Ne I paradisi artificiali, insieme di saggi composti tra il 1850 e il 1860, Charles Baudelaire metteva in relazione l’attrazione dell’uomo per le droghe e le conseguenti dipendenze causate dal suo “gusto per l’infinito”. Che questo gusto esista è certo: altrimenti come si spiegherebbero quegli stati d’animo che talvolta si provano anche a mente lucida, in cui facciamo esperienza di uno sguardo diverso, più ampio e penetrante, sul mondo esterno e su quello interiore? Il problema è che questi attimi magici, che rappresentano per l’autore de I fiori del male la fonte più autentica della poesia, sono purtroppo rari, ed è questa la ragione per cui si cerca di renderli più frequenti con dei surrogati.
Circa un secolo più tardi lo scrittore britannico Aldous Huxley, animato dallo stesso sguardo filosofico, sperimentò su di sé la mescalina, una droga potentissima ricavata dal peyote e scoperta dai nativi americani. Le sensazioni provate durante il trip, la cui descrizione è affidata alla testimonianza registrata dello psichiatra Humphry Osmond, inventore della parola ‘psichedelico’, diventeranno poi materia per il saggio del 1954 intitolato Le porte della percezione: il testo ebbe un forte impatto sull’immaginario giovanile a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento – in particolare sulla cultura hippy –, ma continua ancora oggi a offrire spunti di riflessione.
Huxley parte dalla constatazione che nel cervello umano opera un filtro – personificato con l’immagine di un borghese bigotto e prosaico, piuttosto pragmatico – che spinge a focalizzare le proprie energie su ciò che è utile per la sopravvivenza. Per questo i nostri sensi hanno accesso soltanto a una limitata porzione della realtà. La droga, alterando gli ordinari processi chimici del cervello, manderebbe secondo lui in vacanza questo filtro utilitarista, ampliando i confini della percezione in modo da recuperare anche i materiali considerati superflui. Sarebbe questa la ragione per cui, sotto l’effetto delle sostanze psicotrope, anche chi è “povero di immaginazione” arriva a provare stati d’animo di intensa eccitazione paragonabili al normale modo di vedere dei grandi artisti e dei mistici: di coloro, cioè, ai quali il mondo appare ogni giorno in tutta la sua bellezza, non offuscato dai calcoli o dai pregiudizi delle persone comuni.
Ecco allora che, sotto tale incantesimo, ogni oggetto, anche il più banale, si distacca dal suo contesto utilitario e risveglia il suo interesse in modo nuovo e inaspettato, come una porta magica aperta su un universo parallelo e una diversa dimensione spazio-temporale. Le semplici gambe di una sedia, considerate non in rapporto alla loro funzione di reggere il peso del corpo, arrivano così a suscitare in Huxley una meraviglia carica di echi biblici ed esoterici: “Come i narcisi selvatici di Wordsworth, esse arrecarono ogni genere di ricchezza, il dono senza prezzo, di una nuova penetrazione diretta nella stessa Natura delle Cose, insieme al più modesto tesoro di comprensione nel campo, particolarmente, delle arti. Una rosa è una rosa e solo una rosa. Ma queste gambe di sedia erano gambe di sedia ed erano san Michele e tutti gli angeli”.
A rendere però meno idilliaca l’esperienza visionaria, l’autore ricorda (soprattutto in un secondo saggio sull’argomento intitolato Paradiso e Inferno e uscito nel 1956) che c’è sempre la possibilità di vivere un bad trip, che in luogo di emozioni estatiche provoca un forte senso di disagio e visioni da incubo: “Vi è l’inferno così come vi è il paradiso”. Inoltre, sottolinea il fatto che anche quando la droga dà l’illusione di toccare il cielo con un dito, si accompagna ai suoi effetti una “impossibilità all’azione” unita a indifferenza verso l’ambiente: atteggiamento che a lungo andare non può certo portare benefici sul piano concreto né su quello spirituale.
L’intenzione di fondo di Huxley, che in alcuni punti del suo discorso sembra stuzzicare la naturale attrazione verso il proibito che proviamo in molti, non è quella di incoraggiare il consumo acritico di sostanze stupefacenti. Vuole piuttosto suggerire che dietro il nostro modo limitato di percepire la realtà e il nostro stesso io si celano infiniti mondi possibili, in cui ogni tanto faremmo bene a perderci. Interpretazione anticipata quasi due secoli prima da un un verso tanto bello quanto enigmatico del poeta inglese William Blake, da cui è tratto il titolo del saggio di Huxley: “Se le porte della percezione / fossero sgombrate, / ogni cosa apparirebbe com’è, infinita”.
Il saggio di Huxley influenzò e ispirò molti artisti anche nel campo musicale, in particolare la band dei The Doors e il loro leader Jim Morrison, attivi alla fine degli anni Sessanta. Il loro stesso nome non era altro che un omaggio ad Huxley e Blake, oltre che un invito poetico e musicale a varcare le ‘porte’ ed esplorare l’ignoto.
Andando oltre le strumentalizzazioni del suo saggio, bisogna riconoscere ad Huxley il merito di aver posto l’accento su un problema sempre attuale e di grande fascino: il costante bisogno di evasione che spinge l’animo umano verso diverse forme di dipendenza, bisogno ancora più marcato nella società occidentale figlia della rivoluzione industriale e tecnologica. È infatti evidente nel saggio una critica al suo razionalismo esasperato e alla sua mancanza di spiritualità.
Da questa constatazione deriva il suo scetticismo sulla possibilità di fare a meno delle droghe: “Che l’umanità in genere sarà mai in grado di fare a meno dei Paradisi Artificiali, sembra molto improbabile. La maggior parte degli uomini e delle donne conduce una vita, nella peggiore delle ipotesi così penosa, nella migliore così monotona, povera e limitata, che il desiderio di evadere, la smania di trascendere se stessi, sia pure per qualche momento, è, ed è stato sempre, uno dei principali bisogni dell’anima”.
Insomma, le droghe possono essere anche proibite, ma il desiderio di fuga dalla realtà fa parte della stessa natura umana e talvolta è così forte che non indietreggia nemmeno di fronte agli evidenti rischi connessi alle dipendenze. Un bicchiere di vino, una sigaretta, decine di diverse sostanze stupefacenti offrono un conforto immediato, per quanto effimero. Ma pur di provare qualche attimo di ebbrezza o di stordimento quasi chiunque è disposto a sorvolare sui danni a lungo termine e sui costi anche economici di queste cattive abitudini. L’elemento dionisiaco ha in queste situazioni la sua rivincita su quello razionale, diventato troppo opprimente e repressivo.
Se Baudelaire esaltava la poesia come l’unica vera ‘droga’, Huxley invita a un risveglio della consapevolezza interiore, l’unico mezzo attraverso il quale ci si può liberare dalle sovrastrutture che soffocano l’espressione della libertà e della creatività personale, per “preservare e, se necessario, intensificare la nostra capacità di guardare il mondo direttamente e non per il tramite mezzo opaco dei concetti, che deformano ogni dato fatto nell’apparenza fin troppo familiare di qualche etichetta generica o di qualche astrazione esplicativa”. Solo così si può combattere un sistema di pensiero tossico che valorizza l’utile.
Dovremmo quindi, in primo luogo, capire che il trascendente è a portata di mano e l’infinito in ogni cosa, dentro e fuori di noi. Come si aprono le porte della percezione, allora? Ognuno è libero di trovare il suo metodo, in assenza di uno universale. Forse sarebbe già un ottimo inizio riscoprire una più profonda comunione con l’universo visibile e invisibile che ci circonda. Potrebbero essere esperienze rivelatrici anche gesti all’apparenza semplici, come frequenti passeggiate nella natura, più carezze, più abbracci, il coraggio di abbandonarsi senza resistenze all’amore, all’amicizia, all’erotismo, o anche fermarsi più spesso a contemplare un paesaggio, una pietra o un fiore nel suo lento e impercettibile crescere giorno dopo giorno. Allora gli istanti meravigliosi di cui parlava Baudelaire non sarebbero più così rari, e il bisogno di surrogati chimici diventerebbe meno assillante, magari fino a scomparire del tutto.
Purtroppo ancora molti di noi preferiscono affidarsi all’illusione, effimera ma in un primo momento inebriante, di avere in tasca il segreto della felicità, pronto per l’uso. Un inganno da cui i poeti ci mettono in guardia, ricordandoci che per quanto elaborate queste imitazioni dell’estasi non saranno mai autentiche quanto quella reale.