Quei bravi ragazzi
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Bari, giugno 1969

I giudici entrano nella palestra della scuola Aldisio per pronunciare la sentenza su un rilevante processo per mafia. Davanti a loro ci sono 64 uomini provenienti da Corleone tra cui Luciano Liggio, capofamiglia; Salvatore Riina, il braccio destro; Leoluca Bagarella, uomo di fiducia di Riina e Bernardo Provenzano, fedelissimo di Liggio e latitante dal ‘63. Quando i giudici leggono la sentenza, nella palestra parte un coro di risate e applausi: tutti assolti con formula piena o per insufficienza di prove.

Luciano Liggio
Salvatore (Totò) Riina
Bernardo Provenzano
Leoluca Bagarella (cognato di Totò Riina) Photo. Letizia Battaglia

Carcere di Lewisburg, febbraio 1972

C’è una lunga fila di uomini, perlopiù afroamericani, che aspettano il loro turno per telefonare. Si racconta di un bianco esile, con un sigaro in bocca, che salta la fila a passo svelto e arriva di fronte all’uomo che sta telefonando. “Get off the fucking phone, nigger!”, gli dice. L’afroamericano abbandona il ricevitore e se ne va. L’uomo studia con attenzione la fila dei carcerati, incontrando solo occhi bassi. Si chiama Carmine Galante e con calma, prende il ricevitore e fa una telefonata intercontinentale.

Carmine Galante

Stati Uniti, 1973

Edgar Winter suona Frankenstein, e nelle discoteche degli Stati Uniti i vestiti sono di colori sgargianti, ci sono colletti extralarge portati sopra i risvolti della giacca e pantaloni a zampa d’elefante. Immigrati italiani di seconda generazione mescolano le proprie tradizioni a quelle locali, creando una nuova sottocultura; quelli di loro che non conoscono l’Italia direttamente l’hanno idealizzata grazie al libro Il padrino di Mario Puzo diventato subito un bestseller. Nei vicoli di Brooklyn e agli angoli dei quartieri ad alta densità italiana, dove i ristoranti hanno tovaglie gingham e l’aria profuma di pizza e crema da barba, un tempo era impossibile bere qualcosa di diverso dal vino. Negli anni, per attirare clienti stranieri appaiono i primi cocktail fatti coi (pochi) liquori italiani importati mescolati agli spiriti americani come l’Harvey Wallbanger e il Godfather, in onore del capolavoro di Coppola. Ma alcool a parte, le droghe psichedeliche del 1968 avevano reso tossicodipendenti i civili, mentre l’oppio e gli psicofarmaci avevano reso tossicodipendenti i reduci dal Vietnam; nel 1973 un’intera generazione di americani naufragata dai sogni di libertà hippie o dall’orrore della guerra cerca droga. I primi a fiutare il mercato erano stati i francesi, importando oppio dalla Turchia, trasformandolo in eroina a Marsiglia ed esportandolo nelle strade americane servendosi degli italoamericani. Era durata poco; Richard Nixon nel 1971 aveva dichiarato guerra alla droga e la Dea, con l’indagine French connection, aveva stroncato il traffico in poco meno di un anno, lasciando le strade a bocca asciutta e l’intero mercato scoperto. La mafia italoamericana degli anni Settanta ha ancora un suo codice d’onore che fa divieto assoluto di lavorare con la droga, ma dove ci sono regole, vince chi le infrange. Quando Carmine Galante esce di prigione ha 63 anni, una vita passata nel clan dei Bonanno tra omicidi, rapine, contrabbando e un discreto odio verso il suo boss; vuole destituirlo e mettere in piedi un florido commercio di eroina, ma gli servono potenza militare e risorse economiche. Inoltre, toccare la droga significherebbe fare uno sgarro al proprio clan e a quelli rivali: un suicidio, anche perché non è disposto a giurare sulla fedeltà nemmeno dei suoi ultimi uomini. Così ha un’idea: lui è nato a New York, ma i suoi genitori erano originari di Castellammare del Golfo, in Sicilia. Nel 1974 contatta la famiglia d’oltreoceano.

Carmine Galante

In Sicilia, i vertici della gerarchia mafiosa sono detti “la cupola”. Nel 1973 è formata da tre boss: Gaetano Badalamenti, di Cinisi (quello che fece uccidere Peppino Impastato); Luciano Liggio, di Corleone e Stefano Bontate, di Villagrazia. Appena sentono la proposta di Carmine Galante capiscono l’affare e in barba al vecchio codice – che riguardava solo la mafia statunitense – si mettono al lavoro. Un loro uomo a Lugano, Musullulu Yasar Avni, con i conti correnti mafiosi compra tonnellate di oppio dal Pakistan e morfina dalla Turchia, poi li fa arrivare in Sicilia. Qui la mafia convoca i chimici marsigliesi che avevano lavorato nella French connection, e mette loro a disposizione raffinerie. Così iniziano a produrre eroina di alta qualità. Per farla arrivare negli Stati Uniti decidono di avvalersi di Carmine Galante e la sua costante richiesta di nuova “manodopera”.

All’estrema sinistra Gaetano Badalamenti
Luciano Liggio

All’improvviso, nei quartieri italoamericani statunitensi arrivano facce nuove; li chiamano zips, perché parlano solo in velocissimo dialetto siciliano e stanno per i fatti loro, snobbando quella cultura italoamericana imbastardita che, spesso, ha riferimenti italiani fantasiosi od obsoleti. Galante li adora perché sono obbedienti e non hanno collegamenti con le altre famiglie italoamericane, tanto che vuole che la sua scorta personale sia composta esclusivamente da loro. Coi soldi della mafia gli zips aprono centinaia di pizzerie e ristoranti, dove i clienti ai tavoli scarseggiano ma le cucine vengono costantemente rifornite di grosse latte di pelati, sacchi di farina e involtini di mozzarella; che ovviamente contengono eroina. Una volta tagliata viene divisa in buste e messa in mano a grossisti che la distribuiscono ai loro spacciatori per le strade. I ricavi sono stellari, quantificati alla fine in 2000 miliardi di lire; per Carmine Galante che li tiene quasi tutti per sé – considerando gli zips alla stregua di schiavi – e per la mafia siciliana che li lava in Svizzera, grazie a banchieri corrotti o infiltrati come Alfonso Caruana e Pasquale Cuntrera. Una parte viene reinvestita in borsa grazie a un operatore finanziario di fiducia, Vito Roberto Palazzolo. Tutto procede a gonfie vele, finché il 5 maggio 1974 a Milano viene arrestato Liggio. La cupola è un triumvirato e il rappresentante dei Corleonesi non può mancare, così a Liggio subentra il suo uomo più fidato: Salvatore Riina.

Alfonso Caruana
Vito Roberto Palazzolo

Toto Riina

Riina è un animale feroce, un mostro con fattezze umane. Basso, massiccio e con la quinta elementare, parla un italiano stentato ed è a digiuno di qualsiasi capacità imprenditoriale, come quasi tutta la sua cosca. Fino all’arresto di Liggio i Corleonesi campavano principalmente di rapine e contrabbando. Riina non è diverso, ma ha un’ambizione sconfinata e una grande invidia sociale; appena realizza la mole di denaro che gli sta sfuggendo di mano, decide che la cupola e la mafia italoamericana sono un tramite scomodo e decide di diventare “il capo dei capi”, organizzando un golpe su due continenti. Comincia con un’invasione: manda negli Usa migliaia di zips con il benestare di Carmine Galante, che grazie a quel neonato esercito sogna di soverchiare tutte le altre famiglie rivali italoamericane e diventare il capo assoluto di Cosa nostra americana. Quando le altre famiglie mafiose, in Italia e negli Stati Uniti, capiscono che qualcosa non va, è troppo tardi; Riina, con una serie di omicidi ben studiati, riesce a far espellere Gaetano Badalamenti dalla cupola. Badalamenti scappa a San Paolo e dal Brasile riprende il traffico di eroina senza più alcun potere decisionale. Negli Stati Uniti, Carmine Galante diventa un tramite avido e inutile. I suoi sogni di rivalsa vengono stroncati il 20 luglio 1979 quando entra da Joe & Mary, un ristorante di Brooklyn, scortato da due zips. Tre uomini entrano e lo crivellano di colpi lasciandolo a terra col suo sigaro ancora stretto tra i denti. L’autopsia rivelerà nel suo corpo non tre, ma cinque calibri di pistola diversi. Non l’hanno ucciso solo i tre sicari: gli hanno sparato anche le sue guardie del corpo. Ormai gli zips rispondono solo ai Corleonesi. È un golpe talmente folle che nessuno, né in Italia né negli Stati Uniti, lo crede possibile; ed è proprio con l’effetto a sorpresa che la potenza militare dei Corleonesi sta per piombare sul denaro dei Bontate e degli Inzerillo, in una guerra civile che conterà migliaia di morti nel giro di due anni, con una media di oltre uno al giorno.

 

Omicidio di Carmine Galante in un ristorante di Brooklyn

Nessuno sembra in grado di arrestare i Corleonesi e la loro Pizza connection, che crea oltre mezzo milione di tossicodipendenti per le strade degli Stati Uniti. In Italia, lo Stato annaspa nel buio; Boris Giuliano, vicecapo della mobile di Palermo, trova in un appartamento di Palermo quattro chili di eroina. Secondo il catasto la casa appartiene a Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina. Ha già scoperto troppo. Tre mesi dopo, il 21 luglio 1979, Boris Giuliano viene assassinato con tre colpi di pistola mentre beve un caffè in un bar del centro. La stessa sorte tocca al giudice istruttore Cesare Terranova, su cui scaricano un intero caricatore di kalashnikov; e al giornalista Mario Francese, colpevole di aver raccontato cosa succede. Palermo ha gli elicotteri dei Carabinieri sulla testa e l’esercito per le strade, ma non servono a fermare i colpi di pistola o le esplosioni che massacrano indiscriminatamente poliziotti, magistrati, giudici, testimoni e semplici passanti. “Palermo come Beirut”, titolano i giornali dell’epoca. Il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa chiede pieni poteri allo Stato che glieli nega, lasciandolo “solo in un ufficio davanti a un telefono che non squilla”.

Boris Giuliano
Boris Giuliano, secondo da destra, insieme alla squadra di “Guerra alla Mafia”.

Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Intanto, a New York, gli agenti dell’Fbi Louis Freeh e Carmine Russo indagano sull’omicidio di Carmine Galante grazie alla loro unica fonte, l’agente Joe Pistone, infiltratosi nella cosca Bonanno nel 1977 col nome di Donnie Brasco. Pistone in pochi anni diventa un affiliato di Cosa Nostra a tutti gli effetti, ma è in grado solo di spiegare com’è strutturata la mafia, senza arrivare agli effettivi assassini di Galante. La Dea, a Filadelfia, ha più fortuna. Anche loro hanno un infiltrato, tale Stephen Hopson, che riesce a farsi vendere per tre volte dei grossi quantitativi di eroina. Il giudice li autorizza a intercettare le telefonate dello spacciatore e la Dea lo sente chiamare una pizzeria nel Queens, appartenente al clan Bonanno, per rifornirsi. A loro basta per chiudere l’indagine, ma non all’Fbi, per cui queste informazioni sono un tesoro. In un raro caso di collaborazione, la Dea gira ai federali tutto quello che ha. Incrociando i dati, il Bureau riceve l’autorizzazione a intercettare i propri sospetti.

A sinistra Joe Pistone, nome in codice Donnie Brasco
Donnie Brasco
Foto di Sorveglianza del FBI : Da sinistra Donnie Brasco, Benjamin “Lefty” Ruggiero and Tony Rossi della cosca Bonanno. Annotazioni originali di Joseph D. Pistone.
Benjamin “Lefty” Ruggiero

Nel 1980 si accorgono che al telefono i mafiosi parlano con grande deferenza di un fantomatico “zio”. Chi è lo scoprono leggendo i giornali destinati agli italoamericani, quando riportano l’uccisione di un parente “dello zio Gaetano Badalamenti” per mano degli zips. L’Fbi decide di chiamare in Italia per avere informazioni. All’inizio degli anni Ottanta il nostro Paese è molto diverso da quello del 2018; non esistono Google né Internet, ancora pochissime persone parlano inglese e si ricorre agli interpreti, ma l’agente Carmine Russo è siciliano e, soprattutto, dall’altra parte del telefono c’è un magistrato molto intelligente appena arrivato a Palermo: Giovanni Falcone. Invece di rispondere e riattaccare, domanda spiegazioni. Quando si è fatto un’idea, dice all’Fbi che Badalamenti è ricercato sia dalla giustizia italiana che dai Corleonesi, perché vogliono ucciderlo. E dato che stanno facendo la stessa indagine, potrebbero lavorare insieme.

Il magistrato Giovanni Falcone
Antonino “Ninni” Cassarà, Giovanni Falcone e Rocco Chinnici
Questa foto del 21 ottobre, 1986 mostra il giudice Falcone Giovanni Falcone, circondato dalla scorta armata, mentre arriva a Marsiglia per incontrare la sua controparte francese che investiga su cartello criminale Mafioso “Pizza Connection”.
Giovanni Falcone con il collega Giuseppe Ayala sulla scaletta dell’aereo a Fiumicino.

L’Fbi chiede l’autorizzazione al procuratore Richard A. Martin che acconsente; è il primo caso di indagine internazionale con i mezzi dell’Fbi e le conoscenze dello Stato italiano. Servono persone capaci di capire il siciliano, infiltrarsi, ascoltare conversazioni e frequentare i caffè. All’inizio degli anni Ottanta Falcone va e viene dagli Stati Uniti con un ritmo frenetico, diventando buon amico di Freeh e dell’allora procuratore Rudolph Giuliani; i parenti di Badalamenti vengono messi sotto osservazione e i telefoni intercettati, finché il 5 aprile 1984 Pietro Alfano, nipote e braccio destro, con una pizzeria in Oregon, risponde chiamandolo “zio” ed esponendogli un problema. La telefonata viene tracciata in Brasile, dove non c’è estradizione. Per fortuna, il problema di Pietro Alfano è serio e va risolto parlandone di persona: Gaetano Badalamenti gli dice il giorno e l’ora, poi indica il posto di ritrovo con un codice. Pietro mette giù il telefono, poi chiama un’agenzia di viaggi e prenota un volo per Madrid il 9 aprile. Dove invece l’estradizione c’è. Quando l’8 aprile 1984 Pietro Alfano prende l’aereo, dietro di lui ci sono due agenti dell’Fbi in borghese che hanno già avvisato la polizia spagnola. Una volta atterrato lo seguono fino in calle Santa Virgilia 11, in periferia di Madrid, dove assieme a lui arrestano Gaetano Badalamenti. Il giorno dopo la polizia italiana, statunitense e canadese irrompono in pizzerie, ristoranti e case, arrestando tutti. Il 10 febbraio 1986, nell’aula bunker di Palermo, Falcone comincia il maxi processo con 474 imputati. Cambierà il modo di combattere la mafia, introducendo il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Riina non tarderà a rispondere.

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