Perché abbiamo ancora bisogno del latino

È la mattina dell’11 febbraio del 2013, nella sala stampa del Vaticano alcuni giornalisti stanno aspettando che venga proiettato in diretta il video del Concistoro ordinario pubblico. Devono semplicemente appuntare qualche riga su un evento che non riveste un’importanza fuori dal comune. Il Papa e alcuni cardinali devono rilasciare delle dichiarazioni riguardo la canonizzazione di alcuni beati, tra cui i martiri di Otranto. Al termine del Concistoro, il monsignor Marini passa un foglietto a Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, che prende la parola e inizia a leggere in latino.

Papa Benedetto XVI con l’arcivescovo Piero Marini

Tra i giornalisti c’è Giovanna Chirri, vaticanista dell’Ansa, che impallidisce. Conosce bene il latino ed è l’unica ad aver compreso le parole del Papa. Inizia ad agitarsi. Deve subito contattare l’agenzia, sta per dare la notizia più importante della sua vita. Il dubbio di aver capito male per un attimo le attraversa il cervello tanto la notizia è forte, ma invece è proprio così. Avvisa l’Ansa e la notizia flash viene pubblicata: Papa Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni.

Tutti i media del mondo riprendono la notizia fino alla conferma ufficiale del Vaticano. È la vittoria di una “lingua morta” ancora in grado di sovrastare i social, l’inglese e qualsiasi forma e mezzo di comunicazione moderna.

Da anni vengono imbastiti dibattiti sull’utilità del latino nelle scuole, tanto che c’è chi vorrebbe ridimensionarlo, se non abolirlo in toto. L’accusa principale mossa contro il latino è che toglie spazio ad altre materie, come se tutto si riducesse a “latino o matematica, latino o scienze”. Insomma, ci si chiede perché nel 2018 si continui a studiare il latino invece di incrementare le ore di inglese o di un’altra lingua, ripristinare l’educazione civica, la musica e altre materie sommerse. Spesso, per far fronte a queste critiche, i sostenitori del latino si sono aggrappati a motivazioni deboli, come collegare lo studio di questa lingua a un mero potenziamento mnemonico, la classica frase “Il latino aiuta a tenere allenata la mente”. Vero, ma questa funzione può averla anche La settimana enigmistica.

Nicola Gardini, insegnante a Oxford, ha pubblicato nel 2016 Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile. Secondo Gardini, il latino è il codice genetico dell’Occidente e allo stesso tempo il suo sistema immunitario. Lo considera un vanto per il sistema scolastico italiano, un esempio di pedagogia avanguardistica. Fa un parallelismo interessante con l’archeologia: “Quello che salta fuori dallo scavo entra in contatto con un tempo diverso. Donde la necessità di capire il reperto, ricollocarlo nel suo contesto, usarlo per capire che cosa è avvenuto tra il suo tempo e il nostro”. Il latino ha a che fare con la nostra identità, con le nostre radici.

Nicola Gardini

Non sempre è immediata per lo studente – col cervello pieno di lupus-lupi-lupo e obbligato a tradurre le infinite descrizioni di spostamenti di truppe del De bello gallico – l’importanza dello studio di questa lingua. Spesso si riduce tutto all’imparare una lingua straniera, senza però alcuna utilità evidente nella vita di tutti i giorni.

La sorte del latino è ironica, visto che rappresentava un inglese ante litteram. Era infatti una lingua universale che ha consentito per secoli agli studiosi e ai potenti di comunicare tra loro in tutta Europa. Galileo ha scritto in latino il suo Sidereus Nuncius, e in generale tutto il mondo scientifico si è appropriato di questa lingua come mezzo. Quell’impronta è rimasta anche oggi, intrinseca al nostro modo di pensare, catalogare e fare ricerca. Basti pensare alla classificazione delle specie. Anche Dante scrisse il De vulgari eloquentia per mostrare la bellezza della lingua volgare, e lo ha fatto in latino.

Dante in un dipinto di Domenico di Michelino parte della collezione del Duomo di Firenze, 1465

Oltre alla questione storica è fondamentale quella linguistica a sé stante. Tradurre una versione impone uno sforzo logico sulla costruzione delle frasi che si riversa anche nella lingua italiana. Lo studio della grammatica latina aumenta la fluidità del proprio italiano, fa apprendere al meglio la consecutio temporum e allarga gli orizzonti linguistici. Il centro della discussione sta proprio sull’attualità del latino, ma ci si dimentica che è una lingua che non necessita di tornare in auge, poiché non è mai realmente scomparsa. Il nostro modo di parlare, e quindi di pensare – anche se non sempre è evidente – viene da lì. La reprimenda di coloro che ne ostracizzano lo studio è pronunciata in una lingua che è l’evoluzione del latino, se ne facciano una ragione. Se il latino non esistesse, loro non esisterebbero.

In questa diatriba c’è chi sostiene che sia utile reintrodurre il latino anche nelle scuole medie, per lo meno come insegnamento opzionale extra-curriculare. Il latino alle medie è stato abolito nel 1977,  dopo una discussione durata decenni. Molti erano infatti rimasti scottati dall’appropriamento ideologico del latino durante il Ventennio fascista. Per fortuna adesso questo collegamento è sbiadito, e se qualche nostalgico ha tatuato sull’avambraccio “Dux mea lux” non si fa più nemmeno caso alla lingua, quanto alla formula. Come diceva Gramsci: “Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita.”

Antonio Gramsci

Tornando allo studente alle prese col De bello gallico, è bene ricordare come una certa avversione non sia esclusivamente associata ai pareri sull’utilità di questa lingua ai giorni nostri, quanto semmai legata alle modalità con cui questa viene insegnata. È il solito discorso dell’impostazione – e dell’imposizione – scolastica. Ne ha parlato anche Umberto Eco nel suo libro ll costume di casa. Evidenze e misteri dell’ideologia italiana: “Sono molto contento di avere imparato il latino, anche se sono scontento del modo doloroso con cui mi è stato imposto.”

Sarebbe quindi costruttivo un discorso sulla didattica, sullo svecchiamento dell’insegnamento del latino e sul modo di farlo apprezzare agli studenti, e invece si sentono solo vuoti anatemi che trasudano retorica contro il latino nelle scuole. Che poi “nelle scuole” in realtà si riduce esclusivamente “ai licei”. Se proprio odi il latino – prima ancora di sapere di cosa si tratta – puoi sempre iscriverti in una scuola dove non rientra nel programma di studi, ce ne sono moltissime. Se invece vuoi fare il liceo, forse dovresti chiederti come mai è previsto che tu passi le giornate sulle declinazioni e i non solum sed etiam. Ma questi sono discorsi che potrebbero essere applicati a qualunque materia, anche la Storia dell’arte se l’è vista brutta. Seguendo questo ragionamento potremmo dire che nel 2018 non serve a niente studiare le gesta di Carlo Magno, e che le equazioni di Maxwell probabilmente non torneranno utili nel corso della vita. E magari potrebbe anche essere vero, non è tanto un problema di contenuti, ma di metodo. Bisogna essere consapevoli e non perdere mai di vista il motivo per cui si studiano certe cose, e passarlo agli studenti, per innescare un meccanismo di apprendimento consapevole e non passivo.

Carlo Magno in un ritratto di Caspar Johann Nepomuk Scheuren del 1825, Neues Stadtmuseum, Germania

Forse sapere fero-fers-tuli-latum-ferre non servirà a trovare il lavoro dei sogni – a meno che non si ambisca a diventare un vaticanista dell’Ansa – ma ad accrescere il nostro bagaglio culturale e umano sì. Conoscere e tramandare la nostra cultura non vuol dire imbalsamare il passato, semmai restare ancorati al continuum della Storia e delle sue innumerevoli forme. Bisognerebbe cambiare prospettiva e considerare il latino per quello che è: una scienza. La scienza della parola e della nostra identità.

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