Nel 1986 l’Argentina è in vantaggio di un goal contro l’Inghilterra, che si batte come un leone e potrebbe recuperare. Al 9° minuto del secondo tempo, il numero 10 dell’Argentina tocca la palla; undici secondi dopo l’annunciatore Argentino si mette a piangere in diretta, a tutto il mondo cade la mascella e la Storia del calcio cambia per sempre. Undici anni dopo, in un istituto psichiatrico di Buenos Aires, i pazienti sono seduti in cerchio e parlano con un medico. Sono uomini affetti da ogni forma di psicopatologia e non si fanno scrupoli a deridere o a insultare gli altri. Soffrono di nevrosi, deliri paranoidi e schizofrenia, c’è chi crede di essere Napoleone, chi Gesù Cristo, e nemmeno gli infermieri si trattengono dallo sfottò. A un certo punto, lo psichiatra si rivolge a un uomo piccolo e sovrappeso, con una folta capigliatura nera, e gli domanda di presentarsi. “Io sono Diego Armando Maradona,” risponde. Tutti i pazienti scoppiano a ridere. Gli infermieri no.
Diego Armando Maradona nasce il 30 ottobre del 1960 a Villa Fiorito, un barrio della periferia sud di Buenos Aires. È in questo quartiere che negli anni si sono riversati i nullatenenti di tutta l’Argentina, trasferiti con valigie di cartone per inseguire il benessere promesso dal populismo di Peron che non era mai arrivato. Il padre di Diego è un pescatore di “dorados”. Esce di casa alle sei di mattina e rientra alle dieci di sera mentre la moglie, Tona, si occupa della casa e dei figli. Come i suoi fratelli e sorelle, Diego gioca con quello che ha a disposizione: ruba le zucche dall’orto dei vicini, va a guardare i treni passare o fa partite di calcio con palloni logori che rimbalzano male tra pozzanghere e lamiere delle baracche, su strade di terra battuta e fogne a cielo aperto. In queste realtà degradate l’orrore esterno spesso viene interiorizzato e l’istinto di sopravvivenza fa diventare aggressivi. Il calcio per i bambini diventa fuga e speranza. L’idolo da venerare è Hector Yazalde, un giocatore professionista nato proprio tra quelle case.
La vita sociale di Diego cambia quando lo zio Cirillo, che era stato portiere nella squadra di quartiere, gli regala un suo vecchio pallone. È come se fosse un tesoro. Diego di notte ci dorme abbracciato per paura che glielo rubino, di giorno ci gioca coi coetanei tra cui Goyo Carrizo, il bambino più bravo del quartiere. Anche Diego è sopra la media, e i coetanei non vogliono che loro due giochino in squadra insieme altrimenti vincerebbero sempre. Costretti a giocare l’uno contro l’altro, per battersi Goyo e Diego devono migliorare sempre di più. La domenica vanno allo stadio Bombonera a vedere il Boca Juniores per imparare trucchi e schemi. Un giorno di fine novembre del 1970, un impiegato di banca che per hobby fa il talent scout vede Goyo giocare per strada e gli chiede di fare un provino per l’Argentinos Juniors; Goyo accetta a patto di portare anche Diego. Ai ragazzini sembra un viaggio enorme perché devono cambiare ben due autobus, poi arrivano al campetto di Las Malvinas, dove ci sono decine di autobus che riversano centinaia di bambini e l’allenatore, Francisco Cornejo, fa fatica a trattenerli. Il giorno prima è piovuto e il campo è impraticabile, così l’allenatore dice di aspettare che il sole lo asciughi. Ma i bambini non sono molto bravi a stare fermi, così prendono i palloni e si mettono a palleggiare per i fatti loro. L’allenatore li lascia fare, finché non sente cadere il silenzio. Si avvicina incuriosito e vede i bambini in cerchio a guardare un ragazzino che si fa rimbalzare la palla addosso senza che tocchi mai terra: è Diego. Cornejo è un uomo di esperienza: capisce immediatamente di avere davanti un talento eccezionale e non aspetta che il campo si asciughi, né lascia passare un giorno per pensarci; fa firmare immediatamente al padre di Diego un contratto con i Cebollitas (letteralmente “cipolline”), la squadra ragazzi dell’Argentino Juniors. Goyo, invece, sparisce nell’ombra.
A casa di Diego i soldi sono pochissimi. Le sorelle Ana, Kity, Lili, Mary e Caly mangiano verdure, zuppe cotte nel brodo della carne e, quando capita, uova, mentre la carne è un privilegio riservato a Diego che deve essere in forze. Il padre cerca un secondo lavoro per procurargli scarpe migliori, che Diego consuma a un ritmo frenetico, ma vince sempre: 130 partite di fila, fino a diventare l’idolo del quartiere quando sconfigge la Banda Roja del River Plate, una delle squadre di Buenos Aires con più tifosi, soprattutto fra le classi più abbienti. A 11 anni le TV vogliono che vada a fare i suoi palleggi in diretta, e di questo ragazzino si parla tanto che persino un gigante come Omar Sivori lo va a vedere di persona. Lo chiamano “il Pelè bianco”. Entra in campo con la prima squadra il 20 ottobre 1976, ma non gioca benissimo. È abituato al fango e alla miseria, non agli stadi e alla pressione. Quando lo intervistano dice che vuole giocare nella nazionale, anche se nella sua vita non è ancora cambiato niente. Ha un solo paio di pantaloni lunghi, che tiene da parte per il sabato. Frequenta gli stessi amici del campetto, fa sempre il filo a Claudia Villafane, la figlia del suo vicino di casa. Sa che tutto potrebbe cambiare con la nazionale e ci dà sotto con gli allenamenti, mentre attorno a lui i compagni di squadra iniziano a manifestare segni di invidia. Diego non è uno socievole, ha pochissimi amici e ogni frecciatina la prende male, chiudendosi in camera a piangere.
Il 19 maggio 1978, a 18 anni, viene convocato da Louis Menotti in nazionale tra cinque riservisti, ma poi viene scartato perché è troppo giovane. Per Maradona è un dramma devastante, tanto che pensa di abbandonare il calcio. Suo padre riesce a tenerlo in pista, finché Menotti gli propone di allenarlo. Per lui è un onore gigantesco, che apre un nuovo capitolo della sua vita. Tutto a un tratto Diego è ricco. Può comprarsi scarpe, camicie, pantaloni, portare fuori a cena Claudia e, cosa più importante, portare con sé la sua famiglia di sangue e di quartiere; fa in modo che lo seguano in Uruguay dove si allena, in una casa sulla spiaggia di Atlantida, la prima vacanza che i suoi genitori si possono permettere. Una per genitori e sorelle, una per i suoi amici. A 19 anni va al mondiale degli juniores a Tokyo e vince, lasciando il mondo a bocca aperta; lo Sheffield United chiede all’Argentina di venderglielo e loro chiedono un miliardo e 200 milioni di dollari, una cifra tanto impossibile da significare “Maradona è solo nostro”. Il suo nome e i suoi palleggi fanno il giro del mondo, i poveri di tutti i quartieri ci si identificano.
Nell’ottobre del 1981 Maradona ha 21 anni, e durante una trasferta in Costa d’Avorio è costretto a vivere recluso nella sua stanza dell’Hotel Continental perché i poveri e i disperati delle baraccopoli africane sfidano addirittura le manganellate pur di riuscire a vederlo dal vivo, anche solo di sfuggita, pur di vedere com’è fatto il simbolo del riscatto sociale. Negli anni ’80 c’era ancora la convinzione che le persone fossero sostanzialmente buone e l’hating fosse un’eccezione, non la regola. Maradona non lo sopporta; il calcio che conosceva sembra non esistere più, perso tra i flash dei fotografi, le interviste e i fan. Per la seconda volta, dice a un giornalista di voler mollare.
Lo stesso anno dall’Argentino juniors passa al Boca Juniors, la squadra più importante di Buenos Aires. Il barrio la Boca dalla fine dell’Ottocento, era stato popolato soprattutto da immigranti genovesi: gli abitanti della Boca, e i tifosi del Boca Juniors, si definiscono ancora come Xeneizes, dal ligure Zeneize. La squadra giallo-blu aveva battuto le proposte economiche di Napoli, Barcellona e Juventus principalmente perché la popolazione argentina era insorta, ma l’acquisto aveva ridotto la società sull’orlo del fallimento. Tutti sanno che prima o poi farà il salto di qualità verso squadre professioniste e la famiglia di Diego ne subisce le conseguenze. Inferociti, i nazionalisti insultano il padre per strada, le vicine di casa fanno lo stesso con la madre chiamandola “madre di traditore”.
Anche per questo, Diego passa al Barcellona che lo compra per sette miliardi di lire dell’epoca. È un disastro che dura appena due anni; la prima stagione gioca bene, poi ha un crollo verticale e prende l’epatite, che lo costringe a letto per mesi. Maradona si comporta per quello che è: un ragazzo di strada che ha fatto i soldi troppo in fretta. Occupa interi piani del suo albergo per riempirli di cafoni che scatenano risse col personale, invitano prostitute in stanza, girano come barboni e si ubriacano nella hall. Dal suo quartiere, Diego fa arrivare casi umani che cozzano con la mentalità signorile e lo stile raffinato dei catalani, in una tensione che sfocia sempre più in odio e razzismo. Durante la seconda stagione anche i suoi compagni di squadra gli voltano le spalle, il clima in squadra è talmente teso che non si presenta agli allenamenti, finché il 23 novembre 1983 subisce un fallo orrendo dal difensore dell’Athletic Bilbao, Andoni Goicoetchea. Risultato: frattura del malleolo e rottura dei legamenti della caviglia sinistra. Per alcuni, Maradona è ormai un calciatore finito; eppure viene comprato dal Napoli quello stesso anno per tredici miliardi.
Il 5 luglio 1984, nei quartieri poveri di Napoli, bambini scalzi giocano a calcio per i vicoli deserti cantando una litania che sentono ripetere spesso a scuola. In giro non c’è nessuno, le macchine sono poche e l’unico suono è quello della televisione. Dai bar, dalle finestre delle case e degli uffici, dalle radio, dalle botteghe, non si sente altro. In lontananza, dallo stadio San Paolo proviene un suono che sale e scende alternato da scoppi, colpi di tamburi e fischi. Somiglia alla turbina di un aereo, invece sono le voci di 60mila persone accorse non per vedere disputare una partita, ma per assistere alla presentazione di Maradona. E quando emerge dagli spogliatoi per mettere piede in campo, trema la terra. Se Maradona è suscettibile all’odio, Napoli è l’esatto opposto. Lui stesso racconterà di essere quasi svenuto, perché non aveva mai visto tanto amore, tanta passione, tanta idolatria. Si sente come un bambino che torna a casa, e lo prova anche quando gira per le strade, nei bar, nelle pizzerie, trovando uomini e bambini uguali a quelli che c’erano nel suo vecchio quartiere. In città appaiono striscioni che recitano “Napoli tre cose tene e’ belle: o’ mare, o’ Vesuvio e Maradona”. Per i napoletani Maradona è al pari di San Gennaro. Erano anni in cui tra Nord e Sud Italia c’era un razzismo feroce, gli striscioni contro i meridionali erano all’ordine del giorno e quel calciatore poteva, doveva, essere l’uomo capace di dare un riscatto all’intero Sud.
Maradona la sera mangia sempre nella stessa pizzeria, di notte dorme all’Hotel Royal Continental e di giorno si allena a Soccavo, dove devono stazionare continuamente i blindati della polizia per contenere la folla che fa di tutto per scavalcare i muri e vederlo. Maradona, a questo, risponde a suo modo. La prima stagione porta il Napoli all’8°posto della serie A: nulla di eclatante, ma deve prendere confidenza con l’allenatore e la squadra, che a loro volta devono imparare a gestire le sue bizze da prima donna. La stagione successiva il Napoli arriva al 3° posto e l’amore delle strade è inversamente proporzionale al rapporto di Diego coi giornalisti. Torniamo all’inizio, a quel 9° minuto del secondo tempo dei quarti di finale contro l’Inghilterra. Maradona ha già segnato il primo goal, detto “mano di Dio”. Il secondo arriva con un’azione di 11 secondi, che rimarrà nelle memorie come il goal più bello mai segnato nella Storia del calcio.
Tornato a Napoli, nel 1987 gli fa vincere il suo primo scudetto e la Coppa Italia. È all’apice del trionfo, e iniziano i primi scricchiolii. Diego frequenta boss mafiosi, prostitute, malavitosi di medio rango, e la droga che aveva sniffato per la prima volta dopo aver firmato il contratto col Napoli inizia a diventare troppa. Non è mai stato chiarito se Maradona sapesse o meno chi era la gente che frequentava. C’è la parola di un pentito contro la sua, che dichiara “Se uno mi invita a cena devo chiedergli prima la fedina penale?” Ci sono voci, sussurri di partite truccate per debiti, mezze allusioni o infamie, ma è improbabile Maradona abbia mai accettato una cosa del genere. Tra alti e bassi continua a vincere: il Napoli è stabile al 2° posto, vince la Coppa UEFA a Stoccarda e nel 1990 rivince lo scudetto.
Poi, il 17 marzo 1991, ai controlli antidoping risulta positivo alla cocaina. È la prima volta e la gente scrolla le spalle dicendo che può capitare; ma Diego è a fine carriera, forse lo sa e si sta lasciando andare. Qualche mese prima dei mondiali Usa 1994 è ingrassato e fuori forma, ma gli organizzatori lo vogliono assolutamente perché è la star più grande. Viene fatto allenare da un personal trainer abituato ai culturisti, e quando Maradona appare in campo è in forma smagliante, più che nel 1986. Troppo, per non essere sospetto. Dopo aver segnato contro la Grecia corre incontro alla telecamera urlando come un pazzo. A fine partita l’antidoping lo va a prendere direttamente in campo – una scena mai vista prima – per sottoporlo a un controllo, trovandogli nel sangue dosi massicce di efedrina e squalificandolo. Che fosse una manovra mirata o meno non si saprà mai, ma i tifosi napoletani ci hanno imbastito molte teorie complottiste. I giornalisti gli fanno delle domande e lui per tutta risposta spara contro di loro con una pistola a pallini.
Quando Pelè dice che è un pessimo esempio di sportivo, lui risponde “Che stia zitto, lui che ha perso la verginità con un uomo”. Indebolito dalla droga, tormentato dai giornalisti riguardo al suo figlio naturale, Diego Sinagra – che riconoscerà nel 2007 – si ritira nel 1997 e inizia un lungo percorso di disintossicazione, finendo persino in un manicomio con quell’aneddoto sull’identità che racconterà a Maurizio Costanzo.
Oggi, a 58 anni, dice di aver sconfitto la sua dipendenza: dopo una mediocre carriera come CT, allena i Dorados di Culiacán nello stato di Sinaloa, cioè il cuore del narcotraffico mondiale. Il mondo del calcio è andato avanti e di lui si parla solo se escono video che lo ritraggono quando sembra drogato, ubriaco, o molto ubriaco. Napoli continua ad adorarlo; ancora oggi, se arriva in città la paralizza, mandandola nel caos. I video sotto il suo albergo rendono bene i sacrifici che Polizia, Carabinieri e Finanzieri devono fare per trattenere la folla che lo assedia urlando quella litania che da piccoli cantavano nei vicoli la prima volta che arrivò, nel 1984. Gli hanno anche dedicato un murales, enorme quanto stupendo.