La nostra percezione del mondo è determinata dal linguaggio: questo è ciò che sostiene la famosa “ipotesi di Sapir-Whorf”. Secondo questa teoria, nota anche come “ipotesi della relatività linguistica”, le parole che usiamo non sarebbero delle semplici etichette, ma uno strumento capace di influenzare il nostro stesso modo di pensare. Questo comporta che, di fronte a una riduzione del numero delle parole e a uno slittamento del loro significato, il pensiero venga ostacolato, e a rimetterci sia soprattutto la nostra capacità critica.
È anche a causa dell’effetto che il linguaggio può avere su di noi che ultimamente si è discusso tanto riguardo alle espressioni con cui il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha fatto riferimento alle centinaia di naufraghi bloccati a bordo delle navi Ong nel Mediterraneo. Persone che stavano fuggendo dalla Libia, dove hanno subito violenze di ogni tipo – venendo sottoposte a gravi violazioni dei diritti umani come la tortura – sono state definite “carico residuale”. Una scelta linguistica disumanizzante, che reifica un’intera categoria, rappresentandola come un oggetto inutile e di cui è pertanto necessario disfarsi. L’uso di queste espressioni, però, contribuisce a normalizzare l’intolleranza nei confronti dello straniero, oltre che a giustificare una politica discriminatoria di respingimento, che mette a repentaglio la vita di persone in una condizione di fragilità estrema, violando peraltro ogni norma del diritto internazionale.
George Orwell, nel suo saggio La politica e la lingua inglese, uscito nel 1946, rifletteva sull’influenza reciproca tra linguaggio, pensiero e politica. Secondo lo scrittore e saggista britannico, il linguaggio politico, con i suoi eufemismi e la sua vaghezza, sarebbe stato infatti concepito per difendere l’indifendibile, far sembrare le menzogne veritiere e in alcuni casi anche l’omicidio rispettabile. Mentre un milione e mezzo di bambini ebrei moriva per mano dei Nazisti e quattro milioni e mezzo di ebrei adulti seguivano lo stesso destino, la propaganda tedesca faceva passare le aggressioni militari tese alla conquista di nuovi territori come “atti di autodifesa” e la Germania veniva dipinta come una potenziale vittima di aggressori stranieri, una nazione amante della pace ma obbligata a prendere le armi per proteggere il suo popolo, o per difendere la civiltà europea dall’attacco del Comunismo. Allo stesso modo, in Italia, solo vent’anni fa, mentre più di 150mila iracheni morivano di morte violenta tra il 2003 e il 2006, si parlava di “missioni di pace”, come sottolineava già nel 2005 il regista Aureliano Amadei nel suo libro 20 sigarette a Nassiriya. Così, in altri contesti, l’espropriazione di milioni di contadini dalle loro terre fu definita “trasferimento della popolazione” e altre parole svuotate del tutto del loro significato, come il termine fascismo, che è andato a indicare semplicemente qualcosa di non desiderabile. Queste stesse riflessioni verranno poi elaborate da Orwell nel suo romanzo 1984, nel quale l’unico modo in cui i personaggi possono esprimersi è la neolingua, l’idioma ufficiale caratterizzato da una grammatica semplificata e un lessico limitato che si riduce ulteriormente di anno in anno. Il risultato di questa comunicazione impoverita, che intorno al 2050 avrebbe sostituito la lingua usata in precedenza, è una diminuzione della capacità di pensiero e la sua totale uniformazione.
Per quanto apparentemente distopica, la riduzione dei vocaboli è stata una delle strategie messe in atto dal regime nazista. In LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Victor Klemperer analizza i caratteri principali della lingua del nazionalsocialismo, teorizzati da Adolf Hitler nel Mein Kampf e dal ministro della propaganda Joseph Goebbels. Si tratta di un linguaggio utilizzato principalmente nella declamazione, talmente semplice e ripetitivo da essere stato assimilato inconsciamente dalla popolazione e da risultare in parte ancora presente. Tra le sue caratteristiche principali ci sono gli eufemismi, come la famigerata “soluzione finale” in luogo dello “sterminio degli ebrei d’Europa”; l’uso di parole volte a disumanizzare alcune categorie di persone, come “materiale umano”; ma anche l’utilizzo di vocaboli appartenenti al campo semantico dello sport per parlare di guerra e il cambiamento del significato di alcuni termini in senso peggiorativo.
Per assistere a una tale degenerazione del linguaggio non è però necessario andare così indietro nel tempo: in un’epoca in cui siamo sottoposti a una quantità di informazioni senza precedenti, lo svuotamento del significato delle parole risulta evidente. È così che nel 2017 la consigliera del presidente statunitense Kellyanne Conway ha definito “fatti alternativi” le false dichiarazioni in merito al numero di persone che aveva partecipato all’insediamento di Trump. Per non parlare di Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York e successivamente avvocato di Donald Trump, che in difesa del presidente era arrivato ad affermare che “la verità non è la verità”. Parole di fronte alle quali lo slogan di 1984 “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza” smette di sembrare un prodotto della finzione letteraria.
Tra il 2016 e il 2018 i termini legati al cambiamento climatico sui siti governativi statunitensi si sono ridotti del 26%. Le politiche dell’amministrazione Trump hanno avuto un impatto tale che, secondo quanto riportato dalla CNN, il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti avrebbe persino stilato delle linee guida che invitavano i suoi dipendenti a evitare espressioni come “cambiamento climatico”. Chi si occupa di clima sa però che è importante non solo parlarne, ma anche farlo in maniera adeguata. È per questo che sia gli esperti che alcuni media stanno cercando da tempo di favorire l’uso di un linguaggio che riconosca a pieno l’urgenza della questione e contribuisca a mobilitare all’azione. Nel 2019 il Guardian, per esempio, ha deciso di sostituire la definizione di cambiamento climatico con quella di emergenza e crisi climatica, mentre in Italia il giornalista scientifico Rudi Bressa raccomanda di evitare espressioni come “apocalisse climatica”, “fine del mondo” o “guerra”, che finiscono per avere un effetto controproducente. Ad essere molto criticato è stato anche il modo in cui i media hanno parlato della pandemia, soprattutto nella sua prima fase, quando gli operatori sanitari venivano paragonati ai soldati al fronte o in trincea e venivano usate di continuo espressioni come “siamo in guerra”. Queste metafore belliche sono state spesso giudicate inadatte, poiché oltre a fomentare il senso di terrore nella popolazione, acuendo il senso del trauma, fanno appello a valori quali il sacrificio, l’eroismo, il patriottismo e la forza più che alla solidarietà tra le persone o alla responsabilità dei cittadini e delle istituzioni, depoliticizzando la questione e portando i cittadini a sentirsi impotenti di fronte all’emergenza.
Ci sono poi contesti in cui alcune parole sono vietate per legge. È il caso della Russia, dove la parola “guerra” è stata proibita a seguito dell’invasione dell’Ucraina, che ha preso il nome di “operazione militare speciale” o, più frequentemente, “operazione speciale”. Un tipo di espediente che ricorda altri conflitti che hanno visto il Paese come protagonista: la prima guerra cecena era stata definita “restaurazione dell’ordine costituzionale”, la seconda “operazione antiterroristica”. A livello interno, nel 2019 ha invece fatto discutere una scelta lessicale operata sempre più frequentemente dai media statali, che definivano le soventi esplosioni di gas nei centri urbani con un termine inusuale, ovvero chlopok, che designa uno schiocco o un botto. Ufficialmente la scelta è stata definita una politica deliberata volta a non seminare il panico tra la popolazione. Come spiegato dal quotidiano online Meduza (dichiarato “agente straniero” nel 2021), l’uso del termine ha subito un’impennata a seguito di un’esplosione avvenuta a fine 2018 nella città di Magnitogorsk, a causa della quale sono morte 39 persone. La testata giornalistica spiega inoltre che la parola chlopok costituirebbe un termine tecnico indicante una rapida combustione non accompagnata dalla formazione di gas in grado di distruggere strutture o impianti. La definizione è quindi in netto contrasto non soltanto con gli eventi che descrive, ma anche con le fotografie delle rovine degli edifici che accompagnano gli articoli in questione.
C’è poi chi la paura cerca di crearla, utilizzandola a fini propagandistici come Matteo Salvini. Non è un caso che il leader della Lega sia stato definito nel 2018 “ministro della paura” dal giornalista Antonello Caporale e “professore della paura” dall’ex Presidente della Camera Laura Boldrini. Salvini è infatti solito utilizzare un linguaggio polarizzante con il quale fa appello a questo sentimento per sostenere le sue posizioni. È in quest’ottica che nel corso della pandemia ha pronunciato frasi come “Il governo sta importando infetti” e “Smettetela di terrorizzare e tenere chiusi in casa gli italiani, che vogliono vivere, amare e sperare senza distanziamento sociale”. Lo stesso principio lo porta a utilizzare ripetutamente termini come “invasione” e “clandestini”, nonostante quest’ultima definizione non possa essere applicata a chi presenta domanda di asilo o protezione internazionale in un Paese o a chi vi transita al fine di recarsi in un altro stato. Quello di Salvini è un linguaggio semplice, caratterizzato da un tono colloquiale, slogan, frasi fatte e domande retoriche. La sua comunicazione sui social è inoltre contrassegnata da un uso eccessivo dei segni di interpunzione e dei caratteri maiuscoli per porre l’accento su una serie di parole chiave, che possono andare da “schifo” a “tolleranza zero”.
Se da un lato, però, le parole utilizzate da alcune cariche dello Stato possono generare conflitti tra i gruppi sociali o portare a crisi diplomatiche, come nel caso delle recenti affermazioni del ministro Piantedosi, dall’altro possono anche assumere un importante ruolo di pacificatore. È quanto avviene in contesti internazionali, dalla stesura delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ai tavoli dei negoziati: il linguaggio è infatti uno degli strumenti imprescindibili per la diplomazia, che fa spesso affidamento a strategie puramente linguistiche, come ad esempio quella dell’ambiguità, che in questo frangente non viene considerata un limite o un difetto ma una fondamentale strategia che permette di trovare formulazioni che possano essere accettate da tutte le parti in causa raggiungendo un accordo.
Il linguaggio, poi, è anche un luogo di lotta e gli oppressi possono usarlo come strumento per riprendere il controllo di sé. È quanto afferma la filosofa femminista bell hooks, che che in Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà esamina la relazione che l’inglese standard ha avuto con l’oppressione sistemica delle popolazioni colonizzate. hooks descrive come gli africani ridotti in schiavitù avessero trasformato in “contro-linguaggio” un idioma utilizzato come strumento di oppressione, alterandolo in una maniera che permettesse loro di rivendicare un proprio spazio in un contesto che li privava di ogni libertà. Nel nostro Paese la sperimentazione linguistica è protagonista del dibattito sul linguaggio inclusivo, che vede da una parte i difensori del maschile sovraesteso e dall’altra chi suggerisce soluzioni come quella dell’asterisco o dello schwa. Tali proposte sono state avanzate in quanto l’uso del maschile plurale costituisce più di una semplice convenzione grammaticale: esso influenza inconsciamente la nostra percezione delle cose, portandoci per esempio a percepire il femminile come indicativo di inferiorità, dunque inadatto a designare professioni e ruoli istituzionali ricoperti da donne.
Il linguaggio che utilizziamo è strettamente connesso alla nostra identità, sia a livello individuale che collettivo, e come cittadini abbiamo il potere di sfruttare la sua capacità per generare visioni alternative del mondo. Occorre quindi riconoscere il motivo per cui una parola viene utilizzata, ciò che designa realmente e il tipo di reazione emotiva che può innescare, in modo tale da poter arginare la deriva comunicativa verso la quale stiamo tendendo ormai da decenni. Le parole hanno il potere di cancellare la verità, la memoria e l’esistenza di intere minoranze, ma possono anche costituire uno spazio di resistenza. È soltanto valutando e interrogando di volta in volta il loro significato, mutevole come il tempo e la cultura, che possiamo impadronirci del nostro pensiero ed essere liberi di affermare che la guerra è guerra, che un aggressore è un aggressore e un aggredito è un aggredito, così come due più due fa quattro.