Napoli la conoscono tutti. Napoli è la mia città. Le sue strade sono parte integrante della mia vita. Napoli, posso dire, me l’ha salvata la vita, proprio nelle primissime ore, quando mi ha accolta in un ospedale meglio attrezzato di quello della cittadina in cui sono nata. A diciotto anni, quando tentavo di scapparne. A venticinque, quando mi ha fatto sentire che il mio panico, il terrore di vivere, valeva meno della sua meraviglia. Morirò, pensavo. Ma, di colpo, preferivo farlo per strada e tra la gente, che in casa, sola. I pensieri che nemmeno riuscivo a decifrare, Napoli se li prese. C’era troppo cui fare attenzione. Bastava un attraversamento sulla strada trafficata e dimenticavo ogni altra cosa. Non era esattamente un miracolo. Le mie inquietudini tornavano presto. Solo che ce le avevano anche gli altri. Che non fossi l’unica ad avere problemi era una condizione lampeggiante come un’insegna. Due eventi, su tutti, me lo resero evidente.
Il primo, il giorno dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Presi un autobus. Poiché, all’epoca come adesso, si poteva aspettare anche mezz’ora prima che ne arrivasse uno, era già zeppo di persone e ne caricò anche di più. Tra loro c’eravamo io e una signora anziana. Strepitava, preoccupata dei kamikaze, solo che la parola le suonava così simile a un’altra da convincersi che fosse la stessa. I kamikaze erano, nella sua lingua, capa ‘e cazz’, teste di cazzo. La paura e l’ansia che tutti provavamo si squarciò. Non c’era niente da ridere, ma lo stavamo facendo. Il secondo evento, invece, mi vede sempre a bordo di un bus, sempre molto atteso, sempre stracarico. Ero salita a una fermata e, d’improvviso, alla successiva, discesi. Era successo qualcosa, nei vicoli oltre l’asse viario. Un agguato. Camorra. Ero in compagnia di un giornalista, io stessa provavo a diventarlo, e così eccoci sul luogo dell’omicidio, stretti tra la folla che non aveva visto ma voleva vedere. In quello stesso posto ci sono tornata altre mille volte. C’era e c’è ancora una delle pasticcerie più buone della città. C’era e c’è ancora il mercato. C’era la mia estetista. C’era casa. In quello stesso posto, oggi ci sono i turisti.
A Napoli, nel rione Sanità – che nei primi anni del 2000 appariva come luogo esotico e pericoloso – adesso trovi gente alla ricerca dei famosi pasticcini con la crema di latte. Ci sono le pizze della tradizione e quelle gourmet. C’è il palazzo dello Spagnuolo che non è ancora davvero diventato il museo di Totò, ma chissà, comunque è bellissimo. C’è il palazzo Sanfelice dove hanno girato la fiction Mina Settembre. Ci sono i murales. E c’è ai margini del Borgo dei Vergini un nuovo bagno pubblico, sistemato appositamente per i visitatori. Del resto, a sancire l’apertura di una stagione estiva dai grandissimi numeri, nel luglio 2023, in pieno centro storico è stato inaugurato il primo wc shop: “Se ti scappa”, bagno privato a pagamento.
Ho scritto dell’esplosione turistica di Napoli per la prima volta nel 2019. Raccontavo che dall’appartamento in cui vivevo si potevano vedere gli aerei che atterravano a Capodichino. Nuove rotte, nuovi visitatori e io a immaginarmeli. Sotto casa, nel giro di pochi mesi, avevo subito un tentativo di rapina e una specie di aggressione schivati all’ultimo. Queste cose m’apparivano ai tempi nel novero delle possibilità. Vivevo vicino al luogo in cui, a fine 2017, un ragazzo di 17 anni era stato accoltellato da altri giovanissimi. Prima ancora, lungo una strada su cui camminavo ogni giorno, c’era stato l’omicidio di un ventiduenne, gommista in un’officina. Ancora, a 180 metri da lì,vari blitz anti-prostituzione.
Non mancavano certo presidi delle forze dell’ordine e delle istituzioni nelle vicinanze. Non mancavano i luoghi di cultura, con il San Ferdinando (il teatro di Eduardo De Filippo), il Museo Archeologico Nazionale e il Museo di Arte Contemporanea Madre. Non mancava il verde, con l’Orto Botanico. Non mancavano i mezzi di trasporto con metropolitane, autobus e tram almeno sulla carta. C’erano abbastanza posti, anche storici o resi noti da film hollywoodiani, dove mangiare la pizza. C’erano rimandi al cinema italiano, da Vittorio De Sica a Luciano De Crescenzo. C’era la voce di Anna Maria Ortese, a raccontare il suo amore per la “Grande via”. C’era bellezza. Lasciai quella casa con tristezza, preoccupata che il proprietario la prendesse a male. Invece accolse la notizia che me ne andavo quasi lieto. Quell’appartamento è, oggi, una casa vacanza. Le recensioni sono ottime. Il massimo della lamentela è per i tre piani senza ascensore.
Poche settimane fa, sono tornata sul posto. Puoi togliere la ragazza dal vicolo, ma non toglierai mai il vicolo, la sua rete di contatti di prossimità, dalla ragazza. Ho parlato con un commerciante, guardavamo la strada. Una volta così ampia da diventare campo di calcetto, adesso è ingombra di tavolini. Lui, che non vende cibarie, è circondato da gente che beve, mangia, paga e se ne va. Napoli, città del provvisorio perenne, si è gazebizzata. Resiste il chioschetto del “bror’ ‘e purpo”, il brodo di polpo, servito caldo e pesante di pepe. Più della traduzione in italiano, però, sul cartellone c’è quella inglese: “Octopus broth”.
C’è anche un altro elemento di cui tenere conto: fino a cinque anni fa, quel particolare angolo di via era di quelli a cui prestare attenzione. Quell’attenzione connaturata al vivere a Napoli come in qualsiasi altra città caotica. Anche quella data da un’evidenza: il traffico, soprattutto a tarda sera, è veloce e va in più direzioni. Facilmente ci si ritrovava a portata di scippo. Obiettivo principale, una volta, erano i turisti. Nell’intera area succede ancora, ma molto meno. Adesso, mi dice il negoziante, non li toccano più. Hanno imparato che il turismo fa campare più di una rapina? Forse. Il vero problema è un altro, mi fa. Il vero problema sono gli affitti. Provate, anche se non vi interessa davvero, a cercare casa a Napoli. La città che accoglie chiunque, basta che rinunci alla sua identità per dirsi momentaneamente rapito da Partenope pare non volere che qualcuno pensi di restarci più a lungo. C’entra, ovviamente, il boom turistico con il 78% di occupazione di camere nei primi sei mesi del 2023 e numeri del 15-20% in più dell’era pre-covid. Gli sfratti anticipati si moltiplicano perché i proprietari appaiono ansiosi di approfittare della bolla turistica.
Come direbbe una delle canzoni classiche della tradizione napoletana, “Nun c’è bisogno ‘a zingara p’andiviná”, non occorre essere veggenti per capire: chi dispone di una casa vuota risulta più interessato alla folla che va e viene, che ad affittuari stabili. Si investe in lenzuola – adesso si noleggiano – e colazioni, proponendosi come B&B. A Pasqua 2023 i prezzi potevano toccare i 1000 euro per una notte in centro storico. Se la primavera precedente era facile trovare sistemazioni extra alberghiere sotto i 100 euro, adesso è difficile stare sotto i 200. Potremmo chiamarlo “effetto scudetto”.
Ai Quartieri Spagnoli, mecca di tifosi e simpatizzanti del Napoli da tutto il mondo, ci sono andata a marzo. Anni fa, sceglievo questi vicoli per tagliare quando via Toledo era troppo affollata, c’erano taverne con menù di tre portate presentate a voce, c’era – c’è ancora – una delle educative territoriali più attive in città. Adesso sapevo di grandi folle e ne pronosticavo altre, dunque la mia era una scelta fatta tenendone conto. Stretta tra la gente, però, il mio unico vantaggio di cittadina è stato il saper dove svoltare. Ecco l’unica vera profezia dell’ex sindaco Luigi De Magistris, che immaginava questa zona – dove nel 2011 al turista veniva sconsigliato di addentrarsi – come Montmartre e, anche se il paragone con la collina degli artisti parigini non collima in tutto nel 2023, quello stesso turista sono tutti pronti ad accoglierlo. C’è movida serale e notturna e durante il giorno molti visitatori. Ci vanno soprattutto per vedere i murales: il posto d’onore va al gigantesco Maradona, ma ci sono anche Totò e Sophia Loren. E pizzerie, baretti e gente che ti richiama verso chioschi di limonata “a cosce aperte”, perché è resa effervescente dal bicarbonato e quindi bisogna bere velocemente, tenendo le gambe separate per non bagnarsi.
Per anni abbiamo detto male di chi diceva male di Napoli. A tutela sua ci siamo esposti quasi si trattasse di un familiare. Abbiamo visto addirittura l’apertura di uno sportello comunale per difenderla da pregiudizi. Sul sito del Comune, oggi amministrato dal professore e rettore universitario Gaetano Manfredi, non sembra però esservene più traccia. Forse non serve più. Forse un tempo non ci piaceva come gli altri ci raccontavano e oggi, invece, il ritratto – letterario, cinematografico, musicale – tutto sommato ci soddisfa. Il racconto perenne, sublimato nello scudetto, ci è sembrato capace di farci superare il topos tipico della doppiezza. Sotto le bandiere azzurre della vittoria del campionato, si riappacificavano le due anime della città, presentate sempre come distinte e separate: quella che si ingegna e quella che se ne approfitta. Tutto è sfociato in un surplus di storie, serie, libri, film, video di TikTok con consigli di posti in cui mangiare con 5 euro. Chi viene a Napoli lo fa richiamato da queste narrazioni non sempre coerenti, non sempre felici, ma affascinanti.
I residenti si sono detti più o meno questo: la città satura di turisti risponde con attività per turisti, è ovvio. E poi: è così bello sentire tante lingue e accenti nei vicoli. Peccato che, come succede anche altrove, si stia lasciando poco spazio a chi la vive quotidianamente. Bisognerebbe quindi migliorare i servizi. Bisognerebbe pensare in grande, andare oltre. Non siamo riusciti a pensare che Napoli potrebbe non reggere al meglio la consacrazione globale e la sua festa continua, condensata in un’experience. E a pochi è venuto il dubbio che tutto ciò potrebbe non bastare a tenerla su, proprio come la Galleria Principe di Napoli.
Set de L’amica geniale, sede di nuovi esercizi commerciali e iniziative, caffè a forte vocazione sociale e punti dedicati alla mobilità sostenibile, in estate la galleria ha perso pezzi, intonaco e calcinacci sulla strada occupata spesso da senza dimora in cerca di fresco. Vista da lì, Napoli sembrava sfarinare in un’amplificazione di disparità sociali ed economiche. Eppure, la storia che ci siamo raccontati – e fatti raccontare per mesi – era diversa. Diceva che Napoli stava finalmente smantellando un’impalcatura narrativa messa su negli anni ‘70 e ‘80, a sua volta decostruttiva dell’immaginario del dopoguerra e degli anni ‘60.
Una mattina di agosto, fuori dalle rotte tipiche dei visitatori, mi sono trovata a tradurre le targhette di una pescheria – “ambress sennò fernesc’”; fate presto, sennò finisce – a un gruppo di turisti che, mi hanno detto, non avevano trovato posto in strutture del centro. Ho avuto allora, per la prima volta, un timore. Il timore che si potesse finire Napoli come si finisce una serie, o un libro. La città ha voltato per noi l’ultima pagina il 31 agosto, ed era cronaca nera.
Giovanbattista Cutolo, 24 anni, studente, musicista, e cameriere, è stato ucciso da un minorenne dei Quartieri Spagnoli per futili motivi. L’assassinio ha avuto luogo in piazza Municipio. Piazza Municipio è ampia. Da un capo vi affaccia palazzo San Giacomo, sede del Comune, all’opposto c’è il porto dove attraccano navi da crociera e imbarcazioni per Capri, Procida, Ischia. Su un lato c’è il Maschio Angioino, sull’altro, il teatro Mercadante. C’è una stazione della metro con un nuovo sottopasso per chi arriva o parte via mare e, nelle immediate vicinanze, molti B&B. Il grande restyling degli ultimi anni la fa apparire oggi simile a un’opera di De Chirico e ha scontentato tutti quelli che poteva scontentare. A fine giugno 2023, vi è stata installata la versione monumentale della Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto. Il sindaco Manfredi ha predisposto la pulizia degli arredi urbani da scritte e graffiti. La “pace”, però, non è durata neppure per un mese e forse era del tutto metafisica.
Il 12 luglio la Venere è stata incendiata. Un rogo la cui responsabilità è stata accertata in un senza dimora di 32 anni, Simone Isaia, subito arrestato. Eppure, dicono i volontari della Mensa del Carmine, dove l’uomo si recava spesso: “Simone da tempo aveva perso lucidità e riferimenti, finendo a dormire per strada […], ha bisogno di aiuto. Non del carcere, ma di una struttura”. È stata lanciata una petizione dalla casa editrice Iod (oltre 5mila e 700 firme raccolte) e vi è stata una manifestazione. Tra questo punto sulla mappa e il luogo dell’omicidio di Giovanbattista Cutolo ci sono 270 metri, 400 passi e 50 giorni. È la stessa piazza per tutto, gli stessi orari notturni per il rogo e per la violenza. Ed è la stessa piazza in cui, tra il 7 e l’11 settembre si tiene il Bufala Fest, evento dedicato alla mozzarella e non solo.
Tutto questo racconta più di quanto vorrei. Dice, cioè, che le due Napoli (sempre che esistano davvero e siano davvero solo due) vivono e camminano negli stessi luoghi, e che quei luoghi accolgono anche chi arriva solo per andarsene; dice di sforzi, iniziative e possibilità, così come dell’incapacità di tutelarli, anche quando quest’assenza è lampante e chiama controlli. Dice, inoltre, qualcosa che Don Mimmo Battaglia ha sottolineato dall’altare della chiesa del Gesù Nuovo, celebrando le esequie di Giovanbattista, detto Giogiò: l’indifferenza di chi ogni giorno finge di non vedere e, pur avendo ruoli di rilievo e responsabilità, tarda a mettere in atto provvedimenti.
La collettivizzazione della colpa ha fatto storcere molti nasi. Ma in piazza del Gesù, davanti al bugnato della chiesa, anche quella restaurata di recente, c’era una città a testa china, listata a lutto. La morte di Giògiò non è la prima che la sconvolge: a marzo c’è stato Francesco Pio Maimone e si potrebbe proseguire a ritroso. La lista è così lunga che Canale21, nel seguire i funerali in diretta, ne ha fatto una copertina: immagini di Napoli, dei musei, delle strade e dei vicoli, e in sottofondo i nomi dei morti ammazzati.
Ogni tanto questa città mi appare come l’amica bellissima, saggia e divertente con cui hai condiviso tutto, ma che ha preferito farsela con una manica – a Napoli diremmo “vrancata”, da “abbrancare” – di stronzi piuttosto che con te. Altre, mi sembra che l’unico fenomeno rimasto autentico, a completo appannaggio dei residenti – poiché non lo si può né raccontare né filmare, ci devi stare dentro – sia il puzzo di fritto, pari solo al rumore che in certi posti è una costante. Altre ancora penso che Napoli sia come Dorian Gray, il personaggio di Oscar Wilde, solo che al posto dello specchio abbiamo il telegiornale. Finisco a invidiare, per brevi momenti, lo sguardo dei turisti quando vedono per la prima volta il panorama da San Martino. Sempre, infine, ripenso a una scritta su un muro dei Quartieri Spagnoli: “Napoli non si vende”. Anch’io sono convinta della non-vendibilità di Napoli; sarebbe interessante, però, capire chi l’ha messa sul mercato e a che prezzo, con quale frase ad effetto. La nostra meraviglia, la nostra vittoria, le nostre cadute, le vergogne, gli errori, la ripresa, la bellezza, la dignità, la violenza, la tristezza, il dolore, l’umanità bella e brutta, buona e cattiva, a quanto stanno? Cantava Edoardo Bennato nel 1989 sulla grande incompiuta Bagnoli: “Colline verdi, mare blu. Avanti chi offre di più”.