaggio era diretto, esplicito, ma senza cadere nella demagogia dei talk show odierni, dove i cittadini vengono intervistati per creare guerre tra ultimi e penultimi e alimentare la rabbia sociale.
Il punto di forza della trasmissione risiedeva nelle intuizioni autoriali e nella redazione, composta da giornalisti all’inizio di una carriera d’alto profilo: Sandro Ruotolo, Riccardo Iacona, Maurizio Mannoni e Simonetta Martone su tutti. Anche il periodo storico aiutò parecchio: la trasmissione andò in onda dal 1987 al 1992, attraversando quindi la caduta del Muro di Berlino, Tangentopoli e le stragi mafiose. Proprio gli approfondimenti su Cosa Nostra restano tutt’oggi memorabili: dopo l’omicidio di Libero Grassi, imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo, nacque una serata crossover tra Rai e Mediaset, con le trasmissioni Samarcanda e il Maurizio Costanzo Show in collegamento diretto e Giovanni Falcone tra gli ospiti di punta. In seguito Costanzo subì un attentato mafioso e anche Santoro, che rinunciò alla scorta, fu minacciato.
L’esperienza su Rai 3 proseguì con programmi estremamente innovatori. Basti pensare a Tempo reale, trasmissione in cui le opinioni degli spettatori venivano sondate mostrando anche alcune pagine di Internet. È quello che oggi avviene regolarmente, ma c’è un piccolo dettaglio: Tempo reale è del 1994, quando il web era un luogo marziano ignorato dai più. Continuò ad ampliare la sua squadra facendosi accompagnare da giovani giornalisti in rampa di lancio, tra cui Corrado Formigli, che lo seguì nel 1996 a Mediaset per l’esperienza del programma Moby Dick. L’uscita dalla Rai fu tumultuosa. I dissidi con il primo presidente Rai in quota Ulivo, Enzo Siciliano, andarono avanti per mesi. Santoro non voleva che il Parlamento mettesse bocca sulle nomine Rai – toh, quasi trent’anni dopo il tema è ancora la lottizzazione della Rai. Siciliano, a una domanda su Santoro, rispose: “Michele chi?”.
La breve esperienza di Moby Dick sarà ricordata per i reportage sul fronte durante la guerra del Kosovo. Santoro pose l’attenzione sui bombardamenti della NATO. Tranne rare eccezioni, le critiche furono bipartisan: fu accusato di difendere Milošević, la NATO era intoccabile. In ritorno in Rai a cavallo tra i due millenni diede vita a una nuova fase della carriera di Santoro, quella delle battaglie contro Silvio Berlusconi. In un periodo in cui persino il centrosinistra era troppo morbido nei confronti del Cavaliere, imbastendo un’opposizione fiacca al limite della connivenza, Santoro si fece portavoce di un movimento di opposizione a decenni di un berlusconismo nato prima con il mezzo d’indottrinamento – la televisione – per arrivare infine alla politica del popul-liberismo con tinte di autoritarismo.
Il 2001 fu l’anno della frattura insanabile. Durante la trasmissione Il raggio verde, Santoro decise di approfondire i temi trattati da Marco Travaglio nella celebre intervista da Luttazzi nel programma Satyricon, specialmente i rapporti di Berlusconi e Dell’Utri con il mafioso Vittorio Mangano. Berlusconi telefonò in diretta – in quel periodo aveva il controllo di Rai e Mediaset, non era abituato alle voci fuori dal coro – e attaccò il conduttore urlando: “Santoro, lei è un dipendente del servizio pubblico, si contenga!”. Santoro, poco incline a piegarsi ai potenti, rispose: “Io sono un dipendente del servizio pubblico, non sono un suo dipendente”. Berlusconi se la legò al dito.
Pochi mesi dopo arrivò l’editto bulgaro. Durante una conferenza stampa a Sofia, Berlusconi attaccò Biagi, Santoro e Luttazzi accusandoli di aver fatto un “uso criminoso della televisione pubblica” e dicendo alla nuova dirigenza Rai: “Credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza di non permettere più che questo accada”. Il giorno dopo, Santoro iniziò la sua trasmissione cantando Bella Ciao. Il CdA Rai, in quota centrodestra, cancellò il programma e allontanò anche Biagi e Luttazzi.
L’esilio televisivo durò quattro anni, il tempo di un breve passaggio al Parlamento Europeo, eletto con l’Ulivo. Il ritorno in Rai con Anno Zero consolidò il sodalizio con Marco Travaglio, che proseguì anche con Servizio Pubblico, programma inizialmente multipiattaforma e poi su La7 fino al 2015. Fu un decennio in cui Santoro, ancora una volta, mostrò una lungimiranza di rilievo sui principali avvenimenti politici. Quando nacque il Partito Democratico, Santoro fu tra i pochi nel centrosinistra a vedere le storture dietro la patina d’infallibilità della nuova creatura politica. Già nel 2008 dichiarò: “Il PD non è un partito, è un accrocco di gruppi notabiliari”. C’aveva visto lungo.
Anche quando esplose il fenomeno M5S Santoro analizzò il movimento con grande lucidità, andando contro gli entusiasmi iniziali. Mentre Travaglio abbracciò il grillismo, Santoro mise in guardia gli elettori sulla sua natura. Nel 2016, due anni prima dell’alleanza con Salvini, dichiarò: “Per me è ormai indubitabile che il Movimento Cinque Stelle è destra. Destra pura”. Fu sommerso dalle critiche, proprio da parte di quegli elettori di sinistra che confidavano nei grillini per “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, paragonandoli a rivoluzionari progressisti. Anche in questo caso, Santoro aveva ragione.
No, Santoro non è stato infallibile. Di errori forse ne ha commessi, come quando insieme a Travaglio ha involontariamente rivitalizzato Berlusconi in vista delle elezioni del 2013, lasciandogli troppo la scena durante Servizio Pubblico e facendogli così recuperare molti punti nei sondaggi, grazie al vizio degli italiani di aggrapparsi al carisma del singolo, a scapito della sua integrità morale, e di intendere il dibattito politico come un meccanismo da televoto, quindi più reality show che realtà. E le sue ultime, sporadiche apparizioni televisive non sono state tutte memorabili. In questi giorni l’abbiamo visto anche dall’acerrimo nemico Bruno Vespa e da Nicola Porro, per il suo ritorno in casa Mediaset dopo più di vent’anni. Sono quegli elementi chiaroscurali che lui stesso ha evidenziato e che non rinnega. Eppure quei pochi contenitori televisivi di livello che vediamo oggi sono figli dell’epoca di Santoro, di un giornalismo con la schiena dritta che deve approfondire, non accontentare. Se abbiamo Presa diretta di Iacona o Piazzapulita di Formigli, è perché l’eredità di Santoro non è andata persa. La libertà del giornalismo televisivo resterà intatta fino a quando qualcuno, con tutti i pregi e i difetti del caso, continuerà a rompere i coglioni al potere.