Per una strana ironia della sorte, “gli anniversari di Marx” sono spesso caduti in periodi di cambiamenti sostanziali. Il centenario della sua nascita, nel 1918, è stato celebrato pochi mesi dopo l’inizio dell’esperimento bolscevico in Russia; e cinquant’anni dopo, nel 1968, è stata la volta delle ondate di protesta che dal Vietnam arrivarono fino alle strade di Parigi. Le ricorrenze della sua morte, avvenuta nel 1883, furono episodi un po’ più cupi. In occasione della sua cinquantesima commemorazione i nazisti salirono al potere in Germania,
Ancora più delle date appena ricordate, il duecentesimo anniversario ci ritrova senza più fiducia nel futuro che Marx aveva previsto. Se la caduta dell’Unione Sovietica innescò un’ondata di trionfalismo capitalistico, con la crisi del 2008 il filosofo tedesco venne riabilitato, perlomeno in quanto critico di altri economisti. Nelle ultime settimane, il Financial Times, l’Economist in particolare, ma più in generale quasi tutti i media ne hanno tessuto le lodi, come abile interprete dei mali del capitalismo, ma incapace di offrire valide alternative o quantomeno indicazioni su come uscire da quello scenario.
In realtà, l’idea che l’opera di Marx sia datata o valida solo per alcuni Paesi risale agli anni Sessanta dell’Ottocento. A seconda del critico che ne parlava, Marx poteva essere un prussiano che proiettava altrove realtà specificatamente tedesche, o uno che sbagliava ad affermare che l’Inghilterra si presentava alle nazioni meno sviluppate come uno specchio del loro futuro. Questa critica si diffuse in particolare in Italia, dove persino le società operaie nascenti furono influenzate più dall’anarchismo e dal radicalismo mazziniano che dal pensiero marxista.
Né le tradizioni popolari, né le guerre di unificazione si sposavano facilmente con la visione del proletariato in quanto fattore fondamentale del cambiamento sociale. Il collaboratore di Marx, Friedrich Engels, inveì contro i “maledetti italiani” che “[gli] procura[vano] più lavoro di quanto ne procur[asse] tutta l’Internazionale”, fastidio ancora più grande, considerato che “se ne caverà assai poco, almeno finché gli operai continueranno a tollerare che un paio di giornalisti e avvocati dottrinari parlino in loro nome.”
È facile far notare come le fabbriche inglesi del 1860 non fossero incarnazioni globali e senza tempo del capitalismo, e come questo sistema si sia continuamente rinnovato, producendo di volta in volta nuove realtà politiche. L’unico problema con questa argomentazione è che a sua volta adotta gli strumenti della visione storica di Marx. L’innovazione del pensatore tedesco fu proprio quella di sostenere che le relazioni sociali considerate “naturali” e stabili fossero invece specifiche di un determinato momento storico. Il Manifesto presentava il capitalismo come un sistema rivoluzionario, in costante divenire. La borghesia aveva “compiuto ben altre meraviglie che non le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche”; l’obiettivo era quello di distruggere le gerarchie precostituite e le comunità, in vista di una totale mercificazione delle relazioni sociali.
Ciò spiegava anche l’ascesa del movimento operaio. Mentre le rivolte contadine miravano principalmente alla protezione dei consolidati costumi feudali, il movimento operaio aveva il potenziale per plasmare una società nuova e dinamica. Il suffragio universale, i diritti sindacali e la giornata lavorativa di otto ore non erano regalati da capi benevoli o da politici progressisti. Marx seppe riconoscere la lotta di classe nascente e diventare guida di quel “movimento reale che aboli[va] lo stato di cose presente”. L’innovazione capitalista rese inutile scrivere “ricette per le osterie del futuro”, separandosi da questo movimento. Marx derise tanto i piani di credito di Pierre-Joseph Proudhon, quanto i “socialisti utopici” che volevano istituire isole di progresso fuori dalla società esistente. La sua famosa osservazione, “Solo una cosa posso dire, che non sono marxista”, era a sua volta una frecciata al presunto programma “marxista” che si opponeva alle agitazioni per reclamare riforme immediate.
La preoccupazione di Marx per gli sviluppi politici a lui contemporanei gli impedì di produrre una qualsiasi “dottrina” sociale organica. In una lettera del 1858 a Ferdinand Lassalle nominò il Capitale solo come il primo di un’opera in sei parti, che includeva Proprietà Fondiaria, Lavoro salariato, Stato, Commercio Estero e Mercato Mondiale. Tuttavia le sue paure politiche contingenti continuavano a indirizzare la sua opera di ricerca lungo nuove strade, facendo sì che nemmeno il Capitale arrivasse a essere completato.
Nelle sue lettere, Engels faceva spesso riferimento al fatto che Marx non riuscisse a lavorare al Capitale perché coinvolto in altri progetti di ampia portata, come la gestione delle dispute all’interno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, che aiutò a fondare nel 1864, o gli studi del mondo coloniale e delle società arcaiche. La Cina, l’India, la Russia, persino la piccola Irlanda diventarono il fulcro delle ricerche del filosofo, deciso a cogliere il modo in cui il capitalismo si inserisse nelle relazioni pre-capitaliste.
Il pensatore tedesco riuscì a guadagnarsi la reputazione di teorico le cui intuizioni potevano facilmente essere assimilate da altre correnti – incluso, ad esempio, l’uso che gli anarchici fecero del Capitale – nonché quella di leader del movimento internazionale. Nel luglio 1871, la rivista torinese Il Proletario Italiano parlò persino di “Carlo Marx” come di un “uomo astuto e coraggioso a tutta prova. Gite veloci da uno Stato all’altro, continui travestimenti, fanno sì che eluda la sorveglianza di tutti gli spioni polizieschi d’Europa.” Queste parole arrivarono pochi giorni dopo i fatti della Comune di Parigi, l’esperienza più vicina a una rivoluzione della classe operaia durante l’esistenza di Marx. A differenza dell’immagine dipinta da Il Proletario Italiano, quella di un’audace uomo d’azione, essendo bloccato a Londra, il filosofo tedesco non poté avere alcun ruolo in questi eventi, e persino i pensatori a lui politicamente affini furono relativamente marginali all’interno del movimento parigino. Tuttavia, il caso dei socialisti torinesi mette in luce quella tendenza a fare di Marx una leggenda, un totem della causa dei lavoratori internazionali.
Purtroppo, nel ventesimo secolo, una simile mitizzazione di Marx si accompagna allo svuotamento dell’effettivo contenuto critico della sua opera. È facile considerare gli aspetti antidemocratici dei regimi sovietici come la principale causa della loro caduta e della loro distanza dalle idee di Marx. Non serve a molto discutere con chi sostiene che le sue tesi abbiano spianato la strada verso i gulag, in un collegamento simile a quello che lega il Sermone della Montagna all’Inquisizione Spagnola.
Sebbene le esigenze di una filologia marxiana abbiano portato alla pubblicazione di una raccolta di opere, non costituiscono comunque un lavoro organico. Gran parte dei suoi scritti sono frutto di lavoro giornalistico o articoli enciclopedici, alcune delle sue lettere possono essere edificanti tanto quanto la vostra casella di posta su Facebook. Persino quel grande uomo provava rancore, lanciava invettive, o aveva addirittura pensieri apertamente razzisti.Glorificare il filosofo tedesco perché avrebbe creato un sistema totale di pensiero non è molto diverso dal ritenerlo responsabile di tutti i fallimenti del marxismo post-Marx. Ma tale inclinazione non è emersa da sola né ha trovato applicazione al di fuori di un contesto specifico. La gran parte degli Stati comunisti del XX secolo sono nati dalle ceneri di guerre e colonialismo. Perseguivano uno sviluppo industriale sfrenato, anche per proteggere la propria indipendenza. L’accostamento di industrializzazione e progresso sociale aveva in parte radici nel pensiero di Marx. Si potrebbe anche dire che un obiettivo finale così nobile giustificasse i sacrifici del presente, e della loro imposizione su altre persone. Se si parte da una società agricola e arretrata e si è sinceramente convinti di essere sulla buona strada per creare un futuro “sole dell’avvenire”, è normale essere disposti a versare sangue per raggiungere determinati traguardi.
Ma il pensiero di Marx è utile anche per criticare il modello di sviluppo impiegato nei Paesi comunisti dell’Asia e del Blocco sovietico. La sua acuta analisi dell’”alienazione”, sia in ambito economico che religioso, puntava il dito contro la sostituzione di relazioni umane ed egalitarie basate sulla comunità e sull’affinità con la Natura, con altre basate sul culto del mercato e l’esaurimento della vita umana – “lavoro vivo” – per accumulare capitale – “lavoro morto”.
Tali società, e il modello di produzione su cui esse si basavano, non ebbero vita lunga. Tutto ciò che era solido si perse nell’aria: le loro sacre verità furono profanate. Oggi vediamo una nuova, grande rivoluzione all’interno del capitalismo: non solo l’outsourcing della manodopera industriale, ma anche l’ascesa in Occidente di nuove e più precarie modalità di impiego nel settore dei servizi. Questo ha a sua volta contribuito a distruggere le comunità su cui la Sinistra del XX secolo si è basata. All’epoca di Marx, il capitalismo industriale inglese faceva sì che i contadini lasciassero la terra e si spostassero verso le città. Oggi, mentre quello stesso processo sta avendo luogo nell’Asia meridionale e orientale, il capitalismo sta distruggendo le gerarchie consolidate dell’Occidente. E, secondo il pensatore di Treviri, la sua condanna sarà la maggioranza che ha dovuto vendere la propria capacità di lavorare per poter sopravvivere. Tale maggioranza non ha certo le stesse sembianze che aveva nel 1950 o nel 1880: i suoi livelli di organizzazione sono più bassi, ma ciò non significa che sia scomparsa.
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 21/05/18.