Nel 1929 il ventiduenne Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle, dopo tanti rifiuti pubblica a sue spese il romanzo Gli indifferenti. Questo giovane rampollo della migliore borghesia romana usciva da poco da una lunga degenza, che lo aveva costretto a curare la tubercolosi ossea presso un sanatorio di Cortina D’Ampezzo. I lunghi anni di malattia – le prime avvisaglie si palesarono intorno ai nove anni – avevano reso impossibile proseguire gli studi per cui, dopo aver preso con grande difficoltà la licenza ginnasiale, Moravia si ritirò da scuola e non potendo condurre la vita dei suoi coetanei occupò gran parte delle ore che aveva a disposizione con la lettura: “Ricevevo un pacco di libri ogni settimana,” disse, “e leggevo in media un libro ogni due giorni”. Dostoevskij, Kafka, Molière, Manzoni, Mallarmé erano tra i suoi autori preferiti. Il giovane imparò presto il francese, l’inglese e il tedesco ed entrò in contatto anche con le dottrine di Freud e Marx.
In questo clima di studio e analisi profonde, Moravia iniziò la stesura del suo primo romanzo: “Essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso, Gli indifferenti furono un modo per farmi rendere conto di questa mia condizione”, sono queste le sue parole nel saggio L’uomo come fine. Il romanzo Gli indifferenti narra un momento particolarmente misero nella vita di una famiglia non più benestante, gli Ardengo. Mariagrazia è vedova e convive in una grande villa con i figli Carla e Michele. La loro quotidianità è accompagnata dalla presenza di altri due personaggi: Lisa e Leo, rispettivamente l’amica e l’amante della signora Mariagrazia. Il libro si apre con le avance spregiudicate che Leo Merumeci rivolge a Carla in totale disprezzo dei già precari equilibri che reggono i rapporti all’interno del nucleo familiare e con la notizia che, dato il dissesto economico in cui sono caduti, lo stesso Merumeci acquisterà tutti i loro beni all’asta, compresa la casa. La storia è un susseguirsi di bassezze che i personaggi si infliggono senza neanche il gusto della crudeltà, solo per noia, per incapacità di prendere posizioni nette. L’apatia morale dei protagonisti, che permette di compiere vergognosi compromessi, è indice della perdita di ogni responsabilità nei confronti degli altri, di una chiusura personale, sociale e politica.
Moravia ebbe l’impulso di raccontare un’Italia che aveva vissuto l’agio della rivoluzione industriale e che era terrorizzata di perdere i suoi privilegi, un’intera classe sociale non disposta a rinunciare ai suoi rituali borghesi ma che intanto si consegnava all’avidità di nuovi affaristi – veri e propri avvoltoi che il fascismo nutrirà – come appunto il personaggio di Merumeci. La lettura più agghiacciante del libro però è quella che riguarda i due personaggi più giovani. Carla e Michele sono due ventenni accomunati da un’arrendevolezza anacronistica considerata la loro età, sono paradossalmente più conservatori del mondo stantio che li circonda. In particolar modo Carla, umilia i suoi cari per un mero tornaconto personale: cede al corteggiamento libidinoso di Merumeci anche se non lo ama affatto, perché è l’unico in grado di assicurarle una vita da signora. Michele, dal canto suo, è un eroe romantico ma solo in potenziale, non ha la verve che gli permetterebbe un gesto salvifico per sé e per le donne della sua vita. È un personaggio castrato, l’unico che potrebbe apportare un significativo cambiamento alla storia ma che non lo fa, perché non ne ha il coraggio. L’indifferenza in cui si sono crogiolati per anni, li ha resi inermi, ipocriti, stanchi prima ancora di combattere. Sono metafora dell’Italia che ha permesso l’avvento del fascismo per disinteresse della politica e degli intellettuali, e che ha cercato vilmente di normalizzare il partito fascista pensando di poterlo contenere, ma non fu così.
Dopo questo sorprendente esordio giovanile – da cui fu tratto anche l’omonimo film diretto da Francesco Maselli – Moravia ritornò ancora sul dramma etico, psicologico e sociale dell’Italia contemporanea. Con il consolidarsi del regime fascista, gli indifferenti diventano i conformisti. Nel libro pubblicato nel 1951, intitolato appunto Il conformista, Moravia descrive un ulteriore passo avanti nel degrado morale che affligge il Paese. Influenzato sempre più dagli studi di Freud sulla sessualità e sui rapporti familiari, Moravia racconta le vicende di Marcello, un giovane che si mette a disposizione del regime non per passione politica ma per emulazione. Marcello è ossessionato dal concetto di normalità. Sin dall’infanzia si sente un diverso, ha il terrore di provare pulsioni e istinti non conformi a quelli dei suoi coetanei e che la madre non accetterebbe. L’omosessualità latente è un tema presente ma mai espresso ad alta voce all’interno del romanzo.
Moravia plasma un personaggio complesso e descrive le difficoltà di quel grande momento storico narrando le vicissitudini private di un singolo. Marcello da ragazzino è vittima di un tentativo di abuso da parte dell’autista Lino, che poi ucciderà. Non verrà mai incolpato, ma il fantasma della tragedia vissuta lo perseguirà per tutta la vita, spingendolo alla ricerca disperata delle “divinità gemelle della rispettabilità e della normalità”. Il protagonista, infatti, sposa una donna insipida e ignorante, acquista un appartamento popolare e diventa impiegato della polizia segreta del partito fascista: “Che altro poteva essere infatti la verità se non qualche cosa a tutti evidente, da tutti creduta e ritenuta inoppugnabile”, scrive Moravia, “Come una conferma da fornire a se stesso e agli altri della propria normalità che tale non era se non veniva, appunto, approfondita, ribadita e dimostrata continuamente”. Un giorno i superiori gli ordinano di uccidere, durante il viaggio di nozze che Marcello e la sua sposa hanno programmato a Parigi, un suo ex professore dell’Università antifascista, e lui accetta: emerge, tragicamente, l’incapacità di dire di no.
La storia raccontata dallo scrittore romano contagiò, anni dopo, l’immaginario del giovane regista Bernardo Bertolucci che plasmò un film tutt’ora iconico per aver reso omaggio all’impianto narrativo di Moravia, approfondendolo e arricchendolo con la bellezza delle sue immagini. I tempi attuali sono diversi dall’epoca descritta da Moravia solo per aver sviluppato una tecnologia che agli inizi del secolo scorso era inimmaginabile, ma i meccanismi, gli impulsi e le paure che guidano l’umanità sono ancora gli stessi. Lo psicologo Erich Fromm, padre dell’Umanesimo socialista e profondo conoscitore di Marx e Freud – nei quali ravvisava un’affinità di visioni – scrisse nel suo saggio Fuga dalla libertà di stare in guardia dal ritorno dei fascismi perché le condizioni che ne hanno consentito l’affermazione sono ancora vive nell’uomo moderno: senso di irrilevanza e paura d’isolamento. “Abbiamo fatto notare le condizioni economiche che favoriscono nella nostra epoca il crescente isolamento e la crescente impotenza dell’individuo,” scrive Fromm, “esaminando i risultati psicologici abbiamo dimostrato che questa impotenza porta o al tipo di fuga che troviamo nel carattere autoritario, oppure a un conformismo ossessivo nel corso del quale l’individuo diventa un automa, perde la sua individualità e tuttavia nello stesso tempo al livello della coscienza si immagina libero e sottoposto solo a se stesso”.
Oggigiorno viviamo nell’epoca del trionfo del capitalismo e la sua vittoria più grande è stata proprio quella di aver plasmato una società di consumatori abbindolati dal tranello della retorica dell’individualismo, quando in realtà ci viene fornito un unico modello a cui conformarci. Come l’inferno che vivono Carla e Michele nel romanzo Gli indifferenti, crediamo di realizzare i nostri desideri, ma in realtà siamo sempre all’interno di un percorso obbligato che il sistema sociale impone, e questo ci angoscia e ci rende rancorosi. Inoltre, guardiamo con una visione moderna alla voglia di normalità e inclusione che guida la vita di Marcello nel Conformista. Negli ultimi anni è stata decodificata una nuova ansia sociale denominata FOMO, fear of missing out, la paura di restare fuori, di non essere inclusi nella socialità. Un disturbo nato in concomitanza con l’espandersi dell’utilizzo dei social, mezzi di comunicazione che per eccellenza esaltano l’individualismo di massa.
Moravia, da grande intellettuale quale fu, ebbe ben chiara la visione del futuro che si andava formando davanti ai suoi occhi, ossia il mondo che viviamo noi oggi. In una delle ultime interviste che rilasciò pochi mesi prima di morire, riallacciandosi al pensiero di Baudrillard, disse: “Questa mutazione della cultura mondiale in spettacolo, ossia in consumismo, dev’essere temuta non soltanto dalla cultura dello smascheramento, ma anche dalle religioni: dal cattolicesimo come dall’islam. Nel libro di Salman Rushdie gli ayatollah temono, non la bestemmia, ma la nullificazione, la liquidazione dei loro valori”. Il nichilismo, la negazione di ogni valore, che Nietzsche chiama “il più inquietante tra tutti gli ospiti” si è pienamente compiuto, se possiamo avere l’ardire di immaginare che avesse una coscienza volta alla conquista delle nostre anime. Eppure i grandi letterati come Moravia, anche attraverso l’esempio delle loro vite, danno una speranza persino quando narrano storie che la speranza sembrano non contemplarla affatto: lo studio e l’analisi sono l’unica arma per difenderci dall’aridità che ci circonda, per evitare che l’indifferenza e il conformismo ci rendano incapaci di provare empatia verso il prossimo e impossibilitati a elaborare pensieri autentici.