Ogni tentativo di insegnare a scuola qualcosa che non siano le nozioni di storia o le equazioni nel nostro Paese incontra sempre un’avversità trasversale, che va dai conservatori che invocano subito indottrinamenti e teorie del complotto, agli scettici che considerano pseudoscienze se non antiscienze tutto quello che si discosta leggermente dal dominio della scuola come pensata da Gentile nel 1923. Però adesso sono passati quasi cent’anni e il mondo è andato avanti, e sarebbe giunta l’ora di insegnare ai bambini – cioè agli adulti di domani – alcune cose che torneranno utili tanto quanto e se non di più della data della guerra del Peloponneso, ad esempio gestire le proprie emozioni.
Nel 1995 lo psicologo Daniel Goleman ha elaborato la sua celebre teoria dell’intelligenza emotiva. Osservò che le persone di successo non erano quelle col QI più alto, quindi le più intelligenti secondo il nostro sistema di valori e che, se il mondo fosse davvero governato dalla meritocrazia o dal tanto invocato “buonsenso”, dovrebbero essere quelle che ci indicano la via. Goleman si convinse che dovevano essere altre qualità a rendere una persona “davvero” intelligente nel senso etimologico del termine, cioè dal latino “intŭs legĕre”, capire le cose oltre la superficie. L’intelligenza emotiva, dalla definizione del suo primo libro sul tema edito in Italia nel 1997 (anche se l’espressione era già stata usata in passato da altri psicologi), è la capacità di conoscere le proprie emozioni, gestirle, motivarsi, riconoscere le emozioni negli altri e sviluppare rapporti interpersonali di successo.
Con la parola “successo” Goleman non si riferisce al raggiungimento di chissà quale status economico-sociale, ma alla nostra quotidianità: avere amicizie durature, un lavoro che ci soddisfa o una relazione che ci appaga. L’intelligenza emotiva si basa su cinque pilastri: la self awareness, cioè la consapevolezza delle proprie emozioni, la self regulation, cioè la capacità di gestirle, la motivation, cioè la spinta a comportarsi in un certo modo perché lo si vuole veramente e non perché qualcuno dice di farlo, l’empathy, cioè la comprensione dei sentimenti altrui e infine la socialization, la messa in pratica di tutte queste qualità nelle situazioni sociali.
L’intelligenza emotiva non è innata, ma appresa. L’amigdala è la parte del cervello responsabile della risposta istintiva ed emozionale a un certo evento. Il famoso psichiatra Bessel Van Der Kolk la definisce infatti “l’allarme antincendio” del nostro corpo: di fronte a una minaccia, come ad esempio durante un litigio, l’amigdala si allarma e risponde con il rilascio di adrenalina e cortisolo, provocando il cosiddetto “sequestro emozionale” o “amygdala hijack”. Anche a livello fisico si possono notare delle conseguenze: i muscoli si irrigidiscono, il collo e la mandibola si tendono, si è pervasi da una sensazione di calore a livello lombare e si sente il sangue affluire verso le guance. Intanto, la nostra memoria diventa fallace: quando siamo arrabbiati diventiamo confusi, aggiungiamo dettagli e cose mai successe, non ricordiamo le esatte parole pronunciate dagli altri. Secondo Goleman, si può “allenare” l’amigdala a rispondere in modo diverso a tali situazioni tramite l’intelligenza emotiva, e sarebbe meglio farlo sin dai primi anni di vita.
Un ottimo modo per sviluppare l’intelligenza emotiva è descrivere le proprie emozioni. Sempre nel caso di un litigio, prima che intervenga il “sequestro emozionale”, è utile spiegare perché quello che ha fatto l’altra persona ci ha feriti, anziché accusarla di averlo fatto. Dare un nome alle emozioni, secondo Goleman, ci aiuta a razionalizzare ciò che stiamo vivendo e a impedire che l’istintualità aggressiva prenda il sopravvento. È poi importante stare a contatto con le persone, in particolar modo per coltivare le amicizie da adulti, che sono molto difficili da mantenere o, ancora peggio, da trovare. 1 adulto italiano su 8 si sente solo, mentre il 13,2% degli over 16 non ha nemmeno un amico. In questo caso, è la motivation a essere la caratteristica dell’intelligenza emotiva determinante, non solo per trovare la voglia di uscire di casa e vedersi con gli amici, ma anche per creare occasioni di incontro, ad esempio frequentando la palestra, iscrivendosi a un corso o facendo attivismo.
La teoria di Goleman è stata molto criticata: secondo alcuni, l’intelligenza emotiva non è una vera intelligenza, mentre secondo altri il modello di valutazione del QE (quoziente emotivo) è troppo soggettivo e quindi non è affidabile quanto quello del QI (quoziente intellettivo). Un’altra critica che è stata fatta è che l’intelligenza emotiva confonde dei tratti della personalità con delle virtù morali, sottintendendo che le persone che hanno questa caratteristica siano anche migliori delle altre. Ma proprio perché non stiamo parlando di una facoltà data una volta per tutte, ma di qualcosa che si può allenare, l’intelligenza emotiva non è un modo per classificare gli individui in buoni o cattivi. Gli scettici – come la personalità di riferimento dell’alt right Jordan Peterson, psicologo e professore universitario – sostengono addirittura che l’intelligenza emotiva sia una truffa, perché, a suo parere, i leader dell’economia e della finanza sono in realtà cattivi e senza scrupoli, e per questo non possono che essere, secondo Peterson, anche i più intelligenti. Goleman però ha più volte specificato che l’intelligenza emotiva non è tanto un metodo per creare leader di successo, quanto più un modo per essere più sereni, coltivare amicizie e relazioni durature e migliorare la nostra quotidianità.
Negli ultimi anni, la teoria di Goleman si è espansa ed è andata ad abbracciare il tema dell’ambiente. In Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia, scritto con Lisa Bennett e Zenobia Barlow, lo psicologo racconta le strategie educative per sensibilizzare i bambini alla crisi climatica e al rispetto degli ecosistemi, estendendo i principi dell’intelligenza emotiva “classica” a tutti gli esseri viventi. Queste strategie consistono nello sviluppare empatia per tutte le forme di vita, ridimensionando la concezione umanocentrica; adottare la sostenibilità come una pratica comune, che mette assieme la vita di esseri umani, piante e animali; rendere visibile l’invisibile, cioè prendere in considerazione gli effetti delle nostre azioni sull’ambiente anche quando non sono sotto i nostri occhi e di conseguenza anticipare conseguenze non volute e, infine, capire come la natura sostiene la vita, misurando l’impatto dell’uomo sull’ecosistema.
L’intelligenza emotiva quindi non è uno strumento che permette soltanto di raggiungere un benessere personale, ma collettivo. Da qualche anno alcune scuole hanno provato in via sperimentale a inserire nei propri programmi alcuni corsi di intelligenza emotiva. Uno studio su 82 istituti dagli asili alle scuole medie negli Stati Uniti, Europa e Regno Unito, per un totale di 97mila studenti, ha rilevato che gli alunni coinvolti in questi programmi avevano voti più alti dell’11% rispetto agli altri all’università e del 6% alle scuole superiori, a prescindere dal loro QI. Sono risultati sorprendenti, soprattutto nelle scuole anglosassoni dove gli studenti vengono continuamente valutati con test di intelligenza, logica, di personalità o attitudinali che spesso determinano l’ingresso all’università. Ma gli effetti si sono visti anche dopo, con tassi di criminalità più bassi del 19% e incidenza di problemi di salute mentale ridotta del 13,5%.
Nelle classi italiane, l’intelligenza emotiva non è ancora una prassi consolidata. Il 1° marzo dello scorso anno, la deputata di Fratelli d’Italia Maria Teresa Bellucci, della Commissione affari sociali e della Commissione per l’infanzia e l’adolescenza, aveva presentato una mozione per invitare il governo a portarla nelle scuole. Il 29 gennaio è stata invece approvata alla Camera la cosiddetta “legge sul bullismo” che, all’art. 7, stanzia 200mila euro all’anno per i prossimi due anni per implementare la piattaforma Elisa, per la formazione dei docenti sull’intelligenza emotiva e sulla comunicazione non violenta. È ancora molto presto per valutare i benefici di queste iniziative, ma certamente si tratta di un segnale positivo in una scuola ancora troppo spesso ferma alla riforma Gentile.