Sembrava che l’invidia fosse un sentimento quasi esclusivamente femminile, almeno secondo uno stereotipo in voga fino a poco tempo fa. Si credeva fossero le donne ad alimentare invidie reciproche, al contrario degli uomini, capaci di praticare la solidarietà maschile; d’altro canto, le donne provavano invidia anche verso il sesso maschile, che monopolizzava ruoli apicali e carriere prestigiose che alle donne, quand’anche capaci e meritevoli, erano preclusi. Oggi, seppur soltanto in parte, alcune cose stanno cambiando; sebbene siamo ancora molto lontani dalla parità di genere, soprattutto in ambito professionale, è vero anche che le battaglie per i diritti delle donne stanno dando alcuni frutti, specialmente sul piano della consapevolezza delle donne stesse che, in numero sempre maggiore, rivendicano il diritto alla libera realizzazione e all’indipendenza. Insomma, sono sempre di meno le donne pronte a rassegnarsi a una subalternità attribuita a priori, e sempre di più quelle disposte a non retrocedere di un millimetro in tema di accesso ai diritti. Anche a causa di questo fenomeno, sta iniziando a proliferare la cosiddetta invidia vaginae, che affligge sempre più uomini. Questi si stanno rivelando incapaci di tollerare che le donne ottengano ciò che gli uomini hanno sempre avuto: la possibilità di essere, e di diventare, ciò che vogliono.
Ad analizzare per la prima volta il sentimento di invidia dell’uomo verso la donna, da un punto di vista psicologico, fu Karen Horney, psicanalista tedesca che nella seconda metà del Novecento gettò le basi della psicologia femminista. Alle teorie di Freud, e in particolare al concetto di invidia del pene, Horney contrappose il concetto di “invidia dell’utero”, sentimento ancestrale che gli uomini proverebbero per le donne, a causa della loro capacità riproduttiva. Secondo Horney gli uomini, invidiosi della possibilità solo femminile di creare la vita all’interno del proprio grembo, hanno tentato per reazione di prevalere sulle donne nel corso del tempo e, in questo modo, di riacquistare potere e affrancarsi da quella subalternità percepita. Negli articoli che compongono la sua opera Female Psicology – pubblicati postumi nel 1967 – la psichiatra tedesca si schiera contro le teorie che volevano la donna sottomessa per natura, portatrice di un’innata inclinazione alla dipendenza e bisognosa di protezione da parte dell’uomo; ma cosa più importante, secondo Horney la subalternità femminile sarebbe un prodotto culturale derivato proprio dall’invidia che gli uomini provano da sempre per le qualità e facoltà dell’altro sesso.
In seno all’invidia dell’utero di cui parla Horney, sarebbe nata dunque non solo la mitologia della donna debole, inferiore, bisognosa di una figura maschile forte al proprio fianco per poter condurre una vita adulta; ma anche quella del sesso femminile portatore di peccato, di male e distruzione, come la letteratura simbolico-religiosa ci ha raccontato. Per spiegare la comparsa del male nel mondo, Esiodo ha dato vita a Pandora, forgiata su ordine di Zeus, e che, con le sue arti femminili, aveva tratto in inganno l’umanità intera seminando sofferenza e sciagure. Anche la Bibbia attribuisce le origini del male, e la conseguente fine di un mondo incontaminato e idilliaco a Eva, colpevole di essere caduta in tentazione mangiando il frutto proibito e di aver trascinato il marito sulla via della perdizione.
L’iter culturale che, attraverso i secoli, ha sancito l’inferiorità della donna – da sempre oggetto della misoginia sia da parte di uomini che di altre donne – sarebbe stato quindi innescato da un sentimento di deprivazione maschile ripreso anche dalla femminista Valeria Solanas nel manifesto SCUM, pamphlet politico pubblicato nel 1968. Con tono volutamente provocatorio, in questo manifesto Solanas profetizza l’eliminazione del maschio, che definisce inerte, banale e portatore di conflitto, ma che considera soprattutto un errore biologico, prodotto da una serie incompleta di cromosomi. Il cromosoma y, secondo Solanas, è infatti in realtà un cromosoma x incompleto; l’uomo sarebbe dunque una donna mancata e, per questa ragione, proverebbe invidia per il sesso femminile. Le posizioni di Solanas in proposito risultano estremamente radicali e la sua figura è stata nel tempo oggetto di aspre critiche, anche a causa della sua personalità controversa e della sua vita per molti aspetti esecrabile. Le parole scelte da Solanas sono violente, contestabili proprio perché rispondono al patriarcato con il suo stesso linguaggio violento e prevaricante. Va detto, però, che quanto scritto da Solanas è in parte il prodotto di secoli di sopraffazione e, seppur contestando la violenza intrinseca del suo contenuto, il suo pamphlet è stato parzialmente riscoperto da alcune femministe per avvalorare le teorie che si schierano tuttora contro le logiche del patriarcato. Inoltre, è il suo concetto di maschio deprivato di qualcosa e che, di conseguenza, prova invidia per la donna dotata di ciò che a lui manca, che fa eco a quell’invidia sopracitata.
Oggi, il concetto di invidia dell’utero teorizzato da Horney, e il sentimento di cui parla provocatoriamente Solanas, si possono riscontrare in un diffuso atteggiamento maschile di più o meno intenso fastidio verso le donne. E non tanto per la loro effettiva indipendenza, poiché sappiamo che, in Italia, raggiungere l’indipendenza economica per una donna è spesso ancora molto complicato, poiché mancano le condizioni minime affinchè ciò accada. Ma poiché, dopo secoli in cui moltissime donne non si permettevano neppure di sognare un destino diverso da quello di mogli e madri di famiglia, magari compiacenti e accondiscendenti, oggi stanno conquistando il diritto all’ambizione. Vogliono essere libere di scegliere per sé, di costruire la propria vita, di realizzarsi anche lontane dalle quattro mura domestiche.
Ne ha recentemente parlato la psicoterapeuta Maria Letizia Bellaviti, dando una propria definizione di invidia vaginae che starebbe (ri)emergendo negli ultimi tempi, e il cui significato amplia e attualizza quanto teorizzato da Horney a proposito dell’invidia dell’utero. Bellaviti sottolinea infatti quanto un tempo si parlasse solo di invidia al femminile, persino nelle fiabe, mentre oggi sono gli uomini a nutrire una forte invidia verso tutte quelle donne “che hanno più successo di loro, che sono multitasking, che riescono a far fronte a diversi aspetti della vita, dalla famiglia alla carriera”. Suona tra l’altro anche un po’ ridicolo che gli uomini invidino alle donne la loro capacità di essere multitasking, poiché questo non è un assunto biologico ma un costrutto sociale: dalle donne, purtroppo, si chiede solitamente di occuparsi di molte cose contemporaneamente, dalla famiglia al lavoro, in misura decisamente maggiore rispetto all’uomo. Basterebbe che gli uomini condividessero con le donne tutti i lavori e le attività legate alla cura degli altri – che ancora oggi, invece, sembrano appannaggio esclusivo delle donne – e molto probabilmente si scoprirebbero multitasking anche loro.
I nostalgici del patriarcato non si rassegnano all’emancipazione femminile e alla perdita della supremazia aprioristica degli uomini, così sfogano il loro risentimento sulle donne che, a volte, finiscono addirittura per sviluppare una sorta di senso di colpa per le posizioni che hanno raggiunto o il successo ottenuto. Se il successo professionale procura agli uomini stima e ammirazione sociali, l’ambizione e la realizzazione professionale femminili, in alcuni casi, continuano a non essere viste di buon occhio, anzi, come tempo sottratto a cose ben più importanti. L’invidia vaginae infatti suscita in molte donne un senso di inadeguatezza, che le porta a pensare che se cavalcano l’onda dell’emancipazione e si impegnano per la propria realizzazione rimarranno probabilmente sole; la pressione sociale che vuole le donne “regine del focolare” è così forte che, per quanto emancipate, non è detto che queste non avvertano a un certo punto un conflitto interiore tra i propri bisogni e le aspettative altrui. Va detto che una donna può effettivamente sentirsi realizzata e appagata dedicandosi esclusivamente alla famiglia e ai figli, ed è vero anche che la vita di qualsiasi persona adulta si basa su una scala di priorità e, di conseguenza, comporta delle rinunce; ma queste rinunce devono essere il frutto del libero arbitrio e di scelte consapevoli, sia quando a farle sono gli uomini, sia le donne. Spesso, invece, non accade questo, perché le donne possono sentirsi forzate a rinunciare a qualcosa che per loro è importante a causa delle forti pressioni esterne.
Mentre compiamo qualche piccolissimo passo verso l’agognata parità di genere, che ancora oggi appare un’utopia più che una realtà concretamente realizzabile, assistiamo alla proliferazione di una dannosa invidia verso tutte quelle donne che, finalmente, scelgono il proprio futuro e si impegnano per raggiungerlo, e che per questo vengono spesso accusate di egoismo ed egocentrismo, di incapacità di prendersi cura degli altri e di rimanere, zitte e buone, in quell’angolino nel quale la società ha da sempre deciso di relegarle. Dovremmo prendere coscienza di un concetto semplice ma che spesso ci sfugge: gli uomini che guardano al successo delle donne come un fallimento personale, possono solo lavorare sul proprio senso di inadeguatezza – così come tutte le persone che provano un sentimento d’invidia, siano uomini o donne. L’inversione di tendenza che sta conducendo sempre più donne sulla via dell’indipendenza sta risvegliando quella primordiale invidia di cui, però, non possono ancora una volta farsi carico, né pagarne lo scotto, l’ennesimo.