La meritocrazia è diventata un ideale sociale sempre più importante. I politici di tutto lo spettro ideologico ribadiscono continuamente l’idea che cose come i soldi, il potere, il lavoro, l’ammissione all’università dovrebbero essere distribuite secondo le capacità e gli sforzi di ciascuno. La metafora più comune è quella del campo da gioco perfettamente piano su cui i giocatori abbiano tutti la stessa possibilità di emergere per i loro meriti. Sul piano concettuale e morale, la meritocrazia viene presentata come l’opposto di sistemi come l’aristocrazia ereditaria, in cui la posizione sociale dell’individuo è determinata dalla nascita, come un premio alla lotteria. Nell’egida della meritocrazia, la ricchezza e il privilegio sono la giusta ricompensa per il merito dell’individuo, non i regali fortuiti di eventi esterni.
La maggior parte delle persone non solo pensa che il mondo dovrebbe essere guidato dalla meritocrazia, ma crede che sia già così. Nel Regno Unito, l’84% degli intervistati a un sondaggio di British Social Attitudes sostiene che il duro lavoro sia “essenziale” o “molto importante” quando si tratta di avanzare nella scala sociale, e nel 2016 il Brookings Institute ha rilevato che il 69% degli americani crede che le persone siano ricompensate in base alla loro intelligenza e alle loro capacità. Gli intervistati di entrambi i Paesi pensano che i fattori esterni, come la fortuna o la provenienza da una famiglia facoltosa, siano molto meno rilevanti. Se è vero che idee del genere sono molto più comuni in queste due nazioni, è vero che sono popolari in 14 Paesi.
Nonostante sia molto diffusa, è dimostrato che la convinzione che il merito e non la fortuna determini il successo o il fallimento nella vita sia falsa. E, non da ultimo, perché il merito stesso è in gran parte frutto della fortuna. Il talento e la capacità di ottenere determinati risultati – la cosiddetta grinta – dipendono molto dal talento genetico e dall’educazione dell’individuo.
Per non parlare delle circostanze fortuite che si riscontrano in ogni storia di successo. Nel suo libro Success and Luck (2016), l’economista americano Robert Frank ricostruisce i casi e le coincidenze che hanno portato Bill Gates, il fondatore di Microsoft, alla sua fortuna stellare, e analizza il suo stesso brillante percorso accademico in quest’ottica. La fortuna interviene garantendo alle persone dei meriti, ma anche fornendo le circostanze in cui questi possano tradursi in successi. Questo non nega la diligenza e il talento delle persone affermate, ma dimostra che il legame tra merito e risultato è debole e indiretto.
Secondo Frank, questo è particolarmente vero quando si tratta di un trionfo enorme in un contesto altamente competitivo. Senza dubbio ci sono altri programmatori competenti quanto Bill Gates che, nonostante tutto, non sono riusciti a diventare la persona più ricca del pianeta. In settori dove i candidati sono molti e i posti pochi, sono in tanti ad avere le capacità, ma sono in pochi a farcela. E la differenza tra i primi e i secondi è la fortuna.
Un numero sempre più ricco di ricerche di psicologia e neuroscienze suggerisce che credere nella meritocrazia non solo sia fallace, ma renda le persone più egoiste, meno autocritiche e più inclini ad atteggiamenti discriminatori. La meritocrazia non è solo sbagliata: è anche pericolosa.
Il “gioco dell’ultimatum” è un esperimento comune nei laboratori di psicologia in cui a un giocatore (il proponente) viene data una somma di denaro e viene proposto di dividerla tra lui e un altro giocatore (il rispondente), che può accettare l’offerta o rifiutarla. Se il rispondente rifiuta l’offerta, nessun giocatore ottiene nulla. L’esperimento è stato replicato migliaia di volte, e di solito il proponente offre una somma abbastanza equa; se questa è di 100 dollari, la maggior parte delle offerte è tra i 40 e i 50.
Una variante di questo esperimento mostra che credere di essere più competenti conduce invece a comportamenti egoisti. Per una ricerca della Beijing Normal University, le persone hanno partecipato a un gioco di abilità truccato prima di procedere con quello dell’ultimatum. I giocatori a cui era stato fatto credere di aver vinto volevano più denaro per sé e meno per coloro che non si erano uniti al gioco di abilità. Altri studi confermano questa scoperta. Gli economisti Aldo Rustichini della University of Minnesota e Alexander Vostroknutov della Maastricht University dei Paesi Bassi hanno rilevato che i soggetti che avevano partecipato in precedenza a giochi di abilità erano molto meno inclini a sostenere una distribuzione equa del premio rispetto ai partecipanti di un gioco di fortuna. Basta solo l’idea dell’abilità a rendere le persone più favorevoli a esiti ingiusti. Questo effetto è stato riscontrato in tutti i partecipanti, ma era molto più pronunciato tra quelli che avevano vinto.
Al contrario, i risultati delle ricerche sulla gratitudine indicano che ricordare il ruolo della fortuna nel proprio successo aumenta la generosità. Frank cita uno studio in cui, chiedendo semplicemente ai partecipanti di ricordare i fattori esogeni che avevano contribuito alla loro realizzazione nella vita (la fortuna o l’aiuto degli altri) li rendeva più inclini a compiere azioni di beneficienza rispetto a coloro ai quali era stato chiesto di ricordare fattori endogeni (l’impegno o le capacità).
Ancora più inquietante è il fatto che i risultati sembrerebbero mostrare che anche ritenere che la democrazia sia un valore può promuovere comportamenti discriminatori. Il ricercatore in management Emilio Castilla del Massachusetts Institute of Technology e il sociologo Stephen Benard dell’Indiana University hanno realizzato alcuni tentativi per migliorare pratiche meritocratiche come la retribuzione basata sulle performance nelle compagnie private. Hanno scoperto che nelle aziende che annoverano la meritocrazia tra i propri valori in maniera esplicita, i manager assegnano più ricompense ai dipendenti di sesso maschile che a quelli di sesso femminile, anche se questi hanno valutazioni identiche di performance. Questa preferenza scompare dove la meritocrazia non è esplicitamente adottata come un valore.
Questo è sorprendente perché l’imparzialità dovrebbe essere alla base dell’attrattiva morale della meritocrazia. Il campo da gioco perfettamente piano va inteso come un modo per evitare le disuguaglianze ingiuste basate sul genere, l’etnia e simili. Eppure Castilla e Benard hanno scoperto che, ironicamente, i tentativi di migliorare la meritocrazia conducono proprio al tipo di discriminazioni che essa tenta di eliminare. Suggeriscono che questo “paradosso della meritocrazia” avvenga perché, adottandola esplicitamente come un valore, convince i soggetti della legittimità della propria morale. Convinti di essere nel giusto, diventano meno inclini a cercare nel loro comportamento i segnali del pregiudizio.
La meritocrazia è una convinzione falsa e poco salutare. Come ogni ideologia, attira perché giustifica lo status quo, spiegando perché gli individui si meritano di stare dove sono nell’ordine sociale. È un principio psicologico ben radicato quello per cui le persone credono che il mondo sia giusto.
In ogni caso, oltre a offrire legittimazione, la meritocrazia è anche lusinghiera. Quando il successo è determinato dal merito, ogni vittoria può essere vista come il riflesso delle virtù e del valore di una persona. La meritocrazia è il principio di distribuzione più auto-congratulatorio che esista. La sua alchimia ideologica muta la proprietà in elogio, l’ineguaglianza materiale in superiorità personale. Fa sì che il ricco e il potente si vedano come geni della produttività. Se questo effetto è più spettacolarizzato nelle élite, quasi ogni traguardo può essere visto nell’ottica meritocratica. Il diploma delle scuole superiori, il successo artistico o semplicemente la ricchezza possono essere prove di talento e impegno. Sulla stessa falsa riga, i fallimenti diventano segni di mancanze personali, fornendo una ragione per cui coloro che sono alla base della gerarchia sociale meritano di rimanere lì.
Questo è il motivo per cui i dibattiti su quanto certi individui si siano “fatti da sé” e sugli effetti di varie forme di privilegio possono essere così accesi. Queste discussioni non riguardano solo chi riesce ad avere cosa; ma quanto credito le persone possono avere in base a ciò che possiedono, che cosa il loro successo permetta loro di pensare delle loro qualità intrinseche. Questo è il motivo per cui, per chi crede nella meritocrazia, la nozione stessa di successo personale come risultato della fortuna può essere considerata un insulto; riconoscere l’influenza dei fattori esterni sembra sminuire o negare l’esistenza del merito individuale.
Nonostante la rassicurazione morale e l’elogio personale che la meritocrazia offre alle persone di successo, andrebbe abbandonata sia come convinzione su come funziona il mondo, sia come ideale sociale generale. È falsa, e credere in essa incoraggia l’egoismo, la discriminazione e l’indifferenza nelle difficoltà dei meno fortunati.
Questo articolo è stato tradotto da Aeon.