In principio era lo “shish”, l’incomprensibile mugugno dell’inglese balbettato di Matteo Renzi in un famoso e parodiato discorso del 2014. Non che prima i politici avessero fatto di meglio, da Rutelli a La Russa, passando per Fassino e Berlusconi: almeno in questo l’inglese è bipartisan. Sembra che i nostri leader e la lingua più parlata nel mondo occidentale non siano mai andati d’accordo. Le mancanze della nostra classe dirigente, però, riflettono una generale carenza della conoscenza dell’inglese da parte dell’intera popolazione italiana.
Non è solo una sensazione, ci sono i dati a dimostrarlo. Secondo il report annuale dell’EF EPI (English Proficiency Index), l’ente che rileva il livello di conoscenza dell’inglese, la padronanza della lingua da parte degli italiani è fra le più basse d’Europa. Siamo 36esimi al mondo e 26esimi nel continente, staccati di venti punti dal gruppo di testa (Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca) ma anche di dieci punti da Paesi che hanno implementato nei programmi scolastici lo studio della lingua solo negli ultimi decenni, come la Polonia e il Portogallo. Fra le maggiori economie dell’Eurozona – Germania, Francia, Italia e Spagna – siamo quelli che parlano peggio la lingua del commercio.
Non va meglio se prendiamo in considerazione la classifica delle grandi città: l’area metropolitana che parla meglio l’inglese è quella di Milano. Ma, pur essendo il più importante centro finanziario italiano, questa città si attesta alla 35esima posizione, lontanissima non solo dalle città baltiche, ma anche da Berlino, Parigi, Madrid e Lisbona. Qualche posizione sotto compare Roma; le altre città italiane non sono nemmeno pervenute. A livello regionale, se Emilia Romagna, Lombardia, Friuli e Toscana guidano la classifica, attestandosi sulla media europea, scendendo più al Sud le percentuali calano: in fondo alla classifica troviamo Sicilia, Molise, Calabria, Puglia e Basilicata. L’ennesima dimostrazione di come i giovani del Meridione abbiano meno possibilità di competere sul mercato del lavoro. Siamo in una situazione di difficoltà che mal si concilia con la natura globalizzata del mondo in cui viviamo.
L’origine del problema va ricercata in due direzioni: una di natura culturale e l’altra di natura sistemica. Sul piano culturale l’inglese viene ancora visto come una materia di serie B, qualcosa che si può apprendere in maniera raffazzonata, quel che basta per cavarsela in un contesto lavorativo o in una vacanza all’estero, dove sfoggiamo la nostra sintassi stentata incuranti dell’ilarità che suscitiamo. Nel mondo del terziario avanzato è in uso un florilegio di anglicismi che donano una patina di esoticità a ciò che può essere detto meglio in italiano: così un incontro diventa un meeting, una riunione finisce per essere un brainstorming, e un concorso si trasforma in un’open call, senza contare le forme ibride come “briffare” o “pitchare”. Allo stesso modo lo slang giovanile è pieno di termini presi dal mondo americano. Queste abitudini ci danno l’impressione di sapere l’inglese, ma non è così.
Mentre il gergo della quotidianità si riempie di lemmi stranieri usati non sempre nel contesto giusto, come succede con certe formule latine – e ciò rimarca essenzialmente la poca familiarità con la lingua straniera, perché certi termini vengono usati solo per tentare di simulare un certo status – la capacità di parlare e comprendere la lingua continua a rasentare lo zero. Tanto più che c’è ancora chi, come il sedicente filosofo Diego Fusaro, vede nel mancato interesse per le lingue straniere un tentativo di salvaguardia della nostra cultura, una ridicola resistenza alla fantomatica “colonizzazione linguistica”, come se evitare le lingue straniere aiutasse qualche fantasiosa crociata sovranista. Diverso invece il senso di #dilloinitaliano, la petizione lanciata dalla sociologa Annamaria Testa contro gli anglicismi forzati di cui sopra e gli appelli di tanti traduttori e professionisti del mondo editoriale che mettono in guardia contro il “traduttese” quell’italiano fatto di calchi e profondamente impoverito che parliamo sempre più spesso senza rendercene conto
Con queste premesse non stupisce che l’inglese sia insegnato poco e male nelle nostre scuole. Secondo i dati dell’EF EPI solo il 30% degli studenti degli istituti secondari pubblici, medie e licei, raggiunge il livello B2, ovvero il livello di apprendimento minimo richiesto dal mercato del lavoro e iniziale requisito d’accesso per molte università straniere – che di solito, nel corso del primo anno, una volta ammessi richiedono agli studenti di raggiungere il C1. Particolarmente arretrata è la situazione dei tecnici e dei professionali in cui – al contrario dei licei, che vedono un 40% di studenti in grado di padroneggiare il B2 – solo il 20% ha competenze soddisfacenti. Non sorprende poi scoprire un’Italia divisa in due anche in questo campo: se nelle aree urbane il 40% degli studenti raggiunge il B2, nelle scuole di provincia la percentuale si riduce al 25%.
Ma il dato più interessante riguarda il divario tra scuola pubblica e istituti privati: se, come abbiamo detto, nella pubblica solo 1 studente su 3 possiede un livello di inglese minimo, nelle private quasi il 50% raggiunge il B1 e il 40% arriva al B2. Le private possono vantare anche le più alte percentuali di studenti che padroneggiano i livelli C1 e C2, un 20% che nelle pubbliche si assottiglia a poco meno del 10%. Le scuole italiane sono sotto la media europea, e solo la scuola privata mantiene il passo delle altre nazioni. In Europa più del 60% degli studenti raggiunge il B1, il 50% arriva al B2 e il 20% dei liceali si attesta sul C1. Nella scuola pubblica italiana l’inglese è derubricato a materia di secondaria importanza, una competenza che sarebbe meglio acquisire ma che non è strettamente necessaria, al contrario di altre materie principi come l’italiano o la matematica.
Questo ritardo si accumula dalle medie ai licei e diventa evidente, e in certi casi incolmabile, unito all’analfabetismo funzionale, all’università. Questo genera alcune situazioni paradossali. Nel 2018 è arrivata una sentenza ai danni del Politecnico di Milano che ha costretto l’università a implementare nella propria offerta corsi di studio magistrali e dottorati anche in lingua italiana, dal momento che l’ateneo, sfruttando una legge del 2010, aveva deciso di convertire gradualmente tutti i corsi magistrali in inglese per aiutare i propri studenti ad acquisire le competenze indispensabili nel mondo del lavoro nazionale e internazionale e contribuire a creare un ambiente internazionale, attirando anche studenti dall’estero. Per i giudici questa si è trattata di discriminazione ai danni di chi non conosce la lingua straniera, una sentenza che in linea teorica può essere anche giusta ma che attesta allo stesso tempo la sconfitta del sistema scolastico secondario, incapace di formare i giovani in maniera adeguata al presente.
A sintetizzare il panorama italiano ci avevano pensato, a commento della sentenza, gli stessi vertici del Politecnico: “L’insegnamento in inglese non lede il diritto allo studio, ma favorisce il diritto al lavoro. La conoscenza della lingua inglese diventa essenziale per i giovani al momento della transizione tra università e lavoro. Per questo l’inglese al pari delle altre competenze garantisce il diritto al lavoro”. Quello del Politecnico è stato un tentativo di dotare i propri studenti degli strumenti per competere, al pari dei loro coetanei stranieri, nel mercato del lavoro internazionale. Ma è chiaro che l’università non si può addossare interamente un processo lungo e stratificato come l’apprendimento approfondito di una lingua straniera. Dovrebbe essere compito del sistema scolastico obbligatorio, tramite una pianificazione che interessi gli alunni sin dall’asilo, momento in cui si forma l’orecchio interno dell’essere umano.
I vecchi metodi di insegnamento tradizionale sembrano non essere efficaci: concentrandosi esclusivamente sulle competenze di grammatica fine a se stesse gli insegnanti sembrano non riuscire a far appassionare gli alunni alla materia, facendo loro capire l’importanza del parlare diverse lingue, che non riverbera solo sul loro futuro professionale ma sulla maniera di concepire e comprendere il mondo.. E allora ecco che bisogna correre ai ripari con costosi corsi privati, quando ce li si può permettere, cercando di ottenere certificazioni in tutta fretta e con uno sforzo notevole. Così, per l’ennesima volta, ci appare chiara una cosa: che la scuola italiana anche in questo caso ha fallito il suo obiettivo formativo.