Martin Cash: storia di un bandito inglese diventato leggenda in Tasmania - THE VISION
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Hobart, Australia. 29 agosto 1843, ore 20:40. I due uomini in impermeabile hanno il volto coperto da due cappellacci e si fanno strada tra la gente del porto. È il tramonto, i negozi sono ancora aperti; il puzzo di pesce e il fango non impediscono alla gente di andarsene in giro, passando da una locanda all’altra e mescolandosi ai marinai appena sbarcati dalle navi da cui entrano ed escono casse e sacchi di merce. I due si avvicinano a una palazzina di mattoni malmessa, guardano le finestre, poi vedono una coppia di uomini seduta a fumare e gli chiedono qual è la casa di Joe Pratt. Per tutta risposta, uno dei due tira fuori un fischietto per dare l’allarme, l’altro la pistola. I due uomini scappano di corsa, separandosi. Uno viene preso subito, l’altro ha fiato e gambe lunghe. “È Martin Cash”, gridano dietro di lui.

Martin Cash

All’improvviso tutto il paese inizia a inseguirlo. Martin ha trentacinque anni e una taglia bella grossa sulla testa, che fa gola a molti. La sua unica speranza è raggiungere il Queen’s domain, una boscaglia impenetrabile. Con la folla che lo insegue percorre Melville street e gira verso Campbell street, senza sapere che è l’unico vicolo cieco. Perde tempo a tornare indietro e arriva a Brisbane street, dove si trova davanti a Peter Winstanley, un poliziotto fuori servizio. Sparano contemporaneamente e finiscono entrambi a terra feriti, con i cittadini che disarmano Cash e lo arrestano. Dopo due giorni di agonia, il poliziotto muore e Cash viene condannato a essere impiccato per omicidio nel 1843.

Martin Cash era nato da qualche parte in Inghilterra nel 1808 da una famiglia borghese. Aveva studiato e sapeva leggere e scrivere, e probabilmente avrebbe avuto un futuro se a diciotto anni non si fosse innamorato di una ragazza di Enniscorthy, che si guadagnava da vivere facendo cappelli di paglia. La ragazza e sua madre avevano sfruttato la sua ingenuità per estorcergli soldi, dissanguandolo finché la madre di Martin bloccò tutto e lo buttò fuori di casa. Martin cercò conforto dalla fidanzata, ma scoprì che lei stava già con un tale Jessop. In preda alla gelosia, Martin prese una pistola e gli sparò – senza ucciderlo. Il tribunale gli darà sette anni di galera, ma sono tempi molto difficili. 

In Inghilterra la rivoluzione industriale aveva attirato famiglie dalle campagne in cerca di fortuna, ma nonostante le fabbriche spuntassero come funghi non c’era lavoro per tutti. Molti finivano a morire di fame per strada, con la sola alternativa di rubare per vivere. Le prigioni inglesi erano piene da scoppiare e c’era l’Australia da riempire di manodopera a basso prezzo, sacrificabile. Così i carcerati diventavano risorse da deportare, un costante flusso di schiavi che garantiva ai pochi coloni una vita più semplice. Alle donne inglesi per finire deportate bastava arrivare in ritardo sul posto di lavoro o farsi vedere ubriache in pubblico. Anche il furto di uno scellino bastava, se c’era penuria di esseri umani. Gente comune finiva dentro navi-prigione fianco a fianco ad assassini e criminali, con poca acqua e cibo, in un viaggio che durava tra i cinque e i sei mesi. Sopravvivevano solo i più forti.

Martin è uno di questi e arriva a Sydney il 10 febbraio del 1828 assieme ad altri 170 detenuti. Finisce a fare lo schiavo di un proprietario terriero di Richmond che affitta delle fattorie sul fiume Hunter. Non è una bella vita, tra morti di stanchezza, stenti e tentativi di fuga che finiscono sempre male. Un giorno un tale John Boodle gli chiede di aiutarlo a marchiare del bestiame. Martin è ancora ingenuo e accetta senza fare domande. Boodle lo sta imbrogliando; il bestiame è rubato e quando arrivano due vaccari a osservarlo lavorare se ne vanno a riferire di corsa alla polizia: hanno visto il bestiame rubato venire marchiato da un prigionero. Boodle ha usato Martin per scagionarsi e ora da schiavo Martin diventa un carcerato nella prigione di massima sicurezza a Van Diemen’s Land (il nome con cui veniva chiamata l’attuale isola di Tasmania durante il Colonialismo) dove le condizioni di vita sono dettate da John Giles Price, magistrato di Hobart. Martin ci arriva il 10 febbraio del 1837, a ventinove anni.

Il magistrato lo ascolta, non crede a una parola di ciò che dice e aggiunge due anni ai suoi sette, di cui quattro ai lavori forzati a Port Arthur. Martin sa che razza di vita fanno i carcerati. Trasportano tronchi di alberi della gomma per chilometri sotto il sole, tanto che li chiamano “i millepiedi”. Vengono usati per arare i campi al posto dei buoi, o come propulsione per il tram che collega Taranna a Long Bay. Alla prima occasione scappa, ma lo riacciuffano e gli aggiungono altri diciotto mesi. Ci riprova e stavolta arriva quasi a Bass Strait assieme al suo miglior amico Bessie, ma viene catturato e si prende dieci anni di lavori forzati a Port Arthur, la prigione di massima sicurezza. Significa che non uscirà mai.

Prigione di Port Arthur, Tasmania, Australia – foto presa da: https://portarthur.org.au/

La prigione di Port Arthur è un inferno distopico costruito sulle idee di George Arthur, governatore della Van Diemen’s Land e fanatico metodista secondo cui il male può essere estirpato dalle persone annullando loro la personalità. Quindi la struttura viene costruita ispirandosi al famigerato Panopticon di Jeremy Bentham, dove i carcerati sono sorvegliati a vista ogni ora del giorno e della notte. Vengono imbavagliati e gli viene proibito di usare il proprio nome, solo un numero di riferimento. Non ci sono specchi né è possibile riflettersi nell’acqua, né incontrare conoscenti o interagire con i detenuti. In chiesa vengono condotti attraverso un labirinto di pannelli che gli permette di vedere solo l’altare. Quando muoiono vengono seppelliti nell’Isola dei morti, dove su 1646 lapidi solo 180 hanno un nome, quelle del personale carcerario. Fuggire è considerato impossibile.

Panopticon

Port Arthur si collega al resto della Tasmania solo con un minuscolo istmo di terra di trenta metri, l’Eaglehawk Neck, sorvegliato da una fila di cani rabbiosi e incatenati. L’acqua tutto attorno è infestata dagli squali. Le guardie carcerarie sono prigionieri graziati che conoscono ogni trucco, ogni tentativo precedente e hanno tendenze sadiche o psicopatologie causate dall’isolamento. Solo Martin è tanto pazzo da tentare la fuga gettandosi in acqua. Fallisce e lo ripescano, ma così facendo si guadagna il rispetto di due carcerati celebri, Lawrence Kavenagh e George Jones. Sono tipi svegli e adesso, grazie a lui, sanno che non ci sono squali. Almeno non sottocosta. Impiegano mesi a studiare un piano assieme, durante i lavori forzati. 

Immagini tratte dal film “Van Diemen’s Land” (2009)

Nel dicembre del 1842, approfittando del Boxing Day, scappano nel bosco indossando solo divise da carcerati, gli indistruttibili stivaletti all’inglese e la loro determinazione. Fanno 15 chilometri fino all’Eagleclaw Neck, poi si spogliano, fanno un fagotto da tenere sulla testa ed entrano in acqua in pieno inverno, già stanchi e denutriti. Ce la fanno tutti e tre, ma nel tragitto perdono tutto quel poco che avevano. Si trovano nel bel mezzo della foresta tasmaniana con addosso solo la propria pelle, ma non si perdono d’animo.

Immagini tratte dal film “Van Diemen’s Land” (2009)

A piedi nudi camminare è ancora più difficile e doloroso, finché trovano la capanna di un carcerato. Prendono un’ascia che trovano fuori, entrano urlando e lo trovano paralizzato dalla paura. Lo legano, gli rubano cibo e soprattutto le scarpe, quegli stessi sempiterni stivaletti di pelle inglese che possono affrontare qualsiasi terreno. Se ne vanno senza torcergli un capello, dopodiché passano i successivi otto mesi a fare i bushrangers. Derubano uffici postali, taverne e accampamenti, sempre braccati dalla polizia. La fama del terzetto cresce, anche perché i bushrangers sono una sorta di Robin Hood australiani; banditi gentiluomini che si opponevano a una polizia brutale e alle ingiustizie sociali. Li chiamano Cash&Co. e hanno il loro covo a Dromedary, una foresta a nord di Hobart. Vanno in paese spesso, tanto che Martin si innamora di Eliza, una ragazza del posto. Lei però non vuole stare con un bushranger, ma con un uomo perbene. Stanca di un bandito squattrinato lo tradisce con Joe Pratt, un ex detenuto. Martin decide di vendicarsi. S’infila tre pistole nella giacca e si fa accompagnare da Lawrence Kavanagh in città per andare a cercare Pratt e dove compie – trovandosi per sbaglio in un vicolo cieco – il suo primo omicidio. Da allora, Campbell street viene chiamata dalla popolazione “Martin’s mistake”.

William Strutt; Bushrangers on the St Kilda Road, 1887, University of Melbourne Art Collection

Ma di impiccare Martin non c’è verso. Il popolo ama i banditi e i ribelli e le petizioni per salvargli la vita sono continue. Il governatore rimanda l’esecuzione più volte, fino a scrivere a Londra per chiedere il da farsi. Londra ha ben altri problemi, così convertono l’esecuzione in esilio; lui e Kavanagh vengono allora mandati sull’isola di Norfolk, dove Martin sconta la sua pena e si sposa nel 1854 con una donna del luogo. Ha messo la testa a posto e ottiene la libertà vigilata. Per un paio d’anni fa il giardiniere al Royal Hobart Botanical Garden e ha anche un figlio. La vita da brav’uomo, però, gli sta stretta. Nel 1860 si trasferisce in Nuova Zelanda e gestisce un giro di bordelli mentre detta la sua biografia a James Lester Burke fino al 1863, anno in cui diventa finalmente un uomo libero. Ha cinquantacinque anni e non sa cosa fare, così torna in Tasmania, a Glenorchy. Muore per cause naturali a settantanove anni, nel 1877, appena in tempo per vedere la prigione da cui era evaso venire smantellata.


Questo articolo è stato realizzato da The Vision in collaborazione con Blundstone, il cui spirito pionieristico ha reso il brand fondato in Tasmania nella seconda metà dell’Ottocento un’icona della manifattura australiana nel mondo. Con la sua capacità di innovarsi continuamente pur restando fedele alle sue origini, Blundstone rappresenta un vero e proprio modo di vivere, fatto di intraprendenza, creatività e legami con la comunità.

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