Se si volesse scegliere un’immagine in grado di fare da copertina a quel periodo prodigioso a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta che oggi chiamiamo miracolo economico, sarebbe quella riflessa dagli specchietti retrovisori di una Fiat 600 sulla strada verso le spiagge affollate della riviera in un afoso giorno d’estate, o ancora l’automobile stessa, ritratta in ben 350 film diversi, primato su tutte le altre auto italiane protagoniste del nostro cinema. L’utilitaria di punta della Fiat – pensata da Dante Giacosa e realizzata nel 1955 dalla casa automobilistica che trainò l’industrializzazione del Paese – è il simbolo di una rivoluzione che se all’inizio fu economica, divenne subito di uso e costume e quindi culturale. La cartolina descritta sopra contiene già la storia del periodo più allegro che l’Italia abbia mai conosciuto. Questo simbolo a quattro ruote del benessere goduto, anche quando ottenuto a suon di debiti e cambiali, incarna quel particolare ottimismo, motorizzato e ruspante, che ha caratterizzato un periodo promettente nel suo sfrecciare sull’autostrada della modernità, che fu reale prima ancora che metaforica. Si pensi infatti all’autostrada del Sole, inaugurata nel 1964, che collegando Milano a Napoli univa l’Italia più di quanto non fosse stato in grado di fare Cavour cent’anni prima.
Gli italiani del boom non riuscivano a stare fermi, le possibilità, i sogni e le speranze erano troppi. La smania di vivere che li invase a partire dalla fine degli anni Cinquanta si esprimeva in un evadere e un consumare che, inventando il concetto di vacanza e di villeggiatura, creavano anche anche quello di tempo libero e di denaro “sprecato”. Era un’Italia mondana, sognante ed esterofila, filoamericana per consumi culturali ancor prima che per presa di posizione politica o presunta riconoscenza storica, che si lasciava alle spalle un passato agricolo tanto recente quanto sbrigativamente rinnegato. Dismessa in pochi anni l’etichetta di “Paese sottosviluppato ad economia principalmente agricola” e ottenuta quella di “potenza industriale mondiale”, gli italiani dimenticarono che solo poco tempo prima si usava dire che quando un contadino mangiava un pollo o era malato il pollo o era malato il contadino, così come al recente passato di ristrettezze e fatiche, fatto di quotidianità opaca e casalinga, che fondava il suo esistere sull’arte della riparazione e della manutenzione – abbondavano infatti gli arrotini, i ciabattini, gli spazzacamini e le sarte, abili nel rammendare e aggiustare un tessuto, letterale e figurato, ormai lacerato dagli infiniti utilizzi.
Se all’inizio degli anni Cinquanta il risparmio e la parsimonia non erano virtù ma piuttosto semplici necessità per sbarcare il lunario, verso la fine del decennio si impose rapidamente l’imperativo dello spendere; ne è il simbolo la televisione, oggetto chimerico e futuristico entrato nelle case di milioni di famiglie stravolgendo abitudini e orizzonti, suggerito dai “consigli per gli acquisti” e dalle affissioni pubblicitarie onnipresenti e pervasive, a cui si prestavano i migliori illustratori. Gli oggetti iniziano a imporre in breve tempo la loro presenza, comprimendo il passato e iniziando a essere desiderati e sostituiti a un ritmo inedito. È una società, quella di massa, non solo a proprio agio con le novità, ma più curiosa che diffidente, desiderosa di possedere tutto ciò che è nuovo, dal frigorifero all’asciugacapelli, per sentirsi al passo coi tempi, parte di una rinascita.
A progredire non è però solo quell’industria che produce in serie beni durevoli, ma anche i settori che affermano la preminenza della conoscenza umana sul mondo: il primo trapianto di cuore in Sudafrica fa pensare che anche la morte, un giorno, possa essere debellata, così come sembra essere stata debellata la miseria materiale. Gli italiani non sono più denutriti, anzi, iniziano a fare la dieta. Non hanno ancora finito di pagare la prima casa che già sognano la seconda vista mare. I sogni sono fatti di ciò che vende la pubblicità. Il target non è più solo l’alta borghesia – che nel primo Novecento dominava il commercio e ne era anche il primo cliente – negli anni Sessanta si impone, si amplia – grazie soprattutto ai nuovi ricchi – e si stabilizza la classe media.
Quella che oggi definiamo “società di massa” è proprio dovuta all’allargamento della sfera dei consumatori. Non solo migliorarono le condizioni economiche, ma l’accresciuta scolarizzazione e la diminuzione delle ore lavorative crea un pubblico – o, per meglio dire, un mercato – composto da individui-consumatori che hanno più tempo da dedicare allo svago e più denaro da destinare a ciò che trascende la sussistenza. A fare però di quella società – prima divisa e sfaccettata tanto in classi quanto in micro-realtà culturali – una sola massa pressoché indistinguibile sono i mezzi di comunicazione, in grado di superare i confini limitati del faccia a faccia.
La rivoluzione in questo senso era già cominciata tra le due guerre con la radio e il cinema sonoro, ma la vera protagonista è la televisione, strumento in grado di diffondere in tutto il mondo le immagini di un evento nel momento in cui si svolge. Se a noi ormai appare ovvio, settant’anni fa era un prodigio. Prima della televisione, peraltro, era impensabile che l’immaginario e il consumo culturale di un giovane romano fosse lo stesso di quello di un giovane newyorchese, ma anche una distanza minima come quella tra la città e la sua provincia poteva determinare esistenze estranee e culture diverse. Prima che la televisione uniformasse curiosità, conoscenze, paure e desideri, ciò che all’individuo era concesso di vedere e immaginare era il prodotto della confinata realtà particolare in cui si trovava fisicamente. Se infatti il primo Novecento può dirsi l’epoca delle grandi folle – laddove la folla è un insieme di persone che si trova insieme nello stesso luogo fisico – la seconda metà del secolo è invece il tempo della massa, un insieme di individui che rivolgono la loro attenzione a uno stesso stimolo pur non essendo compresenti fisicamente e spesso senza nemmeno doversi mai incontrare. La televisione, in questo senso, ha annullato le distanze, omologato le abitudini e imposto una nuova forma di intrattenimento collettivo dove l’immagine prevaleva sulla parola scritta, ampliando il sapere comune di un’Italia ancora molto frammentata. “L’ha detto la tv” diventa la frase preferita da ogni italiano che voglia garantire una certa autorevolezza a ciò che ha appena detto agli amici.
Si pensi a Carosello, l’ormai leggendario programma pubblicitario andato in onda senza interruzioni sul Programma Nazionale per vent’anni e a cui le famiglie italiane assistevano strette intorno al televisore poco prima di andare a dormire. Quei dieci minuti di trasmissione alternavano una serie di filmati – quasi sempre sketch comici o intermezzi musicali – seguiti da messaggi pubblicitari. Sebbene non fosse un mero contenitore di consigli per gli acquisti, la fruizione di contenuti di intrattenimento e pubblicità inizia a fondersi. Ciò non solo unisce gli italiani omologando il loro ridere e il loro godere di un prodotto audio-visivo, ma li lega anche in nome degli oggetti che iniziano a desiderare, per la prima volta in maniera collettiva e massificata. A Carosello parteciparono in veste di registi e sceneggiatori nomi illustri del cinema italiano, da Ermanno Olmi a Sergio Leone fino a Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini. Così, mentre l’arte dell’intrattenimento si fa industria, lo spettatore assume sempre più il valore commerciale di un “consumatore in potenza”.
A capirlo bene e in fretta fu l’industria musicale, che forse per prima scoprì e inventò “i giovani” come target di riferimento. Anche qui la rivoluzione si è potuta compiere grazie all’affinarsi della tecnologia: l’high fidelity e la stereofonia. Ma fondamentale è anche la fruizione condivisa della musica: dal jukebox – che diventa protagonista di ogni bar – ai primi night-club dove si poteva ballare il twist e il rock’n roll. Le tendenze erano dettate dal mondo anglosassone: il fenomeno dei Beatles rese evidente la necessità di concepire la cultura come una vera e propria industria, e non più come una forma, per così dire, “artigianale” e spontanea di creazione. Il “popolare”, fatto di divi del cinema e rock star, si libera così della connotazione folcloristica del “tradizionale”, diventando il “pop” – inteso come fenomeno trasversale e collettivo.
L’avvento del pop è però anche l’avvento dell’omologazione. Se infatti i beni di consumo, tanto materiali quanto culturali, iniziano a essere prodotti in serie e pensati per un consumatore medio – che è, in potenza, un qualsiasi lavoratore ambizioso – ecco che la società finisce per assomigliare sempre di più a un coacervo di individui che aspirano allo stesso standard, promuovendo un’estetica e un atteggiamento alla moda e quindi vincente, perché largamente riprodotto. La questione dell’omologazione culturale divenne così centrale nel dibattito di quell’élite intellettuale che seppe vedere, in anticipo sui tempi, i segnali premonitori di un declino antropologico e sistemico che sarebbe deflagrato negli anni Settanta. Registi e scrittori diedero infatti conto, molto prima che il miracolo economico rendesse evidente la sua seconda faccia, dei rischi che il consumismo imperante portava con sé, ovvero di quel suo essere portavoce, per l’appunto, dell’“impero” – quello statunitense capitalista – che avrebbe fagocitato aspirazioni e costumi in nome di un solo mito: il denaro e il suo moltiplicarsi. Ciò che veniva messo in risalto, anche da parte dei filosofi della Scuola di Francoforte come Theodor Adorno, con la sua definizione tutta negativa dell’“industria culturale” – era la componente manipolatoria che la macchina dell’intrattenimento era – ed è – in grado di esercitare sullo spettatore-consumatore.
Tra tutti gli intellettuali italiani, quello che criticò più strenuamente la società del boom economico fu certamente Pier Paolo Pasolini, che evidenziò più volte, anche in televisione, la natura “fascista” – e cioè violenta e distruttiva – della società consumista e della cultura di massa. La lucidità e la preveggenza del giudizio che gli intellettuali, specie quelli marxisti, riservarono a questi tempi “miracolosi”, osando suggerire che si trattava di anni abbaglianti e non veramente luminosi, non fu però in grado di fermare il fenomeno ormai fuori controllo del consumismo. Quando gli italiani, all’inizio degli anni Settanta, furono costretti a scendere da questa giostra luccicante – avvertendo un senso di stordimento, quando non di vera e propria nausea – sarebbe stato troppo tardi per ripensare a un modello di crescita che non fondasse la propria funzionalità sul consumo vorace di cose superflue.
A quel tempo contraddittorio e infantile, ma anche straordinariamente allegro e ricco di stimoli che furono gli anni d’oro della Fiat 600, oggi invidiamo più di tutto l’ottimismo. Non solo la ricchezza, quindi, ma quel particolare stato di euforia carica di speranza che si prova il primo giorno che si apre la finestra e ci si accorge che l’inverno è finito. Per una generazione come la nostra, abituata a pensare al futuro come qualcosa di incerto, ma certamente povero di opportunità, è facile cedere al fascino nostalgico di un’epoca in cui tutto sembrava possibile. Nel giudicare gli anni del miracolo italiano, però, è bene tenere a mente che se furono un conglomerato di virtù, intelligenze, desideri e ambizioni che portarono l’Italia al benessere di cui ancora oggi per certi versi godiamo, rappresentarono anche un’epoca incapace di prevedere il declino economico e culturale che sarebbe seguito e a cui ancora adesso non si è in grado di porre rimedio.