Per rendere grande l'Italia dobbiamo coltivare l'indipendenza del pensiero, ci insegna Leonardo
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Leonardo da Vinci, nel 1932, sulla copertina della raccolta di saggi di Francesco Savorgnan di Brazzà dal titolo Da Leonardo a Marconi, veniva ritratto con lo sguardo fisso all’orizzonte, la mascella serrata e volitiva e il cipiglio truce. Il mostruoso faceswapping tra le delicate sembianze di Leonardo e quelle spiritate del Duce illustra bene un libro che gli attribuisce tutte le grandi invenzioni della storia all’Italia, e che secondo Antonio Gramsci è un perfetto esempio del meschino sciovinismo italiano. Lo spirito però è congeniale al regime fascista, che nel 1939 organizza a Milano la prima grande mostra dedicata a Leonardo. L’obiettivo, neanche a dirlo, è celebrare il suo “genio universale ed ineguagliato […] e porre in evidenza i legami spirituali che uniscono questo grande realizzatore e creatore alle realizzazioni dell’Italia mussoliniana e imperiale”.

A curare l’allestimento è una figura di prim’ordine dell’architettura italiana, Giuseppe Pagano Pogatschig, che morirà poi da antifascista a Mauthausen nel 1945. Prima che la seconda guerra mondiale sommerga tutto, la mostra viene riallestita al Rockefeller Center di New York e nel 1942 a Tokyo, dove Leonardo è celebrato soprattutto come ingegnere militare. Poco importa se in realtà fosse convinto che la guerra fosse una “pazzia bestialissima”, e se molti dei suoi ordigni, come la balestra gigante, non avrebbero mai funzionato.

Date queste premesse, e il clima che stiamo attraversando, non è poi così drammatico accettare l’idea che in Italia il cinquecentenario non sarà celebrato con un’altra grande mostra. La faranno invece i francesi al Louvre, con le sette grandi opere pittoriche in loro possesso (della ventina che Leonardo ha lasciato), senza le poche rimaste nel nostro Paese, come l’Adorazione dei Magi e il Ritratto di Musico. Sarebbero dovute partire anche loro alla volta di Parigi, ma il sottosegretario alla Cultura del governo pentastellato, Lucia Bergonzoni, le ha fermate rivendicando una sorta di prelazione del nostro Paese. A celebrare la ricorrenza in Italia sarà una serie di mostre minori: a Milano, città del Cenacolo; a Firenze, dove Leonardo ha vissuto; a Torino, dove è conservato il suo Autoritratto barbato; persino a Venezia, dove non riuscirà mai a lavorare, ma c’è il suo disegno più famoso, l’Uomo vitruviano.

Leonardo da Vinci, Uomo vitruviano, 1490 circa; Gallerie dell’Accademia, Venezia

Di quello che forse è l’uomo di genio più noto e studiato al mondo, icona irripetibile della stagione del Rinascimento, pare che nulla di nuovo ancora si possa dire. In realtà la nostra conoscenza di Leonardo progredisce di anno in anno, aprendo spaccati inediti. Fino a non molto tempo fa gli studiosi erano convinti che Leonardo, figlio illegittimo di un notaio, avesse trascorso un’infanzia rurale alquanto semplice nella casa del nonno paterno, Antonio, un campagnolo benestante (nonché evasore fiscale), e che avesse mediato il suo amore per la natura proprio dall’atmosfera bucolica della modesta Vinci. Recenti scoperte fatte da Alessandro Vezzosi nell’archivio di Barcellona raccontano una storia completamente diversa. Prima di ritirarsi in campagna a vita privata Antonio era stato un facoltoso mercante di tessuti in società con il cugino Frosino, uomo di fiducia dei potenti Datini di Prato.

Leonardo insomma non era stato allevato da un bifolco, ma da un uomo ex avventuroso, che aveva esplorato mezzo mondo, che con ogni probabilità conosceva tra le varie lingue l’arabo, e che deve aver colmato l’infanzia del nipote con racconti di meraviglie, di viaggi per mare, mostrandogli portolani di esotici scali e scampoli di tessuti raffinati. Una scoperta che ha indotto gli studiosi a rivedere molte delle loro convinzioni sul giovane Leonardo e la sua formazione.

È sorprendente vedere quanti aspetti della sua ricerca e della sua visione del mondo siano ancora oggi vivi e possano esserci di ispirazione. Duecento anni prima di Isaac Newton, usando un banale otre pieno d’acqua fornito di cannelle orientabili, Leonardo aveva capito che tutti i corpi scagliati in aria cadendo seguono traiettorie paraboliche. Una scoperta che gli avrebbe consentito di pianificare bombardamenti di mortaio molto precisi precisi, tra cui forse anche quello, rimasto negli annali militari, dell’assedio di Novara del 1500.

Artista ignoto, Ritratto di Leonardo da Vinci noto come Tavola Lucana, 1505–1510; collezione privata

Mancando di approfondite conoscenze matematiche, Leonardo non era stato però in grado di utilizzare questa intuizione per fondare una solida teoria del moto, come avrebbe fatto Newton. Questo limite però – ne è convinto il celebre fisico e scrittore Fritjof Capra – è anche la potenza della visione di Leonardo, la sua incredibile attualità. Per descrivere alcuni limitati fenomeni fisici, come il moto dei gravi, Newton aveva dovuto isolarli dall’immenso palcoscenico del cosmo. Leonardo aveva un approccio che oggi definiremmo olistico, molto più vicino alla fisica odierna, che è in cerca di una “teoria del tutto”, in cui la Natura è un grande organismo totalmente inter-relato.

Leonardo ci dà un’altra lezione per il XXI secolo con il suo spirito critico, indifferente a qualsiasi condizionamento, non importa quanto forte e imperante. I fossili che ha trovato in alta montagna durante le sue escursioni gli fanno pensare che il Diluvio Universale narrato nella Genesi non sia una fantasia, ma un fenomeno naturale realmente accaduto nel lontano passato. Poi però si pone domande a cui la Bibbia non risponde: dove è finita l’immane quantità di acqua caduta col diluvio? E per quanta sia stata, quaranta giorni e quaranta notti ininterrotti di pioggia, come è scritto nella Genesi, sono sufficienti a coprire tutta la superficie delle terre emerse, e per la precisione “dieci gomiti” sopra il più alto monte?

Sono domande pericolose per l’epoca, che mostrano come Leonardo fosse, molto prima di Galileo, pronto a lasciarsi alle spalle persino le Sacre Scritture, qualora l’osservazione della realtà dovesse offrire elementi discordanti. E questa è solo la prima delle sue lezioni. Subito dopo c’è il suo stesso modo di vivere, del tutto indifferente al giudizio altrui, la sua visione della sessualità umana, così avanzata, da rendere i cosiddetti “studi di genere” un concetto per educande.

Leonardo da Vinci, Dama con l’ermellino, 1489–1490; Museo Nazionale di Cracovia

La rappresentazione più mirabile del suo punto di vista è l’Angelo dell’Annunciazione, che è anche un ritratto del bel garzone di bottega Salai, il suo eròmenos (ἐρώμενος), a cui lascerà in eredità i proventi della vendita della Gioconda al Re di Francia. La testa sorridente incorniciata da riccioli scuri, un seno appena accennato, e sotto il velo un sesso maschile in erezione, è l’ermafrodito primordiale che conserva l’unità del principio maschile e femminile. È possibile, fa notare lo studioso Carlo Vecce, che per disegnarlo Leonardo si sia ispirato non al mito platonico, ma allo Shiva Ardhanarishvara, cioè androgino, scolpito nella stessa posa nelle grotte dell’isola di Elephanta in India: l’isola dello Stato del Maharashtra era stata esplorata dai Portoghesi nel 1509, e nel Codice F compare un rifermento a una mappa di Elephanta, posseduta da un libraio, che Leonardo probabilmente aveva visto. E proprio agli indiani e alle loro usanze viene accostato Leonardo da uno che lo conosceva di persona, l’esploratore Andrea Corsali, che in una lettera a Giuliano de’ Medici – di cui parla sempre Vecce nel suo libro Leonardo – racconta della sua abitudine, per l’epoca assolutamente eccentrica per gli europei, di astenersi dal mangiare carne. Così come i giainisti del Gujarat che avevano colpito Corsali, in un’epoca in cui uomini del suo ceto andavano pazzi per la caccia e imbandivano tavole con sfilate di ogni genere di animali, dai fenicotteri agli orsi, Leonardo non sopportava il maltrattamento degli animali, e a detta di Vasari a volte comprava addirittura degli uccelli al mercato per liberarli.

Leonardo da Vinci, Annunciazione, 1472-1475 circa; Galleria degli Uffizi, Firenze

Ma certo Leonardo, poi, non fu italiano nel senso in cui lo voleva il regime fascista. Era semmai un curioso viaggiatore, perennemente in moto tra una città e l’altra di una penisola che in quell’epoca era il centro del mondo e la fucina della civiltà occidentale, attento soltanto a scegliersi politicamente i mecenati migliori.

Per questo nel 1503 non si perita di scrivere direttamente al sultano dell’impero Ottomano Bāyazīd II (“Io, vostro umile servo”), proponendosi come l’unico in grado di costruire un avveniristico ponte sul Bosforo. Il progetto non verrà preso in considerazione, forse per la sua straordinaria temerarietà ingegneristica, ma certifica la mente incredibilmente visionaria e senza limiti di Leonardo. Ci sono insomma molte ragioni dell’immensa fortuna che non ha mai abbandonato Leonardo, e del fatto che a cinquecento anni dalla sua morte sappia ancora parlarci con voce così chiara, ma la più importante di tutte forse è che possiamo ancora ammirarlo come esponente di una civiltà molto raffinata e spiritualmente ricca, in cui il sapere razionale, la conoscenza, e l’espressione artistica, nei suoi livelli più alti, ancora non si erano scissi.

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