Come una performance di Marina Abramović dimostrò che l’essere umano è per natura crudele e violento - THE VISION
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Nella seconda metà del Novecento, alcuni psicologi e sociologi realizzarono esperimenti volti a dimostrare quanto l’uomo fosse naturalmente predisposto a compiere atti crudeli sui propri simili in condizioni favorevoli e quanto il sentimento di compassione fosse più debole del sadismo e della crudeltà fisica e psicologica. Nel 1971, lo psicologo statunitense Philip Zimbardo dimostrò, con un esperimento divenuto famoso, che l’individuo, messo nelle condizioni di poter prevaricare l’altro, non esita a farlo e si rende responsabile di azioni anche molto violente. Circa un decennio prima, un altro psicologo statunitense, Stanley Milgram, dimostrò come l’uomo fosse capace di infierire crudelmente su qualcuno solo al fine di obbedire all’ordine di una figura autoritaria. Negli anni Settanta, però, non fu solo la psicologia a indagare il rapporto dell’uomo con la violenza. Anche l’arte, con le sue potenzialità espressive e un uso del corpo e dello spazio innovativi e provocatori, ha permesso di scavare nei recessi umani per coglierne le miserie celate e quella che sembra essere una spontanea predisposizione alla prevaricazione. In particolar modo Marina Abramović, artista serba naturalizzata statunitense, è giunta a risultati sconvolgenti, che l’hanno consacrata regina assoluta della performing art.

“Rest Energy”, Marina Abramović & Ulay, 4min, 1980, Collezione: Netherlands Media Art Institute

Nel 1974, nella galleria studio Morra a Napoli, Marina Abramović mise a rischio la propria incolumità per dar vita a una performance che si trasformò in un vero e proprio esperimento sociologico, volto a dimostrare il livello di spietatezza che l’essere umano è in grado di raggiungere nei confronti dei propri simili, laddove abbia la possibilità di infierire impunemente. La performance fu allestita così: Abramović si posizionò immobile al centro di una sala della galleria – come fosse un manichino – e mantenne questa stessa posizione per sei ore consecutive. Accanto a sé, in sala, l’artista aveva predisposto 72 oggetti diversi, tra i quali molti oggetti finalizzati a procurare piacere psicologico e sensoriale come fiori, piume, acqua, pane, un profumo, una rosa, e del miele. D’altro canto, furono inseriti tra questi oggetti anche strumenti capaci di procurare dolore, e potenzialmente pericolosi e letali; tra questi spiccavano un coltello da cucina, un coltello tascabile, una sega, uno scalpello, delle catene, un’ascia e perfino una pistola con proiettili. 

Galleria Studio Morra, Napoli 1974

Nella sala in cui si svolse la performance, Marina Abramović aveva apposto un cartello con le istruzioni che i partecipanti avrebbero dovuto seguire. Il cartello recitava: “Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate. Io sono l’oggetto. Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio. Durata: 6 ore, dalle 20:00 alle 2:00”. Abramović mise il pubblico nelle condizioni di sentirsi libero di agire su di lei nella massima libertà, di utilizzarla come un oggetto senza timore delle conseguenze – non solo etiche o morali, ma anche penali – che un comportamento violento o abusante avrebbe comportato. L’artista sacrificò sé stessa e il proprio corpo per alcune ore, accettando qualunque cosa le venisse fatta affinché l’esperimento andasse a buon fine. Il mezzo artistico divenne quindi strumento di osservazione scientifica del comportamento dell’uomo di fronte alla reificazione di un altro individuo – una donna, in questo caso. In quella circostanza, Abramović dichiarò che il pubblico avrebbe potuto anche decidere di ucciderla e lei avrebbe comunque accettato inerme l’esito della performance – che si rivelò sconvolgente.  

Ryhtm 0, Marina Abramović, Galleria Studio Morra, Napoli 1974

Durante le prime ore dell’esperimento il pubblico non assunse comportamenti crudeli, ma si mostrò al contrario esitante di fronte al corpo immobile di Abramović. Alcuni si avvicinarono all’artista per osservarla, altri iniziarono a farle delle carezze a mani nude, altri ancora la sfiorarono con una piuma e presero a farle il solletico. Poi la situazione degenerò e ai danni della performer serba furono perpetrati atti di estrema violenza e crudeltà inaudita. “Inizialmente erano pacifici e timidi”, avrebbe raccontato Abramović, “ma rapidamente è iniziata un’escalation di violenza”. Quando si capì che Abramović non avrebbe davvero reagito ad alcuna azione lesiva nei suoi confronti, ma che sarebbe rimasta inerme subendo qualunque vessazione, il pubblico iniziò a mostrare la sua inclinazione ad assumere comportamenti sadici. Alcuni presero a tagliarle tutti i vestiti che aveva indosso e la lasciarono completamente nuda, altri la spinsero, la trasportarono da un luogo all’altro della sala procurandole vistosi tagli sulla pelle. Più il tempo passava, più le azioni si facevano gratuitamente crudeli: qualcuno le conficcò le spine della rosa nella carne, qualcuno succhiò il sangue dalle sue ferite, altri assistevano passivamente mentre il volto dell’artista si rigava di lacrime. Ma il pubblico fu capace di compiere anche abusi sessuali: Abramović fu legata e palpata da uomini che sfogarono sul suo corpo i propri impulsi sessuali. L’apice della spietatezza si raggiunse quando qualcuno mise in mano all’artista una pistola carica e gliela puntò contro la gola; fu in quell’istante che, di fronte al pericolo concreto che Abramović perdesse la vita, il gallerista si avventò sulla scena, prese la pistola e la lanciò fuori dalla finestra.  

Ryhtm 0, Marina Abramović, Galleria Studio Morra, Napoli 1974

Allo scadere delle sei ore venne annunciato che la performance era conclusa. In quel preciso istante Marina Abramović, ormai devastata nel corpo e nella mente, non solo gravemente ferita ma anche mortificata dagli abusi subiti, prese a camminare per tutta la sala andando incontro al pubblico. E mentre incedeva verso i propri aguzzini, coloro che le avevano procurato un male fisico e psicologico del tutto gratuito reagirono in un modo che dimostrò tutta la viltà e la pochezza umana, incapace di assumersi le proprie responsabilità. Alla vista di Abramović che “prendeva vita”, che da oggetto tornava essere umano, il pubblico arretrò spaventato, si mise quasi in fuga, evitò in tutti i modi di incrociare lo sguardo dell’artista o di avere un contatto ravvicinato con lei. Nessuno ebbe il coraggio di guardare negli occhi serenamente la donna che, poco prima, era stata vittima di abusi e azioni altamente crudeli, perpetrate nella consapevolezza dell’impunità. A questo proposito, la stessa Abramović dichiarò: “Quello che ho imparato è che se ti affidi e ti abbandoni al pubblico, può arrivare a ucciderti. Mi sono sentita davvero violata, si è creata un’atmosfera aggressiva. Dopo sei ore, come pianificato, mi alzai e iniziai a camminare verso la gente. Tutti scapparono via per sfuggire il confronto vero e proprio. È stata la pièce più pesante che abbia mai fatto, perché ero totalmente fuori controllo”. 

Ryhtm 0, Marina Abramović, Galleria Studio Morra, Napoli 1974

Alla stregua di un esperimento sociologico, la performance realizzata da Marina Abramović dimostrò un dato inquietante, ossia che l’uomo è portato ad accanirsi con una violenza inaudita e illimitata su chiunque si trovi in una posizione di subalternità. In quella circostanza l’artista, una delle più provocatrici e anticonformiste del nostro secolo, rischiò la vita per mostrare come chiunque possa rendersi artefice di abusi e atti di prevaricazione, nei confronti di chi sembra più debole o incapace di difendersi. Inoltre, Abramović ebbe modo di dimostrare anche la codardia dell’uomo e la vergogna che questo prova di fronte ai propri comportamenti vessatori, sadici e abusanti; l’individuo è naturalmente predisposto a trattare gli altri come oggetti se ne ha l’occasione, ma poi non ha il coraggio di incrociare lo sguardo della propria vittima, di guardare gli effetti del male che lui stesso ha compiuto. 

Ryhtm 0, Marina Abramović, Galleria Studio Morra, Napoli 1974

La performance rientrò in una serie di sei esperimenti del 1974, volti a indagare il rapporto e le tensioni tra il concetto di abbandono e quello di controllo nell’ambito delle relazioni umane. Abramović, che nel corso della sua ricerca artistica si è sempre spinta oltre il limite del politicamente corretto, nel caso di “Rhythm 0” – questo il nome della performance alla galleria Studio Morra – ha davvero sconvolto il mondo intero, sia per i rischi a cui si è esposta, sia per i risultati ottenuti. Abramović ha usato il mezzo artistico per entrare in contatto con la parte più autentica e insidiosa dell’animo umano; nel farlo non ha utilizzato filtri e non si è posta limiti ma, come nel 1974, ha spogliato l’individuo di tutti i suoi orpelli e delle sue maschere, mettendolo di fronte a uno specchio invisibile e rivelando la crudeltà che lui stesso si rifiuta di vedere. Per questo motivo e per le nuove consapevolezze che ci ha aiutato a sviluppare, quella di Marina Abramović è ad oggi uno degli esempi di arte contemporanea capace di raccontare al meglio non solo chi siamo, ma chi ci vergogniamo di essere.

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