Due anni fa Mario Fortunato ha scritto un libro bellissimo. Si intitola Noi tre e racconta di lui, Pier Vittorio Tondelli e Filippo Betto, tre ragazzi che “si amarono come ci si ama da ragazzi, senza remore morali né pietà” nell’Italia degli anni Ottanta. L’incipit è fulminante: “A farla breve, questa è la storia di tre ragazzi che, provenendo dalla provincia, la abbandonarono non appena possibile per essere liberi di odiarla, e cioè per per non abbandonarla mai”.
Ci sono molti motivi, immagino, per odiare la provincia. Dico immagino perché io sono cresciuto a Genova, che provincia non è, anche se a volte le somiglia. Scoprirsi omosessuale tra i sedici e i diciotto anni ho sempre pensato fosse un ottimo motivo, tra gli altri, per voler scappare. Doversi nascondere, vivere una vita a metà, subire le chiacchiere maligne dal panettiere. È abbastanza per odiare la provincia, no?
Il fatto è che oggi non è più così e, abituati a raccontare gli alberi che cadono, non vediamo la foresta che cresce. Vivere in provincia da gay, o lesbiche, è ancora difficile per molti: a metà gennaio, a Noto, una ragazza ha denunciato la madre che aveva minacciato di sfregiarla con l’acido per mettere fine alla sua relazione con un’altra donna. È una storia. Ce ne sono molte altre. Forse per questo, la provincia italiana è il luogo dove sta nascendo una nuova generazione di attivisti Lgbt, spesso giovanissimi, a cui mai è venuto in mente di dover lasciare la città dove sono nati per via del proprio orientamento sessuale. Se l’associazionismo è generalmente in crisi, quello Lgbt nelle piccole città non è mai stato meglio di oggi.
Lo scorso gennaio ero a Bruxelles, per un incontro tra gli attivisti Lgbt del nord-ovest e l’eurodeputato Daniele Viotti. Eravamo una trentina. Il più giovane aveva 20 anni e veniva da Alba, dove da pochi anni è attivo un collettivo che si chiama De-Generi e che, insieme al Torino Pride, l’anno scorso ha organizzato la prima parata dell’orgoglio nella cittadina piemontese. Ci sono ragioni molto banali per cui essere gay o lesbica in provincia oggi è più facile che anni fa. Alcune sono evidenti: è cambiato il modo in cui i media parlano di omosessualità, e questo è particolarmente vero da quando abbiamo facilmente a disposizione i canali e le serie tv straniere. I forum online prima e le app di incontro dopo hanno reso più semplice avvicinare persone del proprio orientamento sessuale. Spostarsi è sempre più facile e quasi più nessuno limita la sua vita e le sue esperienza al luogo dove è nato. Tutto questo è vero, ma è solo una parte della storia che spiega perché i gay e le lesbiche sono più visibili, ma non l’attivismo.
Per questo bisogna raccontare come sono cambiati i Pride, le “parate dell’orgoglio” che si tengono tradizionalmente tra maggio e luglio. Fino al 2013, il movimento Lgbt italiano aveva scelto di designare ogni anno una città in cui si svolgeva il Pride nazionale, lasciando poi liberi i singoli territori di organizzare altre manifestazioni di carattere più locale. Dal 2013 tutto questo è stato sostituito dall’Onda pride: niente più parate nazionali, ma una rete di eventi spalmati sul territorio. A quel punto le iniziative sono esplose: nel 2014 ci sono state manifestazioni in 13 città, l’anno scorso 23, quest’anno si sfiora la trentina. Si sfila per la prima volta in Trentino Alto Adige, a Trento, e in Molise, a Campobasso; e poi a Rimini, a Mantova, a Brescia, Siracusa, Novara e molte altre città. L’unica Regione che non ha ancora organizzato un suo Pride è la Val d’Aosta. Ci sono manifestazioni anche a Ostia e a Pompei, dove però il grosso dell’organizzazione è in capo alle associazioni delle città vicine, Roma e Napoli. Ma sono eccezioni: in tutti gli altri casi il Pride è frutto di reti nate sul territorio che organizzano la parata al termine di un percorso che può durare anni.
Paolo Zanella, presidente del circolo Arcigay di Trento, insieme ad altre associazioni Lgbt, come Agedo e Famiglie Arcobaleno, ha lavorato per cinque anni all’organizzazione di un Pride con un’agenda che tocca temi che vanno dall’intersessualità al travestitismo, ma anche l’eredità sessantottina, le migrazioni e la religione. Un vero e proprio festival. “Volevamo prima creare una rete e solo dopo fare il Pride,” mi dice. Da venti persone fisse che c’erano, la cerchia dei volontari che aiuteranno a realizzare questo grande progetto si è già estesa a un centinaio. “Ne conosco di persone della mia età, omosessuali, che sono andate a vivere fuori e sono contente della loro scelta,” continua, “Ma quando tornano qui penso che possano toccare con mano quanto le cose sono cambiate”.
È cambiato anche il modo di fare associazionismo: per anni molti gruppi e associazioni gay sul territorio sono stati soprattutto il luogo – l’unico – dove i ragazzi omosessuali potevano incontrarsi. Oggi questo compito è assolto perlopiù dalle app e dai siti di incontri e dentro le associazioni si liberano tempo e risorse per fare altro: l’organizzazione dei Pride in particolare è diventata un’occasione per aprire il movimento Lgbt all’associazionismo più esteso. Gruppi come Amnesty, Legambiente, Emergency, sindacati, associazioni femministe, organizzazioni universitarie e molte altre ancora sono i principali interlocutori dei ragazzi Lgbt che, da parte loro, iniziano a fare attivismo sempre più spesso, verso i 16-18 anni, concependo il loro orientamento sessuale come una parte di una battaglia dei diritti molto più estesa.
A Siracusa, per fare un altro esempio, sono alla terza parata, e se qui gli eventi collegati al Pride durano meno che a Trento l’appuntamento è però ormai consolidato: “Il primo anno,” racconta Armando Caravini, classe 1987, “sentivo un peso tale che mi veniva da piangere. Adesso credo che abbiamo donato qualcosa a questa città. Durante la parata ancora si vedono, ai margini del corteo, ‘le velate’, omosessuali non dichiarati che fanno finta di trovarsi lungo il tragitto del corteo per caso, ma anche questo sta cambiando. Si va via da Siracusa per cercare lavoro, per vivere in città più grandi dove ci si può divertire di più, ma non per paura di non poter vivere la propria omosessualità”.
A Bergamo i comitati organizzatori sono due e, a fianco delle associazioni, si sono mossi soprattutto i singoli cittadini. “Genitori di figli omosessuali, persone con figli da relazioni eterosessuali che hanno deciso di dichiararsi solo adesso, molti ragazzi, non mi aspettavo una partecipazione così. Per me i Pride qui in provincia sono anche più importanti di quelli nelle grandi città, perché le cose si cambiano qui,” racconta Stefano Ponti, 26 anni, anche lui alla sua prima grande esperienza da attivista. I Pride sono significativi anche da questo punto di vista: aggregano persone non per appartenenza, ma per scopi, disegnano nuovi modi di fare volontariato.
In tutto questo può sembrare strano che il presidente della Regione Lombardia, o il sindaco di Genova, o appunto il presidente stesso della Provincia di Trento, se ne escano con dichiarazioni che non sentivamo da metà degli anni Novanta, come “Non bisogna ostentare”, “Evitiamo carnevalate” e così via. Ma in realtà è normale che per ogni passo avanti ci sia una reazione, anche molto forte. Il racconto del razzismo che conquista la provincia italiana però merita di essere inquadrato meglio. È infatti in corso una trasformazione. Ci sono forze che spingono in direzioni opposte.
Più volte si è parlato di quanto la rete pro-famiglia sia pervasiva sul territorio italiano: la Manif pour tous italiana, Generazione Famiglia, ha alle spalle un lavoro di anni nelle parrocchie che ha convinto parte del mondo cattolico della necessità di opporsi strenuamente a qualsiasi iniziativa gay-friendly. Lavorare sulle questioni di genere con le scuole è diventato sempre più difficile. La saldatura tra tradizionalismo cattolico e destre populiste, soprattutto Lega e Forza Nuova, ha creato un clima di biasimo, quando non di intimidazione, nei confronti delle persone Lgbt. Oggi le minoranze sessuali, al pari di altre minoranze come gli immigrati, pagano nella loro vita privata la radicalizzazione del discorso pubblico. E però, ripetiamolo un’altra volta, questa è la reazione a un movimento che punta a un mondo più aperto, che al momento non è stato spazzato via, anzi.
Si può e si deve sfilare nelle provincie, imparando a ridicolizzare a nostra volta quello che rimane un contro-movimento dai toni goffi e apparentemente anacronistici. L’anno scorso, durante il primo Pride a Reggio Emilia, la contestazione più significativa è stata una processione di riparazione di 250 persone organizzate da un gruppo cattolico che ha pure litigato con la Curia, e ha fatto parlare di sé per un volantino dove abbondano un bel po’ di uomini nudi, in atto di flagellazione. Di tutti, i più “pittoreschi” obiettivamente erano loro.